L’esperienza della scuola aperta partecipata con i ragazzi più grandi come straordinaria esperienza di relazioni di fiducia e come palestra di autogestione. La scuola come luogo nel quale favorire processi di democrazia e partecipazione. Il ruolo possibile del territorio… Una ricca conversazione con Roberto Orioli della Rete romana Scuole Aperte Partecipate
C’è bisogno di un salto di qualità: le prime esperienze di scuole aperte partecipate che coinvolgono i ragazzi più grandi possono essere un volano potentissimo in tante città. Roberto Orioli, che fa parte della Rete romana Sap (Scuole aperte partecipate), ha dedicato tante energie negli ultimi anni su questo tema ed è convinto che in autunno possa esserci uno scatto importante attraverso l’iniziativa di studenti e studentesse, ma anche di associazioni, insegnanti, dirigenti scolastici e genitori. Lo abbiamo incontrato per l’inchiesta Prendere in mano la propria scuola.
L’esperienza della scuola aperta partecipata con i ragazzi più grandi sembra reggersi prima di tutto se viene pensata intorno alla creazione di fiducia e all’autogestione. Cosa ne pensi?
Premetterei che la fiducia, o almeno la rimozione di qualsiasi pregiudizio di sfiducia, debba evidentemente essere un presupposto non solo per una scuola aperta e partecipata ma per qualsiasi relazione umana, specie a scuola. È evidente che una piena fiducia reciproca non può che consolidarsi nell’effettivo scambio e nel tempo, ma se una relazione parte con il dover dimostrare di essere degni di fiducia, spesso non si va lontano. Credo che il concetto valga in tutti i rapporti, sia tra persone, che siano adulti o ragazzi nei diversi ruoli, sia tra organizzazioni. Purtroppo invece una certa diffidenza per il diverso da sé e per ciò che va oltre la prassi è abituale nella società in cui viviamo. Lo è anche a scuola purtroppo ed è secondo me importante causa di dispersione, se non esplicita, perlomeno sostanziale. Ho sentito raccontare un primo giorno di scuola in una primaria in cui il maestro chiedeva agli alunni di fare dei disegni e un neoalunno disegnava la sua “fuga da scuola”… quindi raccontando continuava dicendo: “Grazie per la fiducia!”. Evidentemente a scuola non si può dare per scontata la fiducia di chi viene ad imparare per tanti motivi che potremmo anche trovare nel solo contesto senza attribuire responsabilità. Stando così le cose, se chi è chiamato a educare non cerca fiducia ed empatia qualcuno se lo perde per forza. La qualità delle relazioni dipende dalle singole persone ma in generale gli atteggiamenti scostanti, burocratici, impositivi, paternalistici o mammistici di molti adulti non aiuta gli adolescenti a crescere e ad aprirsi, a costruire nella società oltre che per se stessi. A scuola secondo me la ricerca di qualità dei rapporti umani non può che essere l’unico veicolo efficace per perseguire qualsiasi missione formativa tanto più che si proclama sempre di voler andare al di là delle competenze per includere la cittadinanza, la maturazione della responsabilità personale e l’integrazione nella comunità. Per quanto riesco a leggere io, quando a scuola viene percepito un contesto ostile o anche solo freddo, i ragazzi prevalentemente fuggono appena suona la campanella e probabilmente, nei loro pensieri, anche prima, figuriamoci dopo.
