Il bene comune di tutti comincia dal riconoscimento del bene dell’infanzia. Ma il “bene dell’infanzia” resta ancora poco visibile, chiuso tra i margini stretti di un immaginario che lo colloca come esclusivo dell’ambito familiare, deprivandolo della sua potenza, della sua universalità di linguaggio sociale umano. Tuttavia, i movimenti che si occupano dei più piccoli hanno avviato ormai da diversi anni un passaggio culturale e politico per restituire dignità all’educazione e alla cura della prima infanzia. Lo conferma anche il recente percorso internazionale di Omep Italia (Comitato italiano dell’Organizzazione Mondiale per l’Educazione Prescolare)
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Ogni volta che cerco di comprendere le ragioni del presente, mi volto sempre indietro per cercarne “impronte e scenari”, provando ad abbandonare o ad allentare quei sedimenti identitari che si formano con l’età. L’esperienza del camminare, del viaggiare e della vita mi hanno insegnato che per capire dove ti trovi devi ogni tanto voltarti indietro per guardare il paesaggio che lasci alle spalle. Poi riprendi a guardare quello davanti a te. Così allungando questo sguardo sul movimento temporale, ritrovo comunque quello che era e che forse dovrebbe rimanere ancora oggi l’ideale superiore di ogni società, sistema educativo, formale/istituzionale o informale progettuale: un ideale di persona compiuta per la sua unicità di essere umano che può attraversare ogni tempo e ogni luogo, perché possiede quel patrimonio culturale, evolutivo, come specie millenaria, da poter ancora trasmettere in ogni tempo storico. Non è utopia.
Un essere umano con un linguaggio di significati che appartengono a ogni “cultura”, a ogni lingua, proprio perché universali, fatti di storie di resistenza umana, di sentimenti, arte, scienza, costumi, usanze, rituali ancestrali, di ciò che è quotidiana ricerca antropologica dentro ogni comunità e dentro ogni società, una ricerca fatta di ciò che appartiene a tutti, in ogni Paese del mondo, di coscienze umane e sociali, di valori individuali e di beni collettivi, da tutelare, promuovere, sostenere, difendere come politica di civiltà mondiale, per riconsegnarla poi alle generazioni successive.
Eppure, non se ne parla mai, come se da difendere fossero sempre e solo i beni di una “proprietà privata”, tra limiti e possibilità. Penso a Elinor Ostrom che è stata la prima politologa a essere insignita del premio Nobel per l’economia nel 2009 per aver costituito una banca dati in cui ha raccolto esempi di beni collettivi tutelati in tutto il mondo, formulando alcuni principi per la buona riuscita di un bene collettivo. Ne raccolse, insieme ai suoi collaboratori, più di cinquemila esempi: alcuni esistevano da secoli e questo già ci dice qualcosa sul significato di patrimonio e di ricerca umana. Nel suo libro Governare i beni comuni Ostrom ha definito la governance per la garanzia di tutela del bene comune, bene che dipende dai contesti locali, politici e dalle comunità di riferimento. Ha istituito, inoltre, presso l’Università dell’Indiana, un workshop dove si riunirono ricercatori da tutto il mondo per studiare ciò che lei aveva reso visibile e che si presentava come una strada possibile da segnare e percorrere.
Sono anche le stesse scienze sociali e la sociobiologia (Edward Osborne Wilson scomparso il 26 dicembre 2021) a rivelarci oggi che le forme collaborative, comunitarie, sociali svolgono un ruolo centrale nell’evoluzione della vita non solo umana (anche vegetale, Stefano Mancuso La nazione delle piante) e che “il gene egoista” (libro di Richard Dawkins che lessi negli anni Settanta) è una visione superata, compresa ormai, anche nell’azione delle grandi aziende che investono in piani strategici nel settore formativo/collaborativo dei dipendenti. Come a dire che anche il capitalismo ha compreso che non può vivere se non si autoalimenta attraverso “il sentire comune”. Siamo sapiens proprio in questa nostra competenza sociale presente fin dai primi mesi di vita; siamo sapiens nella nostra capacità di rispecchiarci, di sentire e di imparare da un nostro simile, senza essere “per forza o per guerra” né vinti né vincitori, né ricchi né poveri, né vittime o carnefici.
