Un momento della “Scuola di quartiere” 2021. Foto tratta dalla pag. fb di Acmos
Con questo mio intervento cercherò di rispondere affermativamente alla domanda “È possibile una comunità educante?” piuttosto che “Esiste la comunità educante?”. In quest’ultimo caso, infatti, la risposta presupporrebbe l’individuazione di una realtà di comunità che sia già in grado di educare a 360 gradi, con tutti i “connotati a posto”. Mi sembra invece più interessante provare a individuare alcuni criteri e ipotizzare delle direttrici che possano portare una comunità a migliorare in tal senso. La continua ricerca è la migliore strada per arrivare alla meta. E ricerca con tensione solo chi si riconosce in qualche modo imperfetto.
Partiamo dalle “parole”. Esse sono il “materiale grezzo” con cui comunichiamo, ma spesso e volentieri trasmettono significati differenti in base a chi le pronuncia o a chi le recepisce. E questo fatto non aiuta la comprensione reciproca. Anzi, penso sia uno dei fattori principali che impedisce a un insieme di persone, una comunità, di costruire e di andare nella stessa direzione.
Per “comunità” si intende appunto un “insieme di persone che vivono sullo stesso territorio o che hanno origini, tradizioni, idee, interessi comuni” (Dizionario Garzanti). Si capisce perché in un mondo sempre più multiculturale, variegato e complesso come quello contemporaneo non sia immediato o scontato “fare comunità”. Le origini, le tradizioni, le idee sono molte e diverse. Occorre quindi concentrarsi sugli interessi, cioè sugli obiettivi, sui fini.
Nel nostro caso, la comunità “educante” ha, per sua definizione, lo scopo di “educare”. Ma cosa vuol dire “educare”? Tutti sanno l’etimologia della parola “educĕre”: “condurre fuori”, aiutare a far emergere ciò che già è insito nella persona che io, educatore, ho davanti. Aiutare, quindi, a scoprire, a tirar fuori talenti, potenzialità, abilità ecc., ma anche comprensione di sé (atteggiamenti ma anche attitudini), tutto ciò, insomma, che consente all’individuo di comprendersi e, quindi, di crescere.
Chiarire lo scopo dell’educazione, a mio avviso, aiuta le persone coinvolte nel processo educativo a concepirsi come comunità e a tendere, compatibilmente con le peculiarità di ciascuno, verso la stessa meta. Condividere l’obiettivo, come su una barca a vela che deve prendere il largo, favorisce la possibilità che l’equipaggio della “comunità educante” innanzitutto salpi dal porto e poi proceda verso l’orizzonte.
L’orizzonte. La meta. Per educare, per collaborare nella scoperta della realtà e di se stessi di un giovane è fondamentale dare una prospettiva, una visione ampia. Non si impara Leopardi se in qualche modo non lo inserisco in un contesto di senso più ampio. Diceva Saint-Exupery:
“Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per radunare legna, dividere i compiti e impartire legna, ma insegna loro la nostalgia del mare vasto e infinito”.
Chi è mai stato in Portogallo a Cabo de Roca capisce quanto sia vera questa frase: sul promontorio a picco sull’Oceano Atlantico, il luogo più a occidente del continente europeo, si comprende come i nostri antenati abbiano deciso e tentato con tutti i mezzi di avventurarsi in mare verso mete sconfinate. Non si può che desiderare di andare!
Per educare, per tirar fuori il meglio dell’altro occorre dare orizzonti.
Non basta dire: “La scuola serve per costruirti un futuro” oppure “La scuola serve per diventare buoni cittadini”. Tutti questi obiettivi sono assolutamente insufficienti per smuovere l’interesse in un giovane. La scuola ha bisogno di trasmettere la passione del conoscere, la curiosità dei perché delle cose, il rispetto per se stessi e per gli altri. Non si costruisce nessun futuro senza passione, né si è buoni cittadini fino a quando non riconosco nell’altro un punto in comune con me. In secondo luogo, in una comunità educante è fondamentale la relazione: se non c’è connessione, dialogo, non c’è incontro. Relazione vuole dire legame. E il legame implica fatica, tempo, spazio, sacrificio, ascolto.
Mettersi in ascolto di chi ho davanti, sia per lo studente che per il docente, è una decisione che va presa per stima. La relazione diventa autentica, cioè porta a un risultato di comprensione reciproca, se c’è stima, se chi è educato vede nell’educatore qualcosa di interessante per sé, ma anche se l’educatore trova una soddisfazione nel comunicare se stesso insegnando. Quando questa stima si instaura allora c’è relazione. Allora c’è la possibilità che il messaggio educativo, sia esso una conoscenza meramente disciplinare sia esso un atteggiamento di fronte alle cose, passi, si comunichi, si trasmetta.
A questo punto però occorre tornare al punto di partenza. “Educare”, abbiamo detto vuol dire “tirar fuori”. L’educatore, sia esso genitore o insegnante, ha il grande e difficilissimo compito di fare, a un certo punto, un passo indietro. Il suo scopo non è quello di inoculare la concezione migliore dell’esistenza nell’altro, fosse anche la visione delle cose più saggia e buona di questa terra, ma ha l’arduo dovere – arduo proprio dal punto di vista dell’educatore – di consegnare una proposta educativa e di fornire un metodo ragionevole per vagliarlo. È il giovane, durante il suo cammino di crescita, e in particolare al termine di esso, che dovrà valutare quanto sia valido ciò che gli è stato proposto, dalla ricchezza della tradizione culturale insegnata a scuola ma anche dai modi di essere e di vedere dei suoi insegnanti o genitori.
L’immagine più semplice per capire questo è quella che si rifà alle bisacce di esopica memoria: ogni ragazzo ha una bisaccia sulle spalle che man mano che cresce gli viene riempita prima solo dai genitori, poi da amici e conoscenti, e in particolare dagli insegnanti. A un certo punto questa bisaccia dovrà essere spostata davanti agli occhi del giovane che ci guarderà dentro e vaglierà quello che contiene. Se non ha imparato un metodo per vagliare in modo critico e personale, difficilmente sarà libero da condizionamenti.
Per concludere, direi che una comunità è possibile se esiste uno scopo riconosciuto e condiviso. Ed è possibile che questa comunità educhi se si fonda sulla relazione, la fiducia e il dialogo. Tendere a questo nel quotidiano vuol dire tanta creatività: vuol dire accettare di ascoltare chi ha qualcosa da dire, vuol dire sanzionare i comportamenti negativi ma mai stigmatizzarli, vuol dire puntare sul fascino che la nostra cultura possiede per entrare in dialogo con la modernità.
Cristina Zeni, insegnante
Intervento realizzato presso la “Scuola di quartiere” promossa da Acmos nell’estate 2021 a Torino (in un incontro dedicato al ruolo dei docenti). Testo raccolto da Fabiola Petronillo. L’associazione Acmos è tra le promotrici del progetto Scuole Aperte Partecipate in rete.