Riguardo l’autogestione, mi piacerebbe pensare che una forma di cogestione, di amministrazione condivisa con le istituzioni scolastica e territoriale, sia il miglior modello. In ogni caso sono convinto che i ragazzi e le ragazze per mettere impegno e partecipazione su qualcosa debbano sentirla propria, debbano sentirsi liberi di esprimersi, proporre, provare… anche sbagliare, comunque poter governare le scelte collettive, non solo quelle individuali. Dove funziona i ragazzi lo dicono chiaro: sentono la scuola aperta come la propria casa. Se lo schema è “irregimentato” o regolamentato sul modello burocratico imperante nella scuola istituzionale, perché sbattersi a tenere insieme le cose? È più comodo fare solo il proprio ed eventualmente impegnarsi alla ricerca di uno spazio di comunità altrove, ammesso che se ne abbia l’aspirazione e la possibilità. All’estremo opposto anche qualora una scuola offra degli spazi di aggregazione, e questi riescano a essere percepiti liberi – cosa comunque che mi pare molto rara in questi anni – ma eterogestiti da adulti, calati dall’alto, senza partecipazione attiva dei ragazzi, alla fine non funziona e soprattutto deresponsabilizza. Non sto dicendo che senza qualche forma di autogestione sia impossibile un impegno a scuola oltre il curricolare, ma nel caso riterrei la motivazione rimanga prevalentemente altrove: passione per la specifica attività, aspirazione personale, fiducia o carisma di un certo insegnante, aspettative della famiglia, motivazione politica, appartenenza a un gruppo già organizzato o altro ancora. Comunque resta strumentale a ciò che si fa nella scuola aperta e non alla cura della scuola aperta e partecipata in sé come bene comune, come palestra di comunità, come cura di un’infrastruttura in cui essere liberi di costruire. Penso che se dal punto di vista dei ragazzi e delle ragazze, la questione centrale sia avere un luogo libero e fidato dove potersi esprimere faticando il meno possibile sul contenitore, dall’altro penso che forme di autogestione a scuola possono essere stimolo di partecipazione attiva, che la fatica di riuscire a tenere insieme le cose e l’assunzione di responsabilità possa essere gratificante e funzionale al successo, nonché utile alla crescita personale e collettiva. Tutte cose che peraltro si riflettono positivamente anche nel loro approccio alla scuola della mattina. Invece tocca ancora sentire da molti che i ragazzi dovrebbero piuttosto rimanere a casa a studiare da soli, come se per apprendere l’unico modo fossero i libri.
Quindi, stabilite le opportune regole di interfaccia che rispettino le norme e le prerogative di tutti gli attori in campo, ritengo da un lato che la creazione di fiducia sia un presupposto necessario e laddove non rilevato dovrebbe essere costruito e garantito dagli adulti, dall’altro che una reale partecipazione attiva che affronti anche il governo e le necessità organizzative e gestionali finisca naturalmente in forme di autogestione. È chiaro però che la fiducia non può e non deve essere cieca, deve andare di pari passo con l’assunzione di responsabilità.
Comunque non vedo pratiche alternative all’autogestione, autonoma o condivisa con le istituzioni. Chi dovrebbe altrimenti gestire le scuole aperte? Dovrebbero gestirle le stesse istituzioni scolastiche o altro ente pubblico senza coinvolgere le comunità? Lo farebbero solo se glielo prescrivesse la legge… e poi con quali risorse? Potrebbero essere piena espressione della scuola dell’autonomia, ma finora non è accaduto se non sporadicamente. Potrebbero gestirle privati o organizzazioni del terzo settore? Con quali scopi? Dato per scontato che l’interesse rimanga non commerciale, sono scettico che ciò basti; è probabile che l’impostazione rimanga esclusivamente su un piano che tiene separati chi eroga servizi da chi li fruisce, senza mirare anche a una reale emancipazione e partecipazione dei ragazzi. Ammesso di riuscire a farlo, secondo me è più probabile che scuole aperte così gestite diventino corsifici piuttosto che luoghi di partecipazione. Forse una scuola superiore aperta partecipata potrebbe gestirsi con qualche altra forma di volontariato, liberalità o mutualità oltre quella studentesca ma la vedrei comunque poco sostenibile a lungo termine dovendo rimanere accogliente e inclusiva nei confronti degli stessi studenti che abitano la scuola la mattina. Ciò che vedo invece funzionale a fianco delle forme di autogestione è la partecipazione degli ex studenti, perché liberi dalla sudditanza di fatto che può subire chi ancora frequenta, perché potenzialmente più efficaci nel dialogo con i loro pari più giovani e perché meno acerbi nel relazionarsi con il mondo adulto specie quando quest’ultimo dimostra di non esserlo. Naturalmente una forma di autogestione potrebbe benissimo coinvolgere anche le persone adulte della comunità scolastica o territoriale, a cominciare dai genitori e da chi lavora nella scuola oltre il proprio ruolo, tuttavia secondo me, nelle scuole superiori, se rimangano a solo supporto e stimolo è più facile che funzioni. In ogni caso ritengo qualsiasi modello di governo utile se generativo, se funzionale a sperimentare nuove forme di apertura e partecipazione non togliendo nulla alle scuole istituzionali: chiunque sia disponibile dovrebbe provarci ed essere aiutato a farlo dalle istituzioni specie se mantiene un approccio inclusivo e collaborativo con tutti e una propensione a fare rete sul territorio.