Ma la condizione fondamentale per l’evoluzione delle nostre forme di cooperazione umana e di mutualismo sta proprio nelle interazioni sociali – paradossalmente, questi due anni di isolamento pandemico lo hanno evidenziato – nelle relazioni che curiamo nel tempo, fin da piccoli, nella condivisione e nelle nostre esperienze affettive, formative culturali, in ogni età, dall’infanzia all’età adulta.
Il modello della causalità biologica psico-culturale si sta sostituendo, infatti, alla causalità biologica o genetica considerata in senso assoluto, secondo linee e parametri di coevoluzione reciproca e di influenza tra geni e cultura (culturgene, Lumsden e Wilson, 1981). C’è molto di più: nel 2019, Sophie Von Stumm dell’Università di York, Regno Unito, ha concluso, dopo diversi studi, che entrambi i fattori concorrono a causare le differenze di successo scolastico ma, mentre i tratti genetici influenzano i risultati per il 14 per cento, il divario socioeconomico ha un’incidenza del 23 per cento (rivista Mind dicembre 2021). Non è l’unico studio che mette in evidenza dal punto di vista scientifico come crescere in povertà economica/sociale/educativa danneggi lo sviluppo strutturale e funzionale del cervello, con ripercussioni su intelletto, emozioni, comportamento e conseguenze sui disturbi mentali (come illustrato da un gruppo di economisti di Harvard e del MIT guidati da Frank Schilbach dell’Università della California a Davis). Gli studi in merito, specie negli ultimi anni, sono numerosi e concordi nel confermare che lo svantaggio socioeconomico condiziona lo sviluppo emotivo e cognitivo già nel secondo anno di vita, con ripercussioni sul successo scolastico: studi di Robert Knight, psicologo di Berkeley, Seth Pollach dell’Università del Wisconsin a Madison, Gary Evans della Cornell University di Ithaca, Kimberly Noble e Melissa Giebler, neuroscienziati alla Columbia University, Chiara Volpato docente di Psicologia Sociale all’università di Milano-Bicocca, Eldar Shafir alla Princeton University, ecc.
Potremmo farci una semplice domanda: l’architettura dei valori e delle scelte politiche, economiche/progettuali di uno Stato moderno, democratico, non dovrebbe tener conto perciò delle scienze tutte e della loro complementarietà e interdipendenza, necessarie a capire di cosa è fatto ogni essere umano, di cosa ha bisogno per vivere bene fin dalla sua nascita, invece che avere come priorità esclusiva i parametri di analisi economica di un bilancio orientato a breve termine verso un’economia industriale, distruttiva, aggressiva e competitiva, che riconduce, svilendola e deprivandola, la realtà umana e sociale a un unico paradigma di pensiero: il dualismo totalizzante di “prodotto e cliente” (paradigma che vale anche per l’industria bellica)? Un mondo al quale vorremmo dare forma e sostanza (e non il contrario) capace di svolgere la sua funzione nel prestare ascolto alle persone e alle nostre umanità, allontanandoci dal “qui e ora”, da quell’idea di “luogo e tempo” che stanno velocemente perdendo la loro storicità, identità e la loro narrazione in ogni parte del mondo (perché luoghi che non appartengono più a nessuno, se non ai fili spinati e ai muri che ne segnano i confini).
La dimensione pubblica, sociale ed educativa, quella che si dovrebbe costruire fin dalla nascita, a garanzia della dignità del diritto e della qualità di vita, è quella che ci consente poi di pensare e di agire collettivamente, comunitariamente, come espressione di una nostra compiutezza personale e sociale, per rimettere al centro della politica il bene di ognuno e il bene comune di tutti. Il bene comune di tutti inizia proprio dal riconoscimento del bene dell’Infanzia.
