Le intuizioni intorno a cui Paulo Freire ha costruito un pensiero pedagogico complesso, sperimentato sul campo insieme a tanti e tante per lunghi anni, permettono ancora oggi di pensare alla libertà e alla speranza come processi permanenti. Rifiutare l’idea di elargire formule a coloro che sono in basso, intrecciare l’idea del sapere con la partecipazione critica, proporre il dialogo non solo come relazione orizzontale ma come relazione di fiducia, rendere sempre protagonisti del proprio sforzo coloro che apprendono restano assi portanti per qualsiasi movimento di educazione popolare. Un capitolo del libro L’educazione come pratica della libertà, il primo libro di Freire che Mimesis ha riportato nelle librerie

La preoccupazione che riguarda la democratizzazione della cultura, nel quadro più ampio della democratizzazione generale, ci portava necessariamente a dare una speciale attenzione ai deficit quantitativi e qualitativi della nostra educazione.
Tali deficit sono veramente allarmanti e sono altrettanti ostacoli allo sviluppo del paese e alla creazione di una mentalità democratica. Sono realtà che contraddicono il suo slancio di emancipazione.
Il numero di bambini che hanno raggiunto l’età scolastica e sono senza scuola è di circa 4 milioni, e il numero degli analfabeti dopo i 14 anni raggiunge i 16 milioni, senza dire della inadeguatezza della nostra educazione per tutti gli altri cittadini. Le cifre sono eloquenti.
Da oltre quindici anni accumulavamo esperienze nel campo della educazione di adulti, in zone proletarie e sottoproletarie, urbane e rurali.
Avevamo notato che le popolazioni urbane avevano fame di educazione, in rapporto diretto con il sorgere della loro coscienza transitiva, mentre le popolazioni rurali non ne sentivano la mancanza, perché la loro coscienza era intransitiva. Oggi alcune di queste aree si trovano in stato di transizione.
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Avevamo nutrito sempre una grande fiducia nel popolo, rifiutando sempre di elargirgli formule, perché abbiamo sempre creduto di dover ricevere da lui e non già di dovergli solo dare.
Avevamo esperimentato metodi, tecniche, processi di comunicazione. Abbiamo superato tutti questi strumenti, ma non abbiamo mai abbandonato la convinzione che solo in mezzo al popolo e con lui avremmo potuto realizzare qualcosa di serio e di autentico. E mai abbiamo ammesso che la democratizzazione della cultura consistesse nella sua volgarizzazione, né che fosse possibile dare già pronto al popolo quello che noi avevamo elaborato nelle biblioteche, come precetti da eseguire.
Siamo sempre stati convinti con Mannheim che “mano a mano che i processi di democratizzazione si generalizzano, diventa sempre più difficile che le masse restino nel loro stato di ignoranza”1. Parlando di ignoranza, Mannheim non si limita all’analfabetismo, ma vuol riferirsi all’inesperienza di partecipazione e alla incapacità di intervento, che dovrebbero essere sostituite dalla partecipazione critica, cioè da una forma di sapere. Solo la partecipazione e l’esercizio del giudizio critico potevano far sì che le masse si trasformassero in popolo di maggiorenni, capace di scegliere e decidere.
Alcune esperienze più recenti realizzate nel 1962 in seno al Movimento di cultura popolare di Recife ci hanno portato a maturare le convinzioni già maturate fin da quando in gioventù cominciammo a frequentare proletari e sottoproletari, in un rapporto educativo.
In quel movimento avevamo il compito di coordinare il Piano per l’educazione degli adulti che ci aveva spinto alla creazione di due istituzioni basilari per l’educazione e la cultura popolare: il circolo di cultura e il centro di cultura2.
Nel primo avevamo organizzato dibattiti in gruppo, sia in cerca di chiarire le situazioni, sia in funzione proprio dell’agire, che derivava dall’analisi delle situazioni.
Il programma dei dibattiti ci era proposto dai gruppi stessi, nelle interviste da cui risultava quali e quanti problemi essi volessero trattare: “nazionalismo”, “fuga dei capitali all’estero”, “evoluzione politica del Brasile”, “sviluppo”, “analfabetismo”, “il voto dell’analfabeta”, “la democrazia” erano i temi che via via si ripetevano nei vari gruppi.