Tutto questo potrebbe suonare eretico a molti. Ma in realtà è il caso di ricordare che c’è anche una questione di diritti negati. Nella scuola le norme garantiscono alla comunità i diritti di partecipazione attiva e responsabile; in particolare per le superiori lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti garantisce quello di associazione e quello di svolgere iniziative all’interno della scuola e prescrive alle istituzioni scolastiche di disciplinarne le modalità tramite i propri regolamenti. Quindi, qualora il desiderio di un gruppo sia quello di autogestione della scuola aperta, rispettate le prerogative della dirigenza scolastica e stabilite regole condivise che garantiscano tutti, il servizio pubblico e che inquadrino tale autonomia nel funzionamento ordinario, perché tale aspirazione non viene favorita e invece addirittura scoraggiata o impedita? Sono norme consolidate, perché non è prassi diffusa? Salvo lodevoli eccezioni dovute per lo più alle singole persone, la scuola istituzionale è raramente un luogo che possa essere sentito come una casa e imparare una cittadinanza consapevole, responsabile e attiva non emerge tra i primi obiettivi. Anche se la causa non fosse una reale volontà di impedire – io ritengo più probabile che ciò accada prevalentemente per conformismo sociale – penso che quando i diritti vengono negati, oltre a tutti i tentativi possibili di dialogo, una minoranza abbia il diritto di rivendicarli con la necessaria determinazione attraverso tutti gli strumenti democratici disponibili.
La Rete romana Sap pone sempre molta attenzione alla differenza tra scuola aperta e scuola aperta partecipata: come si possono oggi favorire processi di democrazia e partecipazione nelle scuole superiori?
Si, noi della rete pensiamo che una partecipazione ampia e attiva sia centrale. Il punto della scuola aperta per noi non è avere ulteriore offerta formativa/culturale/sociale/sportiva strutturata da poter erogare o peggio somministrare come una terapia, ma usare le scuole per condividere come cittadini un luogo di incontro informale in un territorio, approfittando di un contesto già esistente, conosciuto e affidabile, dato che molti di quei cittadini sono parte, o hanno fatto parte, della comunità scolastica. Quindi auspichiamo e cerchiamo di favorire che tale luogo possa diventare anche centro di aggregazione, luogo di scambio, polo civico, palestra di cittadinanza, motore di solidarietà in funzione dei bisogni e delle aspettative che la comunità stessa esprime. Facciamo riferimento al principio costituzionale di sussidiarietà per cui le istituzioni pubbliche “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale”.
Come favorire processi di democrazia e partecipazione?
Sarebbe bello avere una ricetta universale… Credo sia utile ricordare che agire democraticamente nell’interesse generale sia percepito dai più come inefficace e dispersivo e quindi più utile perseguire il proprio interesse particolare immediato cercando di evitare qualsiasi formalità e intermediazione. E anche che la democrazia scolastica, formalmente ineccepibile, ormai di fatto, salvo eccezioni, non produce governo effettivo: gli organi collegiali sono spesso ridotti a luoghi di ratifica di decisioni prese altrove, le assemblee spesso ignorate o utilizzate come interruzione e non solo dai ragazzi, le rappresentanze non elette in funzione della effettiva capacità e intenzione di rappresentare la base. Se aggiungiamo il fatto che per attivarsi occorre una motivazione forte come dover colmare un bisogno o voler cogliere un’opportunità attraente, serve un gruppo coeso perché dal soli non ce la si fa, e serve un riscontro dell’effetto della propria azione in tempi ragionevoli per avere la forza di non mollare mentre ci si prova, le condizioni di contesto sono molto sfavorevoli.
