In uno dei quartieri più complicati di Roma, Rebibbia, c’è una scuola ricca di proposte educative e didattiche, una scuola che resta aperta molti pomeriggi a settimana per permettere ai bambini e alle bambine di fare quelle attività che sul territorio mancano o a cui potrebbero accedere solo privatamente, una scuola in cui c’è una comunità educante molto attiva. Lontano dalla scuola, non solo perché è al centro della città, c’è il ministero, quello che a cui non interessa lo sforzo delle scuole e delle loro comunità educanti, ma solo i numeri: meno di 900 studenti si dimensiona. Punto. I rischi di questa manovra si chiamano abbandono scolastico, dispersione di progetti educativi mirati, aumento delle difficoltà di interagire con le famiglie, perdita di legami tra i bambini e con il territorio…
Prendi una scuola, una scuola diffusa con tante sedi in un quartiere complicato di Roma, Rebibbia. In questa scuola si fa di tutto, circo, teatro, parità di genere, giocodanza, orto in giardino, murales, documentari. È una scuola che resta aperta molti pomeriggi a settimana per permettere ai bambini e alle bambine di fare tutte quelle attività che sul territorio mancano o a cui potrebbero accedere solo privatamente. Una scuola in cui c’è una comunità educante molto attiva e in cui tanti docenti da anni hanno scelto di lavorare, perché avvertono che in un contesto di questo tipo l’insegnamento ha una funzione importante. Una scuola dove una preside, forse capitata inizialmente per caso, si è lasciata davvero coinvolgere, mettendo in ballo tutte le sue capacità per cercare di progettare il futuro.
Prendi una scuola popolare che segue tutto l’anno sessanta bambini e bambine, che li aiuta con i compiti, li porta al mare, al museo, li rende consapevoli delle loro capacità, dell’importanza di prendersi cura del luogo in cui vivono, che si interfaccia continuamente con la scuola, per sopperire lì dove quella non riesce. Che intreccia informazioni per cercare di recuperare situazioni difficili.
Prendi un comitato di quartiere che lotta per la riapertura di Villa Tiburtina, che offre una mappatura dentale a tutti i bambini e le bambine, che fa venire la Asl ogni settimana per aiutare la scuola con diagnosi e affiancamento.
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Prendi tantissimi problemi e mettili insieme, prendi tantissime braccia e mischiale con i colori dei murales delle case popolari cercando di armonizzarli, di viverli, di esserci.
Quello che la scuola e che le persone fanno su un territorio per cambiarlo è esserci.
E a Rebibbia di persone che decidono di esserci ce ne sono davvero tante. C’è un territorio complesso ma vivo, anzi vivissimo, un quartiere che resiste, e che ogni giorno lotta per creare opportunità, là dove se ne vedono davvero poche.
Allora prendi una scuola, ma non è solo una scuola, abbiamo scoperto: è un presidio attivo sul territorio perché crea comunità e si lega alla rete delle realtà già esistenti e poi prendi un ministero, che è lontano e dove sta questa scuola non lo sa neanche. Non vuole che le persone e le scuole ci siano perché a lui interessano i numeri. Meno di 900 studenti si dimensiona. Non sa, o almeno ce lo auguriamo perché se lo sapesse sarebbe ancora peggio, che dietro a quei numeri ci sono bambine e bambini che vengono da ogni parte del mondo e che lì hanno trovato un punto di riferimento, degli strumenti per decodificare la complessità del reale, bambini con vite così complicate che il ministero neanche se ci si impegnasse potrebbe immaginarle.
Prendi un ministero che gioca a Risiko, solo che invece di fare la guerra con i carri-armatini colorati, bombarda a suoni di dimensionamento.
“Chi è sotto a 900 studenti verrà dimensionato”, grida.
“Ma come? – dice K., studentessa di prima media – se una scuola funziona bene, anche perché è piccola, la chiudono? Sono impazziti?”
“Ma certo! Uniamo due scuole problematiche e diamole da gestire ad una sola segreteria!” dice uno dei ministri.
“O meglio ancora smembriamola! Ogni sede andrà con una scuola diversa, basta che sia vicina” dice un altro ministro.
“Ma come così si perde la territorialità”, afferma una mamma preoccupata.
“Troppa ricerca di bellezza e di sopravvivenza, come si permettono queste realtà di provare ad esistere. Come possiamo rendere ancora più complicata una situazione che già di per sé lo è?”, sostiene un altro.
C’è un ministero, dunque, che invece di potenziare queste realtà, di fornirle più strumenti, attua dei provvedimenti assurdi che ledono qualsiasi principio educativo e aggiungeremmo anche umano. I rischi di questa manovra sono tantissimi: l’abbandono scolastico, la dispersione dei progetti educativi mirati, l’aumento delle difficoltà di interagire con le famiglie, la perdita di legami tra i bambini.
“Bombardiamo Rebibbia con un bel dimensionamento, d’estate quando tutti sono distratti”, gridano in coro.
Così il 26 luglio, 23 scuole, tra cui quella della nostra storia, sapranno il loro verdetto: accorpate o smembrate.
Allora ti ricordi quella scuola, la scuola nel quartiere difficile, con il tot per cento di alunni stranieri, dove ci sono tantissime situazioni di violenza, dipendenze, abusi, fragilità sociale; dove con anni di fatica e lotte si è riuscito a creare un luogo riconosciuto dalle famiglie, dove sono entrate le arti, dove si è parlato di uguaglianza di genere, dove la comunità educante ha organizzato autoformazioni insieme con i Maestri di strada di Napoli, con i ricercatori e le ricercatrici di Roma Tre di danzaterapia e di pedagogia dell’espressione. Insomma prendi un quartiere scuola, in cui si è costituita una comunità di cura.
Ecco immaginati che non ci sia più.
E allora c’era una volta una scuola, vorrebbero che dicessimo, ma non possiamo perché per noi quei seicento studenti non sono numeri sono Habiba, Alex, Kmar, Mohamed, Yipen, Afsana, Tiziano, e potremmo continuare. Quei progetti attivati non sono scartoffie, sono sudore e lacrime, ore passate a scervellarsi sulle necessità e bisogni, ore di confronti e a volte anche litigate, ore investite per vedere i bambini e le bambine felici alla festa di scuole aperte, per vederli salire sul palco alla festa di quartiere e cantare di fronte a quattromila persone una rivisitazione della canzone di Gali contro il dimensionamento, dove hanno urlato coraggiosissime e coraggiosissimi: “Ma come fate a dire che qui è tutto normale, ci chiudete le scuole, non ci fate studiare, bombardate un ospedale per un pezzo di terra o per un pezzo di pane, non c’è mai pace”.
Alla fine dietro a ogni forma di resistenza c’è l’amore, è l’amore è esserci. E noi ci siamo e voi?