Tali argomenti, arricchiti con altri ancora, venivano il più possibile schematizzati e, con l’aiuto di strumenti visivi, erano presentati ai gruppi in forma dialogica. I risultati erano sorprendenti.
Dopo sei mesi di esperienza ci domandavamo se non fosse possibile fare qualcosa di simile, usando il metodo attivo, nel campo dell’alfabetizzazione di adulti, in modo da ottenere risultati analoghi a quelli che stavamo ottenendo nell’analisi dei vari aspetti della realtà brasiliana3.
Fin da principio scartammo qualunque ipotesi di alfabetizzazione esclusivamente meccanica, e pensammo all’alfabetizzazione dei brasiliani in termini di presa di coscienza, dal momento che stavano emergendo alla nostra realtà storica. Pensammo a un lavoro che tentasse il passaggio dalla coscienza naturale alla coscienza critica, unendovi anche l’alfabetizzazione.
Pensavamo a una alfabetizzazione orientata e legata alla democratizzazione della cultura, che fosse un’introduzione a questa democratizzazione. A un’alfabetizzazione quindi che non facesse dell’uomo un paziente a cui si applica un processo, la cui unica virtù deve essere proprio quella della pazienza per sopportare l’abisso che separa la sua esperienza vitale dal contenuto dell’insegnamento, ma che facesse dell’uomo il soggetto della sua educazione. A dire il vero, soltanto con una grande pazienza si può sopportare, dopo la durezza di un giorno di lavoro, o senza lavoro, lezioni che parlano di “ala” (Pietro ha visto l’ala – L’ala è dell’uccello). Lezioni che parlano di “Eva” e di “uva” a gente che il più delle volte conosce poche Eve e mai ha mangiato l’uva… “Eva ha visto l’uva”. Pensavamo a una alfabetizzazione che fosse per sé stessa un atto creativo, capace di generare altri atti creativi; a un’educazione in cui l’uomo, non essendone il paziente né l’oggetto, sviluppasse l’impazienza, la vivacità propria di chi cerca, inventa e trasforma.
Partivamo da alcuni dati cui se ne andavano aggiungendo altri, con il valido aiuto del Servizio di estensione culturale dell’università di Recife, che a quel tempo era diretto da noi e nella cui orbita si fissò definitivamente l’esperienza.
Partivamo dal fatto che la condizione normale dell’uomo (come si è visto nel primo capitolo) consiste non solo nello stare nel mondo, ma nello stare col mondo; pensavamo che l’uomo deve stabilire dei rapporti permanenti col mondo e attraverso atti di creazione e ricreazione, partendo dal mondo della natura, deve riuscire a dare un contributo personale a costruire una realtà culturale. Attraverso questi rapporti con la realtà e nella realtà l’uomo intreccia un legame specifico, da soggetto a soggetto, da cui risulta la conoscenza, espressa nel linguaggio.
Tale legame è stabilito dall’uomo indipendentemente dal fatto che sia alfabetizzato o no. Basta il fatto di essere uomo per realizzarlo, per arrivare a sapere, anche se questo sapere è soltanto relativo, cioè non si tratta né dell’ignoranza assoluta né della sapienza assoluta4. Tuttavia l’uomo non coglie il dato della realtà, il fenomeno, la situazione problematica allo stato puro. Nel cogliere il problema, il fenomeno, percepisce anche i loro rapporti logici. Impara la causalità. La comprensione sarà tanto più critica se riesce a percepire la causalità autentica. Sarà tanto più magica se la causalità è percepita al minimo. Mentre per una coscienza critica anche la causalità è sempre oggetto di analisi (quello che oggi è vero può non esserlo più domani), per una coscienza naturale anche quello che sembra causalità non lo è affatto, dal momento che assume un carattere statico, come qualcosa di già compiuto e stabilito.
La coscienza critica è “la percezione delle cose e dei fatti così come avvengono nell’esistenza empirica, nei loro rapporti logici e circostanziali”. Al contrario, “la coscienza naturale si giudica superiore ai fatti, come se li dominasse dal di fuori, per cui crede di essere libera di capirli come meglio crede”5.