Per come stanno le cose quindi, per favorire i processi di democrazia e partecipazione nelle scuole superiori, sarebbe già utile che nelle stesse qualcuno in più si sforzasse a osservare e ascoltare ciò che gli accade intorno per poi aiutare in tutti i modi possibili tutti coloro che un’iniziativa autonoma per l’interesse generale provano a proporla o ad avviarla, specie se studentesca. Le istituzioni scolastiche dovrebbero farlo se non altro per educare alla cittadinanza attiva, come prescrittogli per legge, tutti gli altri stakeholder della scuola per missione, ciascuno nell’ambito della propria azione abituale: dirigenti, docenti, genitori, educatori, organizzazioni che le gravitano intorno. Ciascuno, invece di considerare pregiudizialmente ostile, concorrente, inutile o importuno qualsiasi tentativo fatto da singoli o gruppi, e quindi non curarsene od ostacolarlo, farebbe bene a verificarne l’effettivo interesse generale e le possibili sinergie con il proprio, per poi offrire sostegno e collaborazione. Tali iniziative, sia nel caso riescano a crescere agevolate o meno dal sostegno istituzionale, sia nel caso vengano ostacolata, poiché nelle scuole vanno comunque garantiti sia il servizio pubblico di istruzione che le prerogative di tutti, è inevitabile che prima o poi attraverseranno, o comunque potrebbero essere costrette ad attraversare, processi di democrazia e partecipazione. Sarebbe auspicabile l’agevolazione di tali processi da parte di chi ha la responsabilità di governo, ma se per arrivarci si è costretti al conflitto, pazienza: in una scuola superiore il conflitto invece di essere evitato o censurato dovrebbe essere coraggiosamente attraversato per missione e sciolto proprio con processi di democrazia e partecipazione; è scuola anche questa. Purtroppo spesso accade invece il peggio: le iniziative vengono spesso ostacolate per inerzia, burocrazia o per evitare problemi e, senza un minimo di anticorpi di cittadinanza già presenti nelle comunità, si spengono in rassegnata sudditanza; il possibile conflitto viene evitato per opportunità o diventa fine a se stesso o strumentale ad altro. Chiunque sia in grado di dare un contributo dovrebbe farlo anche semplicemente alimentando il confronto e con iniziative collettive di lobbying ed advocacy.
Direi poi che ciò che conta è dare l’esempio, sollecitando dibattito e confronto orizzontale, adoperandosi per far funzionare la democrazia scolastica ed effettivi processi partecipati a tutti i livelli. L’obiettivo non può essere solo puntare ai risultati aggirando gli ostacoli ma anche quello di allenare i ragazzi al confronto, ad affrontare la difficoltà, a gestire i disaccordi, a costruire comunità. È più importante il viaggio che la destinazione. Possibilmente non filosofando su temi astratti ma affrontando praticamente i temi sentiti di più dai più… le nostre scuole e i nostri territori hanno tanti problemi per cui provare a costruire soluzioni collettive, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
E di base, proprio perché nel percorso scolastico si fa troppo poco e perché i ragazzi hanno sempre meno occasioni per impararli altrove nemmeno informalmente, penso sia necessaria formazione e facilitazione specifica. Non solo per loro, anche per gli adulti: tutti sanno cos’è un editto, quasi nessuno sa cos’è una charrette, tutti sanno cos’è un votazione, in pochi sanno che esistono anche altri metodi per prendere decisioni collettive come il metodo del consenso. Saper argomentare o parlare in pubblico è prerogativa individuale, non viene insegnato esplicitamente; analogamente saper immaginare percorsi per le iniziative che si immaginano, costruire pubblico consenso, agire per costringere chi può decidere a farlo o comunque ad esporsi e prendersene la responsabilità sociale e politica. Nelle scuola di secondo grado le ore obbligatorie di educazione civica, quelle di PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento), quelle introdotte quest’anno per l’orientamento nel biennio sono spesso un problema organizzativo invece di un’opportunità, bisognerebbe proporre sistematicamente nelle scuole formazione anche su questi temi in questi contenitori. Ovviamente penso a metodologie formative esperienziali che allenino alla partecipazione attiva.