Il “bene dell’infanzia” rimane ancora invisibile, poco percettibile come valore in sé da riconoscere e sostenere, chiuso tra i margini stretti di un immaginario che lo colloca come bene esclusivo dell’ambito familiare, deprivandolo della sua potenza, della sua universalità di linguaggio sociale umano: diviene, così, il bene di un’infanzia chiusa al mondo, non affidata alla nostra responsabilità umana, relazionale, individuale, sociale e politica.
Nelle società primitive, la crescita dei figli era una responsabilità collettiva. I neonati erano tenuti in braccio da tutti e capitava che fossero allattati da più donne. Tali esperienze contribuiscono a spiegare il perché nelle società di questo tipo, i bambini imparano a vedere il mondo come un luogo che dà. Nella preistoria la fiducia veniva instillata sin dalla culla (Una nuova storia dell’umanità, Rutger Bregman)
Senza l’infanzia non esisteremmo. Ma l’infanzia che ci rappresentiamo noi adulti è invece quella addomesticata dentro uno spazio privato, quello familistico/affettivo e quello di cura nella relazione quasi esclusiva tra madre/figli*, deresponsabilizzando così la politica nelle scelte degli investimenti educativi per la prima infanzia. Quel luogo, la famiglia, troppo appesantita oggi dai disagi socioeconomici, dalle inadeguatezze, incertezze, povertà, precarietà lavorative soprattutto delle donne, instabilità affettiva e da un’abbondanza di pregiudizi culturali. L’insufficienza dei servizi educativi differenziati per la prima infanzia è presente ormai da troppi anni, lasciando cadere sulle famiglie un carico eccessivo e difficile da gestire. Da qui la proliferazione nelle librerie di manuali pronti per l’uso per ogni possibile o impossibile occupazione e preoccupazione di un genitore che desidera essere un modello.
Eppure, sulla capacità di imparare qualcosa da un altro attraverso l’empatia, i bambini mostrano capacità sorprendenti a dimostrazione del loro “essere sociali” fin dai primi mesi di vita. Anche qui gli studi scientifici hanno ormai convalidato le competenze presenti nei primi anni di vita.
L’Italia si è raramente conquistata dei primati internazionali o europei in termini di istruzione, educazione, formazione, ma alcuni proprio nell’ambito dell’educazione prescolare (Newsweek, 1993).
Il filologo Victor Klemperer ci conferma che “le parole non sono ingenue”, perché ogni lingua non si limita a creare e a pensare per me, ma dirige anche il mio sentire…. (Le parole migliori, Daniel Gamber).
Le parole che consentirebbero di dare al contempo identità e dignità all’infanzia dovrebbero accompagnare il sentire e la progettazione delle scelte politiche pubbliche educative che hanno mostrato sempre un loro deficit nel promuovere servizi e sviluppo umano fin dalla primissima infanzia, senza comprendere tra l’altro che il rilancio di ogni sviluppo, compreso quello economico, occupazionale femminile, inizierebbe proprio da qui (questione sollecitata all’Italia dal Comitato Onu e dal Consiglio Europeo).
L’Europa, già da diversi anni, ha iniziato a sollecitare l’attenzione del nostro Paese verso questo settore educativo e di cura (European Child Guarantee). Non dimentichiamoci che nel 1975, anno di apertura degli Asili Nido, il servizio era gratuito e aperto a tutt*, con un’attenzione prioritaria alle donne lavoratrici – gli asili nido sono, infatti, una conquista delle lotte delle donne – e alle condizioni di svantaggio sociale/familiare/economico.
Di anno in anno, la politica dei servizi per la prima infanzia si è rivelata insufficiente a rispondere alle necessità, penalizzando non solo i bambin* di questa età, ma con loro anche le donne madri/lavoratrici o in cerca di un lavoro, la parità di genere, la stessa professionalità educativa, la società, l’economia e la formazione ed occupazione dei giovani.