La coscienza magica, d’altra parte, non arriva a credersi “superiore ai fatti, dominandoli dal di fuori, e neppure si giudica libera di intenderli come meglio crede”. Li coglie e basta, attribuendo loro un potere superiore, che la domina dal di fuori e al quale per ciò stesso è costretta a sottomettersi docilmente. È proprio di una simile coscienza il fatalismo, che porta a incrociare le braccia, nell’impossibilità di reagire di fronte all’onnipotenza del destino che ha sempre ragione sull’uomo.
Per questo l’integrazione con la realtà caratterizza la coscienza critica mentre il sovrapporsi alla realtà caratterizza la coscienza naturale. Nel contesto delle analisi fatte nel primo capitolo sulla coscienza, potremmo aggiungere ancora che la coscienza fanatica, che è la patologia dell’ingenuità, spinge all’irrazionale e si caratterizza per l’adattamento e il compromesso.
Succede però che quando si capisce una cosa, presto o tardi si agisce in conformità con quello che si è capito. Quando l’uomo è arrivato a cogliere una sfida, quando l’ha capita e ha accettato l’ipotesi di una risposta, decide di agire. La natura della sua azione corrisponde alla natura della sua comprensione. Se la sua comprensione è critica o prevalentemente critica, anche l’azione sarà tale. Se la comprensione è magica, magica sarà pure l’azione.
In una società in transizione come la nostra, travagliata da un processo generale di democratizzazione dove gran parte del popolo comincia a emergere, bisognava tentare un’educazione capace di collaborare col popolo nell’organizzazione indispensabile del suo pensiero; un’educazione che gli mettesse a disposizione i mezzi per superare la percezione magica o naturale della realtà, a favore di una comprensione prevalentemente critica. Questo voleva dire collaborare col popolo perché assumesse attitudini sempre più coerenti col clima dinamico della fase di transizione; posizioni integrate con le esigenze di democratizzazione generale, e quindi tali che combattono l’inesperienza democratica.
Stavamo tentando in questo modo un’educazione che ci sembrava proprio quella di cui avevamo bisogno, identificata con le condizioni della nostra realtà, veramente strumentale, perché integrata col nostro tempo e col nostro spazio.
Fin d’allora pensavamo al metodo attivo per formare il giudizio critico dell’uomo attraverso il dibattito di situazioni provocanti, ma bisognava presentare ai gruppi delle questioni che per loro fossero vitali; altrimenti avremmo ripetuto gli errori dell’educazione alienata e alienante.
La stessa analisi che stavamo facendo della società brasiliana come società in transizione, densa di contraddizioni, ci serviva di stimolo.
Sentivamo che era assolutamente urgente un’educazione capace di contribuire a quel tipo di inserimento di cui abbiamo tanto parlato, un inserimento adatto a un popolo che stava emergendo attraverso lo spaccarsi della società e capace di aiutarlo a passare dalla transitività naturale a quella critica. Solo così avremmo evitato la sua massificazione. Si trattava allo stesso tempo di un dato della nostra esperienza educativa e di un dato concreto della sua esistenza.
Ma come realizzare tale educazione? Come offrire all’uomo i mezzi per superare i suoi atteggiamenti magici o naturali di fronte alla realtà?
Come aiutarlo a creare l’insieme dei suoi segni grafici, se era analfabeta? Come aiutarlo a inserirsi?
Proponevamo come risposta:
a) l’uso di un metodo attivo, dialogico, critico e criticizzante;
b) la modificazione del contenuto programmatico della educazione;
c) l’uso di tecniche come la riduzione e la codificazione. Prima di tutto solo un metodo attivo, dialogico, partecipato avrebbe potuto portarci al nostro scopo6.
In che consiste il dialogo? Il dialogo è un rapporto orizzontale tra A e B. Nasce da una matrice critica e genera criticità (Jaspers). Si nutre di amore, di speranza, di umiltà, di fede, di fiducia. Per questo solo il dialogo è capace di comunicare. Quando i due poli del dialogo si uniscono nell’amore, nella speranza, nella fede reciproca, diventano critici e cercano insieme qualcosa di nuovo. Ne deriva una corrente di simpatia reciproca che genera la comunicazione.