Di certo è anche cruciale informare e raccontare il bello di tante esperienze e come si sono superati ostacoli apparentemente insormontabili proprio tramite processi di democrazia e partecipazione, come sta facendo anche Territori Educativi. Dato il fatto che tanto conformismo è social, bisognerebbe poi saper raccontare tutto ciò come vincente anche sui social media, creando una contronarrazione rispetto a quella mainstream dei pochi influencer tutto racconto e poca sostanza alla ricerca di tanti follower passivi… Più in generale ho la percezione che il digitale, se usato bene, possa contribuire positivamente anche se non sappiamo ancora bene come… perché il registro elettronico non è anche uno strumento per favorire democrazia e partecipazione? Perché non è anche un social scolastico senza le devianze di quelli commerciali?
In queste esperienze in che modo e con quale ruolo è possibile coinvolgere attori diversi del territorio?
Il territorio può essere una grande risorsa per le scuole aperte partecipate anzi per le scuole in generale. Intanto molte persone che frequentano la scuola aperta partecipata abitano e conoscono quel territorio quindi possono far leva su tutte le risorse locali che il territorio offre come il verde, i luoghi culturali, gli altri poli di aggregazione sociale. E poi, se lo intendiamo come tutti i servizi alle persone pubblici e privati che già esistono nel circondario di una sede scolastica, coinvolgere il territorio è un modo per sostenere e arricchire le esperienze di scuola aperta senza dover costruire tutto da zero. Specularmente le esperienze di scuola aperta partecipata possano costituire un indotto significativo per le attività del territorio e stimolarne la nascita di nuove. Infine la vita pubblica in un territorio riguarda tutti coloro che lo abitano quindi anche chi frequenta le scuole aperte: lo scambio non solo è funzionale dal punto di vista della cittadinanza ma è anche naturale. Non a caso intorno alle scuole aperte partecipate spesso si animano alcune istanze pubbliche come il recupero degli spazi abbandonati, le strade scolastiche, la cura dei luoghi del quartiere… La partecipazione traduce queste istanze in azione concreta oltre che in rivendicazione verso le amministrazioni.
In tanti territori c’è una evidente carenza di luoghi pubblici non commerciali e, dove ci sono, spesso questi non sono gestiti per il miglior servizio ai cittadini e nelle esperienze di scuola aperta, è inutile e dispendioso reinventarsi contenuti già funzionanti e di successo attivi in luoghi vicini, quando già ci sono e chi li anima non insegue valori divergenti, è più facile farci leva cercando di collaborare. Quindi fare rete con chi offre servizi su un territorio e portare gli stessi anche dentro o comunque collegarli con una scuola aperta partecipata può essere volano di progresso per tutti. Per la comunità scolastica e i frequentatori di una scuola aperta partecipata, fare rete sul territorio è un modo per riuscire a fare una proposta più ricca e sostenibile, per dare risposta più facilmente alle aspirazioni, per evitare di far perdere tempo a muoversi durante la giornata, cosa spesso estremamente dispersiva; per le organizzazioni del territorio è un modo per aumentare il numero di persone coinvolte, per far nascere nuovi progetti e collaborazioni tra diverse organizzazioni, anche semplicemente per promuoversi.