Da quest’anno l’Italia ha veramente la possibilità di avviare un cambio di direzione, sia perché negli ultimi vent’anni ha visto crescere diffusi movimenti dal basso con un protagonismo attivo di autodeterminazione, di governance partecipata da parte di genitori, insegnanti, educatori, orientati a delineare pratiche educative “diffuse, aperte e partecipate” insieme al diffondersi di un’immagine identitaria di bambino competente e protagonista del suo stesso divenire, sia perché per la prima volta OMEP Italia (Comitato italiano dell’Organizzazione Mondiale per l’Educazione Prescolare) sta svolgendo una sua nuova azione progettuale nel panorama nazionale e mondiale, grazie al suo nuovo presidente Matteo Corbucci (voglio fare in merito un breve riferimento come convalida alle premesse sopra riportate: Matteo fu uno di quei giovani appena ventenni che selezionai con una commissione del Comune di Roma, molti anni fa, per un mio progetto di servizio civile nel settore della prima infanzia; un progetto potenziato proprio nel suo percorso di fattibilità, dalle virtù, competenze e dalla forte partecipazione, espresse da Matteo in sinergia con gli altri giovan* selezionati). Attraverso e grazie a Matteo Corbucci, l’Italia, come membro di OMEP, che raccoglie i contributi di comitati da oltre sessanti paesi del mondo, sta riprendendo un suo attivo ruolo in favore dei bambini dalla nascita sino agli otto anni di età: moltiplicando impegno e obiettivi, sia sul piano nazionale, sia sulla scena mondiale.
L’adesione all’Agenda 2030 dell’ONU sugli obiettivi per lo sviluppo sostenibile, insieme con la partecipazione a Milano allo Youth4climate è dichiarativo di un principio fondante: la sensibilità relativa ai temi che oggi si stanno imponendo dal basso in tutto il mondo, deve estendersi anche al tema dell’educazione dell’infanzia; deve tradursi, cioè, nel riconoscimento di quel diritto sancito ormai da molti anni anche dal Consiglio Europeo, che ha più volte adottato raccomandazioni all’Italia e ai paesi europei, per una qualità dei sistemi di educazione e cura nella prima infanzia attraverso cinque elementi fondamentali: accesso e cura nella prima infanzia, formazione e condizioni di lavoro di chi opera nel campo, definizione di programmi di studio adeguati, governance e finanziamenti, monitoraggio e valutazione dei sistemi. Obiettivo del Consiglio Europeo è, per gli anni 2021/2030, raggiungere, con un’offerta di qualità, il 96 per cento dei bambini dalla nascita fino ai sei anni. Un’educazione alla sostenibilità deve essere perciò presente fin dai primi mesi di vita per il benessere dei bambini e delle famiglie (in particolare, delle donne che portano tutto il peso di una mancata responsabilizzazione della politica nell’investimento costante nel settore dei servizi educativi per la prima infanzia). Non per ultimo, per promuovere una visione di mondo futuro che ci vede sin da subito responsabili e coinvolti nel rapporto uomo/ambiente e nella salvaguardia del nostro pianeta e di ogni comunità che lo abita.
OMEP Italia sta iniziando una nuova storia possibile con l’obiettivo di valorizzare nel dibattito pubblico la materia dell’educazione e della cura nella prima infanzia, (dibattito quasi assente in tutti questi anni), la parità di genere nelle professioni, il mondo dell’educazione prescolare e i suoi professionisti: ampliando conoscenze e competenze, nonché le informazioni e i processi che riguardano ogni questione, da quelle amministrative, burocratiche e gestionali a quelle professionali e formative. È un cambio di prospettiva culturale, non solo rivolta al nostro paese ma che si costruisce nel costante confronto internazionale: per un riconoscimento del valore educativo e sociale della discussione sul destino dell’infanzia che vada ben oltre semplici dichiarazioni di principio o vuote lotte ideologiche.
Il passaggio è culturale e politico insieme, coniugando queste due realtà, entrambe determinanti per un cambiamento che riesca a stare al passo con i tempi (ormai, più che maturi) e che sia pronto ad aprire le porte ad un futuro che preme sempre più forte sul presente.
Sono grata a Matteo Corbucci per il suo impegno e la sua volontà. Camminiamo sulla linea di un cerchio che non si chiude mai (leggi anche Sulla linea di un cerchio, Dalla parte dei bambini, Dalla parte degli adolescenti).