Ansia e nevrosi condizionano la vita di ogni giorno dei giovani, senza distinzioni tra classi sociali. In condizioni di apparente libertà ragazzi e ragazze dimostrano di aver introiettato un potere, quello dell’economia, che non ha bisogno di controllare i loro corpi: è l’insieme delle relazioni capitaliste, che impone di produrre e consumare beni a ciclo continuo, a generare un malessere profondo. Non si tratta di un’analisi relativa alla condizione dei ragazzi sui quali sono precipitate le conseguenze di pandemia, guerre, crisi economica e cambiamenti climatici, ma è il punto di vista critico di Pier Paolo Pasolini. Il contributo attualissimo dello scrittore nell’universo dell’educazione – su cui si sono interrogati alcuni studiosi di tutto il mondo (i loro contributi sono stati raccolti nel libro, edito da FrancoAngeli, Il sogno del centauro. I sovvertimenti di Pasolini tra pedagogia e linguaggi, di cui pubblichiamo ampi stralci del capitolo “Essi non hanno espressione alcuna”: la diagnosi pasoliniana della “malattia” giovanile, di Roberto Carnero) – mostra anche l’importanza di cercare come i ragazzi vivono relazioni non capitaliste. Pasolini “riteneva che il popolo possedesse una sapienza antica, che la borghesia aveva dimenticato: la verità sulla vita, sulla natura, sull’anima”. Per questo, spiega Carnero, “insegnava ai ragazzi, con pazienza, con amore, ma era anche convinto, in questo rapporto pedagogico, di poter imparare qualcosa da loro. Però: quali ragazzi? I ragazzi del popolo, quel popolo incorrotto che precede la trasformazione e l’abbrutimento determinati dal neocapitalismo…”
[…] Nei Giovani infelici Pasolini si pone in un’ottica generazionale. Nel 1975, quando scrive queste righe, è un uomo di cinquantadue anni. Ha perciò all’incirca l’età dei padri dei giovani del movimento studentesco (a cui peraltro nel pezzo non fa esplicito riferimento) e, più in generale, degli adolescenti e dei post-adolescenti. Potremmo dire che qui parla dei giovani delle scuole superiori, dell’università e, qualora non siano studenti, dei ragazzi fino ai venticinque-trent’anni, grosso modo. Da “padre” (simbolico, anche solo in virtù del dato anagrafico) di quella generazione, Pasolini prova a guardarla e a capirla. Parte da un’idea radicata nella tragedia greca, cioè che i figli siano predestinati a pagare le colpe dei padri. E poiché i padri – gli uomini della generazione alla quale appartiene Pasolini – hanno colpe ben precise, a lui sembra che i giovani del suo tempo stiano pagando proprio queste colpe.
Di quali colpe si tratta? L’autore ne individua sostanzialmente tre: la connivenza con la dittatura fascista; il sostegno al «regime» democristiano, definito, qui come altrove, «clerico-fascista»4; l’accettazione della «nuova forma del potere»5, vale a dire il consumismo. […]
Non molto tempo più tardi, alcuni episodi di cronaca nera sembreranno dare a Pasolini la conferma di questa drammatica analisi della condizione giovanile. Con un episodio in particolare, il massacro del Circeo (ottobre 1975)11, veniva alla luce una violenza cieca e brutale che allarmò l’opinione pubblica al punto da segnare nella società italiana una sorta di spartiacque. In anni, come quelli, di forti tensioni sociali e di accese contrapposizioni ideologiche, a sinistra il tragico fatto venne letto come un esempio, estremo ma emblematico, della violenza perpetrata dalla classe dominante a danno dei ceti subalterni. Pasolini, invece, ne diede una lettura diversa, vedendovi il segno di una deriva antropologica che stava travolgendo tutti i giovani, senza distinzione di classe12.
In un articolo uscito sul «Corriere della Sera» del 18 ottobre 1975, Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia (poi anch’esso nelle Lettere luterane), Pasolini scrive:
«I criminali non sono affatto solo i neo-fascisti, ma sono anche, allo stesso modo e con la stessa coscienza, i proletari o i sottoproletari, che magari hanno votato comunista il 15 giugno»13.
Per suffragare la propria tesi lo scrittore fa riferimento ad alcuni recenti fatti di cronaca: nel popolare quartiere romano di Cinecittà pochi giorni prima un ragazzo era stato percosso e rinchiuso nel baule della sua auto e la sua fidanzata violentata e seviziata da alcuni giovani di periferia. Scrive l’autore:
«I giovani proletari e sottoproletari romani appartengono ormai totalmente all’universo piccolo-borghese: il modello piccolo-borghese è stato loro definitivamente imposto, una volta per sempre […] La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale […] m’insegna che non c’è più alcuna differenza vera nell’atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate»14.