“Il dialogo è quindi” dice Jaspers “il cammino insostituibile non solo nelle questioni vitali del nostro universo politico, ma in tutte le dimensioni del nostro essere. Tuttavia solo in forza della fiducia il dialogo diventa stimolante e significativo; fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità, fiducia che io riesco a essere me stesso solo quando anche altri arrivano a essere sé stessi”.
Si tratta di quel dialogo che abbiamo opposto all’antidialogo, così frequente nella nostra formazione storica e culturale, così presente e allo stesso tempo così contrario al clima di transizione.
L’antidialogo7, che stabilisce un rapporto verticale di A su B, è l’opposto della comunicazione: è senza amore, è acritico e non suscita criticità, proprio perché non è amoroso; non è umile, non è nutrito di speranza, è arrogante e autosufficiente. L’antidialogo rompe quel rapporto di simpatia tra i due poli, che è proprio del dialogo. Per cui l’antidialogo non comunica; si limita a trasmettere comunicati8.
Ma c’è di più. Chi dialoga, dialoga con qualcuno su qualche cosa. Questo qualche cosa avrebbe dovuto essere il contenuto programmatico nuovo dell’educazione che volevamo difendere.
Ci sembrava che la prima dimensione del nuovo contenuto, per mezzo del quale avremmo aiutato l’analfabeta, ancora prima di iniziare la sua alfabetizzazione, a superare la comprensione magica e naturale e a crescere in quella critica, dovesse essere il concetto antropologico di cultura. La distinzione tra i due mondi: quello della natura e quello della cultura. Il compito attivo dell’uomo nella sua e con la sua realtà; il valore di mediazione che la natura rappresenta per i rapporti e le comunicazioni tra gli uomini. La cultura come un’aggiunta che l’uomo fa al mondo che egli non ha creato, la cultura come risultato del suo lavoro, del suo sforzo creatore e ricreatore. La dimensione trascendentale dei suoi rapporti, la dimensione umanistica della cultura, la cultura come assimilazione sistematica dell’esperienza umana, come incarnazione critica e creatrice e non come distribuzione di pareri generici o di prescrizioni imposte dall’alto, la democratizzazione della cultura come riflesso della democratizzazione generale; l’imparare a leggere e scrivere come una chiave con cui l’analfabeta possa introdursi nel mondo della comunicazione scritta; infine, l’uomo nel mondo e col mondo e la sua vocazione a divenire soggetto e a non restare un semplice oggetto.
A partire da qui, l’analfabeta inizierebbe il processo di trasformazione dei suoi atteggiamenti interiori, scoprendosi criticamente artefice di questo mondo della cultura. Scoprirebbe che tanto lui quanto il letterato possiedono il genio della creazione e della ricreazione. Scoprirebbe che è cultura tanto il fantoccino di argilla fatto dall’artista del popolo, suo fratello, quanto l’opera di un grande scultore, di un grande pittore, di un grande mistico, o di un pensatore.
Che cultura è la poesia dei poeti letterati della sua terra come la poesia del canzoniere popolare, perché cultura è ogni creazione dell’uomo.
Per introdurre il concetto di cultura a livello di conoscenza pura e a livello di esperienza concreta, abbiamo operato prima di tutto la “riduzione” del concetto ai suoi elementi fondamentali e poi abbiamo elaborato dei quadri che “codificano” situazioni vissute. Francisco Brennand, uno dei maggiori maestri dell’attuale pittura brasiliana, ha raffigurato queste situazioni realizzando una perfetta armonia tra educazione e arte.
La prima situazione risveglia la curiosità dell’alfabetizzando, che secondo l’espressione di uno scrittore amico, “viveva fuori del tempo e ora comincia a integrarsi nel tempo”9.
È impressionante vedere come si svolgono i dibattiti e con che curiosità gli analfabeti rispondono alle domande contenute nella rappresentazione della situazione che si vuole evocare. Ogni figura della situazione presenta un numero determinato di elementi che i gruppi debbono “decodificare” con l’aiuto del coordinatore del dibattito.