Per le istituzioni territoriali, comune e municipi, usare infrastrutture scolastiche quasi sempre sotto utilizzate, dalle palestre ai teatri, dai cortili ai laboratori, anche per sollecitare nuovi servizi per il territorio è un indubbio vantaggio. Tradizionalmente e parzialmente già succede, ma in forma rigida con i bandi e senza condivisione di obiettivi sociali, culturali, sportivi tra i diversi soggetti coinvolti. Le scuole aperte partecipate hanno tutto il potenziale dei poli civici con il vantaggio di avere migliaia di persone grandi e piccole di tutte le estrazioni culturali, sociali ed economiche che già frequentano la scuola istituzionale e lo considerano un luogo sicuro e affidabile. Il potenziale di sviluppo sono le persone, la ricchezza della loro diversità e la partecipazione che in queste esperienze di scuola aperta diventa di fatto un’animazione sociale gratuita o comunque autosostenuta. Per le istituzioni locali agire in questo senso è questione di scelta politica ma oltre le inerzie non si vede svantaggio. Nessuno costringe nessuno: chi non vuole dopo la campanella se ne va, chi vuole solo vedere la mostra, seguire un evento, frequentare un corso, fare teatro, musica o sport va anche bene, può farlo nella scuola aperta o anche altrove nei territori dove l’offerta esiste. Anche più gruppi che volessero animare tentativi in autonomia non sarebbero un problema, gli spazi generici come le aule sono abbondanti e la concorrenza sugli spazi si limita solo a quelli specifici come le palestre e i teatri ma conosciamo davvero poche scuole in cui vengono usati tutte le ore e tutti i giorni della settimana. Anche l’istituzione scolastica che reclamasse i propri luoghi per la propria attività istituzionale ne conserva tutto il diritto e la possibilità. Insomma se il punto è, come dovrebbe essere, fare il massimo con il minor investimento possibile un’allocazione statica dei luoghi scolastici alle istituzioni scolastiche che non ce la fanno ad usarli non è ideale; eppure nella prassi amministrativa il concetto non è intuitivo quindi va spiegato e promosso.
Voglio precisare che a mio parere, quanto dicevo riguardo i servizi non vale solo per il terzo settore ma anche per il secondo, se garantita la dovuta sorveglianza per mantenere centrale l’interesse generale. Un governo condiviso con le istituzioni scolastiche e territoriali può garantirla e interpretarla meglio di sole regole rigide o di qualche funzionario in forza alla pubblica amministrazione che rimane distante. Affidare ad esempio un bar di una scuola a un terzo, che giustamente non mette al centro valori condivisi ma il proprio profitto, può e deve essere essere costretto al rispetto delle regole imposte dal Codice degli Appalti e il miglior avviso pubblico può aiutare a evitare derive di interesse privato. Tuttavia è anche vero che se si riesce a far diventare quel terzo un alleato e innescare una sinergia in rete con gli altri attori, pur continuando a perseguire il proprio business, ci possono essere meno sprechi e maggiore soddisfazione e utilità per tutti.
Un altro ambito di possibile coinvolgimento del territorio è collaborare con altre organizzazioni e rete tematiche esistenti: per i luoghi del quartiere, per la pace, per la multiculturalità, la solidarietà, l’ecologia, i gruppi di acquisto solidale, le parrocchie… Anche i patti educativi di comunità possono essere un modo di coinvolgere il territorio oltre che tenere insieme scuola istituzionale e scuola aperta. Quindi direi che la chiave per coinvolgere attori diversi del territorio è tessere legami tra le persone che già lo abitano interpretando i diversi ruoli, proponendo nuove iniziative o amplificando quelle buone esistenti. Spesso basta copiare dal quartiere a fianco o dal resto del mondo. Parallelamente si dovrebbe cercare di condividere un disegno collettivo che vada oltre gli interessi particolari: non solo fare ma anche essere.
