Sulla complessa vicenda di quel che mangiano i bambini a scuola, a farla da padrone è ancora la disinformazione di massa. Insieme al business multimiliardario che conta un potenziale di oltre 7 milioni di pasti al giorno, naturalmente. Certo, quando spuntano il bullone o la vite nel panino, come accaduto ancora qualche settimana fa, puntuali, i titoloni impazzano, magari il presidente di Milano Ristorazione si dimette, ma poi tutto resta immutato. Eppure, come spiega la pagina facebook di Caromensa Torino, “a seguito del controllo dei Nas, una mensa su tre in Italia risulta irregolare”. Alimenti con muffe, insetti e altre meraviglie segnano un quadro apocalittico che si ripete a ogni controllo. Che fare? Prima di invocare il tintinnìo delle manette e la certezza della pena, sarebbe bene informarsi. “Ancora oggi vi sono regioni nelle quali i genitori non hanno mai sentito parlare del diritto a scegliere il cibo dei figli anche a scuola”, racconta a Sabina Calogero l’avvocato Giorgio Vecchione, che con lei e pochi altri ha condotto per anni e anni una battaglia estenuante (5 sentenze vinte al Consiglio di Stato, dal 2018 ad oggi). Si tratta di un diritto che non viene offerto ma va conquistato. Eccolo il problema: molti genitori sono pronti a battersi per l’affermazione del mangiar sano, conoscono bene l’importanza del legame tra cibo e territorio – oppure i danni colossali che provoca alle persone e all’ambiente il dominio dell’industria alimentare – magari firmano petizioni per il cibo a km0 o gli orti comunitari, ma ignorano che possono opporsi al fatto che a scuola, in molti casi, ai loro figli venga di fatto vietata la possibilità di mangiar bene e che, volendo, potrebbero organizzarsi anche in modo autogestito e collettivo per farlo. L’articolo di Sabina ci spiega come e perché
Questo articolo fa parte dell’inchiesta Tutti a tavola
Orti a scuola? Pasto km 0? Legame cibo-territorio? Sì, ma non a scuola. Vorreste dare a vostro figlio un pasto sano che rispecchi questi valori, ma non potete perché è la scuola stessa a vietarlo: questa è la situazione per la maggior parte delle famiglie italiane (con eccezioni lodevoli ma ancora minoritarie).
Il pasto standard fornito dalla ristorazione collettiva cerca sovente di imbellettarsi con la presenza sporadica di qualche prodotto locale o biologico – scelto, proposto e garantito dal fornitore stesso o da progetti scolastici. Via allora alla lezione sul Peperone di Mangiaben, ma poi in mensa si useranno d’abitudine quelli di “produzione comunitaria o extra”. Gita in fattoria con le pecore Superricce di Abitoquì, ma poi in mensa stracchino da latte extra comunitario. Sì alla lezione sulla cova spontanea, ma le uova delle galline della nonna non possono entrare a scuola: c’è l’ovoprodotto in brick (“più sicuro”). Sì all’economia locale, ma non si può comprare la ciambella sfornata dalla mamma del compagno che ha una piccola bottega davanti alla scuola (le patatine San Carlo, invece sì).
Per questa battaglia, che riguarda un business multimiliardario (c’è un potenziale di oltre 7 milioni di pasti al giorno), negli anni scorsi si sono versati fiumi di inchiostro, denaro e carte bollate per il cosiddetto “diritto al pasto domestico” (ad arte colpevolizzato e ridicolizzato, come si usa ormai per tutte le questioni pubbliche, come “diritto al panino”).
Quel che ben pochi genitori sanno (e il non saperlo fa molto comodo al mantenimento dello status quo) è che l’accordo surrettizio fra Stato e Comuni (il primo vieta attraverso le istituzioni scolastiche, i secondi passano all’incasso, la ristorazione collettiva ingrassa, le imprese locali chiudono) ha ormai un’enorme crepa: va solo conosciuta ed utilizzata.
Si tratta di una crepa (le sentenze ci sono, il diritto è accertato) ma non di un portone (il diritto è accertato ma va conquistato a proprie spese, scuola per scuola; e, prima ancora, va conosciuto). Come ci racconta l’avvocato che, praticamente da solo nel paese, ha intrapreso e vinto le battaglie legali sul tema (5 sentenze vinte al Consiglio di Stato, dal 2018 ad oggi), Giorgio Vecchione: “Ancora oggi vi sono regioni nelle quali i genitori non hanno mai sentito parlare del diritto a scegliere il cibo dei figli anche a scuola, per esempio ieri mi ha chiamato una mamma del Friuli che era capitata per caso sulla nostra pagina facebook (Caromensa Torino) e non ne sapeva nulla”.
Dalla consapevolezza del diritto, alla sua messa in pratica, il cammino può non essere breve: “Nell’80% dei casi, ormai basta una lettera del nostro studio al dirigente per ottenere l’ok della scuola”, ma nel 20% circa dei casi, anche di fronte ad una giurisprudenza chiarissima (complice il silenzio pluriennale del Ministero e degli USR regionali, che non hanno mai dato indicazioni aggiornate) occorre prendere le vie legali (in altre parole, fare causa alla scuola). Il gioco è solo psicologico: la scuola sa in partenza che perderà la causa, ma conta sulla difficoltà per le famiglie ad opporsi al dirigente, a prendere accordi di gruppo, a creare la fiducia negli altri necessaria per anticipare le spese (che divise fra centinaia di famiglie ammonterebbero all’equivalente di pochi pasti-mensa), ad affrontare l’immancabile contro-informazione pelosa di qualche zelante rappresentante di classe o di istituto. Ed è proprio il fattore umano che fa la differenza. “Negli anni” ci racconta l’avvocato “non più del 20% dei ricorsi sono stati realmente collettivi, ossia con più di 20 famiglie partecipanti” (è accaduto in Piemonte e in Lazio), un risicato 10% hanno avuto da 5 a 8 famiglie firmatarie (che si sono accollate le spese legali per tutti: perché dopo la vittoria, saranno tutti gli studenti a goderne), ma l’80% delle cause ha avuto meno di tre firmatari”. La disinformazione è stata aiutata anche da una sentenza della Corte di Cassazione (2019), assai pubblicizzata sui giornali (al contrario di quelle, opposte, del Consiglio di Stato), che però non ha, per sua stessa ammissione, competenza giurisdizionale (si tratta infatti di contenzioso amministrativo).
La ciliegina candita (e piena di conservanti) sulla torta (industriale) la mettono i giudici, che da una parte non possono che sentenziare per l’applicazione del diritto, dall’altra se ne guardano bene dall’addossare tutte le spese legali (principale ostacolo per i genitori) alle scuole: finora solo un misero 10% delle sentenze ha sollevato le vere vittime della situazione, ovvero le famiglie, dal giogo del dover pagare di tasca propria per ottenere un diritto ormai accertato (eppure, immancabile, la richiesta è avanzata dal legale ad ogni istanza).
È solo a suon di spintoni che la crepa può allargarsi: con un’adeguata informazione diventa più che affrontabile l’investimento dell’equivalente di una settimana di costo mensa per rendere concreta, in poche settimane, l’utopia del pasto (anche collettivo, se le famiglie si organizzano) davvero a km0.