E mano a mano che il dialogo si intensifica intorno alle situazioni codificate e i partecipanti danno le loro risposte differenti e ricostruiscono l’informazione totale contenuta nel quadro, si stabilisce un “circuito” tra tutti i partecipanti, che sarà tanto più dinamico quanto più l’informazione risponderà alle diverse realtà esistenti nei vari gruppi.
Molti di loro, durante il dibattito delle situazioni da cui deducono il concetto antropologico di cultura, affermano, felici e fiduciosi in sé stessi, che non stiamo mostrando loro “niente di nuovo” ma solo rinfrescando la loro memoria. “Io faccio le scarpe” diceva uno di loro “e adesso scopro che il mio lavoro ha lo stesso valore di quello del ‘dottore’ che fa i libri”.
“Domani”, disse una volta uno spazzino della Prefettura di Brasilia discutendo il concetto di cultura, “voglio entrare in servizio a testa alta”. Aveva scoperto il valore della sua persona, si affermava. “Adesso so che io pure sono colto” diceva fieramente un vecchio contadino. E quando gli fu chiesto perché adesso si sentiva colto, rispose con la stessa fierezza: “Perché lavoro e lavorando trasformo il mondo”10.
Nel primo quadro si scoprono i due mondi, quello della natura e quello della cultura, e il compito dell’uomo; poi si succedono altri quadri in cui si fissano e si allargano, volta per volta, le zone di comprensione dei valori culturali. La conclusione dei dibattiti gira intorno alla cultura considerata come acquisizione sistematica dell’esperienza umana, che in una cultura letterata non avviene soltanto per via orale, come nella cultura illetterata, cui mancano i segni grafici. Si passa quindi al dibattito sulla democratizzazione della cultura, che apre la prospettiva dell’alfabetizzazione.
Tutto questo procedimento dialogico esercita una funzione altamente critica e stimolante. L’analfabeta apprende criticamente la necessità di imparare a leggere e scrivere. Si prepara a essere l’agente di questa educazione.
E riesce a esserlo nella misura in cui l’alfabetizzazione diventa ben più che un semplice dominio psicologico o meccanico delle tecniche del leggere e scrivere. Essa è questo dominio, ma a livello di coscienza consiste nel capire quello che si legge, e scrivere quello che si capisce. Comunicazione attraverso il segno grafico. Una vera assimilazione.
L’alfabetizzazione suppone non una memoria visuale e meccanica di frasi, di parole, di sillabe, slegate dall’universo esistenziale, cose morte o quasi, ma un esercizio di creazione e ricreazione. Esige una autoformazione per cui l’uomo interferisce nel contesto della sua vita. Per questo il compito dell’educatore è anzitutto il dialogo con l’analfabeta, circa situazioni concrete, e nell’offrirgli soltanto gli strumenti perché lui stesso si alfabetizzi. L’alfabetizzazione non può essere fatta dall’alto in basso, come un dono o un’imposizione, ma dal di dentro verso il fuori, con lo sforzo dello stesso analfabeta, di cui l’educatore è solo un collaboratore. Per questo cercavamo un metodo che potesse essere anche uno strumento per l’educando e non solo per l’educatore, tale che identificasse, come intelligentemente osservava un giovane sociologo brasiliano11, il contenuto con il processo dell’imparare.
Ecco perché fin da principio abbiamo diffidato dei sillabari12, che distribuiscono i segni grafici come doni, riducendo l’analfabeta alla condizione di oggetto invece che di soggetto della sua alfabetizzazione. Dovevamo d’altra parte pensare alla “riduzione” delle cosiddette parole generatrici13, fondamentali nell’apprendimento di una lingua sillabica come la nostra. Non pensavamo che fossero necessarie quaranta, cinquanta o ottanta parole generatrici per imparare i suoni fondamentali della lingua portoghese. Sarebbe di fatto una perdita di tempo. Ci sembravano sufficienti quindici o diciotto parole per realizzare il processo di alfabetizzazione che passa attraverso la coscientizzazione.
Passiamo adesso ad analizzare le fasi di elaborazione ed esecuzione pratica del Metodo.