Chiaramente calare dall’alto schemi e contenuti può non funzionare: magari non incontrano il desiderio o i bisogni delle persone. Oltre le idee di chi progetta e propone, un territorio si adatta alle persone che lo abitano; per i servizi di mercato gli incassi e il successo sono misura e selezione, per i servizi pubblici oltre il governo eletto i cittadini possono essere democraticamente di stimolo. Tuttavia è altrettanto evidente che rendere disponibili luoghi normalmente chiusi e nuovi servizi che altrimenti non sarebbero sostenibili, può essere generativo, può incubare nuove idee, associazioni, modalità; può essere un modo per verificare se un’iniziativa funziona e che altrimenti non sarebbe stata nemmeno intrapresa per mancanza delle risorse necessarie pubbliche o private o anche solo di quell’incontro che l’ha generata. Da questo punto di vista le scuole aperte partecipate in alcuni territori possono assolvere meglio anche alle funzioni della piazza, del muretto, del luogo di incontro informale, dell’incubatore. La gratuità di utilizzo o comunque la modalità non profit o benefit per i servizi è una leva importante che va spiegata sia alle istituzioni pubbliche che alle organizzazioni del territorio per coinvolgerle in questo tipo di esperienze. Bisogna provare e vedere se funziona ricordandosi che anche solo tentare senza riuscire crea ricchezza sociale.
Infine, in quei territori dove non ci sono abbastanza servizi pubblici o ci sono disagi, le scuole aperte partecipate e più in generale anche altre iniziative di amministrazione condivisa possono sostenere gli opportuni processi democratici di rigenerazione. Le scuole rispetto ad altri luoghi anche se degradate o poco attive sono comunque già frequentate e lo sono soprattutto dai nuovi cittadini; attivare i giovani cittadini è un investimento nel futuro e invece i luoghi di per sé inducono colposamente a disattivarsi.
Da un osservatorio complesso come Roma, quali sono alcuni nodi critici che occorre affrontare ed errori da evitare?
Sicuramente in una città come Roma c’è una questione di scala. Senza pretesa di protagonismo, rispetto ad altrove, penso ci si possa trovare il meglio e il peggio di tutto.
Molti dei quindici municipi sono per popolazione tra le prime venti città d’Italia e la parola territorio non può che riferirsi a zone più piccole, forse anche i quartieri sono troppo vasti per essere intesi come territori, coloro che frequentano una scuola non sempre abitano nei pressi. Le istituzioni territoriali governano centinaia di plessi scolastici e riescono a gestire le differenze con difficoltà; spesso ci si sente addirittura dire che l’autonomia scolastica è un ostacolo e non un’opportunità. Le scuole superiori, come patrimonio edilizio scolastico, dipendono dalle ex province, a Roma dalla Città metropolitana. Ai problemi di scala si aggiungono i diversi livelli istituzionali del territorio e la vastità che fa preferire un’azione di policy per la città piuttosto che concreta sulla singola scuola, nonostante ci siano situazioni molto diverse tra centro e periferie, tra un quartiere e l’altro rispetto agli abitanti, agli spazi e ai servizi disponibili. Sempre per problemi di dimensione conta anche molto il racconto pubblico rispetto a ciò che accade in realtà; come in tutte le situazioni in cui non c’è vicinanza il passaparola può non bastare.
Roma è sicuramente un contesto ricco di offerta sociale, culturale, sportiva e di possibilità diverse per attivarsi nel volontariato, per iniziative solidali, come cittadini o impegnarsi con organizzazioni esistenti che siano sociali, politiche o religiose; nonostante la prassi imperante sia individualista come altrove, arrivo a dire che c’è anche tanta offerta di comunità, se la si va a cercare. C’è ampia possibilità di riempire le proprie giornate rispetto ai propri interessi e di socializzare in tanti modi diversi. Inoltre tantissime scuole hanno un’offerta extracurricolare molto ricca e variegata.