[…] Ma torniamo al primo capitolo delle Lettere luterane. Pasolini sa di essere duro, quasi spietato nella sua analisi. Può facilmente prevedere che anche questa volta – come era accaduto in tanti momenti passati (a partire dal caso più noto, quello della poesia Il Pci ai giovani!, scritta all’indomani dei fatti di Valle Giulia del 1° marzo 1968) – le sue parole risulteranno sgradite. Gli amici intellettuali di sinistra lo accuseranno nuovamente di essere un reazionario, un nostalgico, un laudator tempori sacti, perché non si sforza di comprendere e di valorizzare quanto di buono e di positivo si sta muovendo nel popolo, nelle nuove generazioni, i cambiamenti in atto nella direzione di una società più giusta e democratica. Ma lui a questo proposito taglia corto: «Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà»15. La sua vocazione alla parresia è insopprimibile16.
Nell’ultima parte dell’articolo Pasolini torna al punto da cui era partito, per precisarlo meglio: la colpa (o le colpe) dei padri, di cui la “punizione” dei figli (vale a dire dei giovani del 1975) è la diretta conseguenza. Tra le tre colpe ricordate sopra, per Pasolini non c’è dubbio che la più grave sia la terza, ovvero la supina (e incosciente) adesione al nuovo potere, quello della civiltà dei consumi:
«L’accettazione – tanto più colpevole quanto più inconsapevole – della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo»17.
Questa acritica accettazione di uno sviluppo che non è progresso18 ha portato all’avvento di una nuova società apparentemente interclassista, nella quale «il quadro apocalittico» abbozzato da Pasolini «comprende borghesia e popolo»19. I figli del popolo, dunque, sono infelici come lo sono i figli della borghesia: tutti i giovani sono infelici. L’argomentazione pasoliniana su fonda su alcuni concetti (come il «carattere totalitario» del consumismo e la sua «falsa permissività»)20 su cui negli Scritti corsari aveva insistito a più riprese. Alla base di quello che oggi qualcuno chiamerebbe “pensiero unico” c’è soprattutto un’idea,
«l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante»21.
Per Pasolini è questa la vera tragedia, perché egli riteneva che il popolo possedesse una sapienza antica, che la borghesia aveva dimenticato: la verità sulla vita, sulla natura, sull’anima. La pedagogia pasoliniana si era sempre mossa in una duplice direzione. Pasolini insegnava ai ragazzi, con pazienza, con amore, ma era anche convinto, in questo rapporto pedagogico, di poter imparare qualcosa da loro. Però: quali ragazzi? I ragazzi del popolo, quel popolo incorrotto che precede la trasformazione e l’abbrutimento determinati dal neocapitalismo avanzato, che precede cioè quella «rivoluzione antropologica» che equivale a un «genocidio», per utilizzare un vocabolo del lessico pasoliniano di cui non è stata sottolineata a sufficienza la durezza.
Dal rapporto con i ragazzi del popolo Pasolini era convinto di poter attingere questa saggezza esistenziale, incorrotta, intuitiva, radicata nel passato, nelle età remote, e continuamente attualizzata a ogni nuova generazione, fino a quella cesura storica rappresentata da una generazione di giovani che aveva deciso di rifiutare il dialogo con i padri. Ma, come leggiamo nel «Discorso» dei capelli,
«solo attraverso un rapporto dialettico – sia pur drammatico ed estremizzato – essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, “superare” i padri. Invece l’isolamento in cui si sono rinchiusi – come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù – li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha implicato – fatalmente – un regresso»22.
[…] Ma torniamo alla domanda fondamentale: perché, secondo Pasolini, i giovani sono infelici? Per rispondere più compiutamente conviene fare ricorso ad altri testi pasoliniani, che completano e chiarificano le tesi con- tenute nel primo capitolo delle Lettere luterane.
Più volte e in più luoghi, nella prima metà degli anni Settanta, Pasolini parla di «ansia», di «nevrosi», di «ansia nevrotica» a proposito dello stato d’animo e della condizione psicologica dei giovani, prime vittime di quell’«omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza»23 che caratterizza la moderna società neocapitalista. La nevrosi deriva dall’«ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda»: quando portare i capelli lunghi da gesto di ribellione diventa moda, e dunque obbligo conformistico24. Del resto – il Sessantotto (nell’analisi pasoliniana) lo ha dimostrato – il sistema non si contrappone alla critica, non la rifiuta, ma cerca di addomesticarla, la accoglie in sé, la ingloba, e in questo modo la rende funzionale al sistema stesso, che così si autoperpetua e si autoriproduce più forte di prima, perché ha metabolizzato l’opposizione a se stesso.