Note
1. K. Mannheim, Libertà, potere e pianificazione democratica, Armando, Roma 1968.
2. Secondo le tesi principali che abbiamo svolto fin qui, ci sembrò importante tentare di superare alcuni aspetti dell’esperienza iniziata. Invece della scuola, che per noi è un concetto troppo carico di passività, secondo l’esperienza della nostra stessa formazione (anche quando le si dia l’attributo di “attiva”), abbiamo lanciato i circoli di cultura. Al posto del professore e delle sue abitudini di insegnare “ex cathedra”, abbiamo messo il coordinatore del dibattito. Invece della lezione discorsiva, il dialogo. Al posto dell’alunno con tutte le sue tradizioni passive, il partecipante del gruppo. Invece delle materie e dei programmi alienati, la programmazione omogenea “ridotta” e “codificata” in unità di apprendimento.
3. La prima esperienza fu realizzata a Recife, con un gruppo di cinque analfabeti, di cui due si ritirarono al secondo o terzo giorno. Erano uomini provenienti dalla zona rurale, che portavano con sé un certo fatalismo e una certa apatia di fronte a qualsiasi problema. Del tutto analfabeti. Il ventesimo giorno del dibattito applicammo dei test per misurare l’apprendimento, e i risultati furono favorevoli, positivi. In quel periodo lavoravamo con l’epidiascopio per rendere più flessibile l’esperienza. Proiettavamo una scheda in cui erano rappresentati due recipienti di cucina; su uno era scritto “zucchero” e sull’altro “veleno”. Sotto, la scritta: “Quale dei due useresti per fare l’aranciata?”. Chiedevamo al gruppo di cercare di leggere la domanda e dare la risposta orale. Rispondevano ridendo, dopo qualche secondo: “zucchero”. Allo stesso modo procedevamo con altri test, come per esempio il riconoscimento di linee di omnibus e di edifici pubblici. Alla ventunesima ora, uno dei partecipanti scrisse decisamente: “Mi meraviglio già di me stesso”.
4. Nessuno ignora tutto. Nessuno sa tutto. L’assolutizzazione dell’ignoranza, oltre a indicare una coscienza ingenua circa l’ignoranza e il sapere, diventa strumento nelle mani della coscienza dominatrice che vuol manipolare i così detti “incolti”, gli “assolutamente ignoranti” che, “incapaci di guidare sé stessi”, hanno bisogno di “orientamento”, di “guida”, di “essere condotti” da quelli che si considerano “colti e superiori”.
5. A. Vieira Pinto, Consciência e Realidade Nacional, ISEB, MEC, Rio 1961
6. DialogoQuando c’è un rapporto di “simpatia” tra i due poli, che cercano insieme qualcosa.Matrice: amore, umiltà, speranza, fede, fiducia, criticità..
7. AntidialogoQuando uno dei due poli domina l’altro: il rapporto di “simpatia” è interrotto e il dialogo non può aver luogo. Matrice: disamore, mancanza di umiltà, disperazione, mancanza di fede, sfiducia, acriticità.
8. Cfr. K. Jaspers, Vernunft und Widervernunft in unserer Zeit, cit.
9. Commento fatto da Odilon Ribeiro Coutinho dopo aver assistito a un’esposizione dell’autore sulla sua esperienza.
10. Tali affermazioni si vengono ripetendo nel corso dell’esperienza iniziata in Cile.
11. Celso Beisiegel in un lavoro inedito.
12. Infatti i sillabari, per quanto cerchino di evitarlo, finiscono sempre col donare all’analfabeta parole e frasi che dovrebbero invece risultare dal suo sforzo creatore. L’essenziale per l’alfabetizzazione in una lingua sillabica come la nostra consiste nel portare l’uomo a imparare criticamente il meccanismo di formazione dei vocaboli, in modo che lui stesso faccia il gioco delle combinazioni. Non siamo contro i testi di lettura, che servono allo sviluppo del canale visivo e grafico, ma questi debbono essere in gran parte elaborati dagli stessi partecipanti. Inoltre la nostra esperienza si basa sull’apprendimento dell’informazione attraverso canali diversi e molteplici di comunicazione. Quando c’è un rapporto di “simpatia” tra i due poli, che cercano insieme qualcosa. Matrice: amore, umiltà, speranza, fede, fiducia, criticità.