Rimane però una città relativamente povera di luoghi di aggregazione informali. Non sempre l’offerta è economicamente o praticamente sostenibile per tutti. Ci sono molti territori abbandonati o comunque lasciati a se stessi. Molti luoghi sono ostaggio della criminalità o del turismo di massa o dello sfruttamento commerciale. Altri sono quartieri dormitorio dove qualsiasi tentativo di costruire comunità non può prescindere dalla preventiva ricostruzione dell’attitudine e l’abitudine a relazionarsi l’uno con l’altro. Le distanze fisiche sono enormi, soprattutto se misurate in tempo necessario per sposarsi da un luogo all’altro e rispetto ai servizi pubblici disponibili. Tutti questi non sono solo problemi oggettivi ma anche questioni che si riflettono sulla vita delle persone e sulla loro disponibilità ad investire il proprio tempo in partecipazione attiva. Roma è anche luogo con innumerevoli occasioni di conflitto, dove le dinamiche relazionali sono inquinate da atteggiamenti oppositivi e provocatori; una complessità che definirei “condominiale” in cui troppi si allargano con una naturalità disarmante oltre il proprio diritto per poi rispondere con un disincantato “fammi causa!” a qualsiasi tentativo di conciliazione. Insomma nelle grandi città le scuole aperte e partecipate sono un’opportunità più complicata ma anche con maggior potenziale e che in molti luoghi, specie quelli periferici, si possono colmare bisogni rilevanti delle persone.
Il primo errore da evitare è pensare a un modello valido ovunque per tutti o ragionare solo dal punto di vista istituzionale e sulle regole. Serve invece ascoltare e lavorare localmente con le persone, seminare e curare, sperimentare: le periferie sono diverse dal centro, un liceo classico è mediamente diverso da un istituto professionale, un piccolo plesso decentrato è diverso da una scuola in edificio storico; ad alcuni gruppi può bastare un’aula studio aperta fino a sera o un biliardino, altrove per riuscire ad essere attraente deve professionalizzarsi.
Un altro nodo critico è impegnarsi a prevedere uno spazio autonomo d’azione, specialmente per i ragazzi e le ragazze. Gap generazionali e pregiudizio esistono e probabilmente sono superabili solo con il tempo dopo avere costruito fiducia lavorando fianco a fianco.
Altra questione è tenere conto che i processi di cambiamento sono necessariamente lenti. È meglio cominciare per gradi ed accettare l’idea che probabilmente il risultato del proprio impegno sarà utile a chi viene dopo di noi. Non dobbiamo desistere dal tentativo dove non siamo riusciti ad aprire e dobbiamo preoccuparci anche di consolidare dove invece la scuola aperta funziona, perché diventi sistema e per resistere agli avvicendamenti generazionali delle comunità e del governo delle istituzioni scolastiche e territoriali. Bisogna perseverare rispetto alle resistenze pregiudiziali, non mollare.
È necessario considerare le dimensioni delle scuole. Penso alla diversa struttura delle iniziative. Penso alle differenti modalità di comunicazione interna ed esterna; non è detto che basti vedersi e parlare per incubarle, progettarle e gestirle e poi in alcune scuole è difficile, non si fa nemmeno più ricreazione fuori dalle aule…, mancano cioè i legami di base con cui cominciare. Penso anche all’opportunità di usare e sviluppare le reti quando si vuole scalare di dimensione e interloquire meglio con le istituzioni territoriali.
Un’altra attenzione importante è essere e rimanere accoglienti e inclusivi. Non solo se si sono chiarite regole e valori tutti possono dare un contributo utile ma soprattutto si è e si deve apparire a servizio della comunità scolastica tutta. Così facendo si smonta la tentazione di chi rimane fuori di remare contro, di chi decide di evitare per non scontentare chi si oppone o di essere accomunati a una sola parte politica o per interessi particolari.
Direi che è anche centrale saper instaurare un rapporto proficuo ma rispettoso con chi lavora nella scuola e con i docenti in particolare; la scuola aperta non è lavoro per loro, va cercato un equilibrio. Lo stile della dirigenza scolastica va interpretato. Nelle grandi scuole bisogna considerare che anche il collegio docenti è purtroppo una grande litigiosa assemblea con tanti insegnanti. In ogni caso evitare il confronto relazionandosi solo con chi ci assomiglia non è mai un buon investimento.
Infine vorrei porre l’accento su una questione più generale, magari non sarà strumentale per aprire le scuole ma sicuramente importante: non limitarsi a pensare alla sola gestione pratica senza porre la giusta attenzione al senso complessivo, all’ingaggio della comunità e a un governo condiviso e periodicamente avvicendato nei ruoli chiave.