Questa tendenza all’adeguamento massificante riguarda tutti gli aspetti della vita, dai consumi materiali alla sessualità. Rispondendo a Italo Calvino che l’aveva accusato di rimpiangere «l’Italietta», Pasolini ribatte che il suo rimpianto è indirizzato a qualcosa di ben diverso dall’Italietta fascista e democristiana (che egli vede in quasi perfetta continuità ideologica e poliziesca, e che perciò non può certo rimpiangere, in quanto essa l’ha perseguitato per decenni).
«È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango […] Gli uomini di questo universo […] vivevano […] l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita»25.
L’eccesso di beni materiali prodotti e consumati a ciclo continuo (perché se il meccanismo si inceppa, crolla l’intero sistema) genera nell’essere umano un malessere profondo, al di là delle promesse di felicità che il “nuovo mondo” formula e distribuisce a piene mani.
[…] La tolleranza – scrive infatti Pasolini in un capitolo degli Scritti corsari – è «falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore»31. E ancora, in un altro capitolo della medesima opera: «Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è stata una “falsa” uguaglianza ricevuta in regalo»32. Aggiunge infine più avanti, sempre negli Scritti corsari: «Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana»33.
A imporre le sue leggi è un «nuovo potere», non più quello dello Stato o della Chiesa, bensì quello dell’economia. Il nuovo potere non ha bisogno di controllare esteriormente i corpi (come il fascismo storico, che costringeva a indossare camicie nere o divise, alle parate, alle adunate nelle piazze per ascoltare le parole del duce, ecc.), perché si è impadronito delle anime. O meglio: controlla i corpi in conseguenza del fatto che domina le anime. C’è un’apparente libertà, che in realtà corrisponde al massimo del controllo. Non serve neanche che l’ordine venga pronunciato, perché i cittadini l’hanno ormai inconsapevolmente introiettato:
«L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero»34.
Veniamo così al punto centrale dell’analisi pasoliniana, che potremmo sintetizzare, con parole nostre, in questi termini: l’infelicità dei giovani è determinata dalla loro confusione tra felicità e piacere, nell’essere cioè convinti che si possa essere tanto più felici quanto più si è in grado di godere dell’acquisto e del consumo di beni materiali. Essi confondono questi due concetti perché la società in cui vivono li induce a tale errore. Lo dirà molto bene Erich Fromm nel suo celebre saggio Avere o essere?, pubblicato l’anno dopo la morte di Pasolini: «L’atteggiamento implicito nel consumismo è quello dell’inghiottimento del mondo intero. Il consumatore è un eterno lattante che strilla per avere il poppatoio»35. L’ideologia su cui si sostiene la società dei consumi tende a convincere le persone «che lo scopo della vita sia […] il massimo piacere, inteso quale soddisfazione di ogni desiderio o bisogno soggettivo che una persona possa avere (edonismo radicale)» e «che l’egotismo, l’egoismo e l’avidità, che il sistema non può fare a meno di generare per poter funzionare, conducono all’armonia e alla pace»36.
[…] Le nuove generazioni sono per Pasolini quelle che pagano il prezzo più alto. La loro infelicità è resa plasticamente attraverso la manipolazione dei loro corpi, che essi sono costretti a subire. Nel saggio La volontà di sapere (il primo volume, datato 1976, della sua Storia della sessualità) Foucault chiama «biopotere» quel potere che investe ogni aspetto della vita umana, producendo non individui autonomi, bensì semplici automi, macchine, corpi eterodiretti40. Nella sua ultima intervista, rilasciata a Furio Colombo poche ore prima di essere ucciso, Pasolini afferma:
«La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra»41.
[…] Così il popolo è stato sostituito dalla massa. La massa è la versione degradata, alienata del popolo: non ha mente, pensiero, intelligenza, cuore.
«Un volgo disperso che nome non ha», come avrebbe detto Manzoni: deprivato di identità, tradizioni, valori, cultura. La civiltà dei consumi ha prodotto una rivoluzione antropologica, che equivale a una distruzione, a una devastazione senza precedenti. La denuncia di Pasolini – su cui egli insiste sempre più negli ultimi anni – è in verità assai precoce. Come si evince da questi versi dell’ultima poesia della raccolta La religione del mio tempo (1961), Il glicine, scritta nel cuore del boom economico:
Altre mode, altri idoli,
la massa, non il popolo, la massa decisa a farsi corrompere
al mondo ora si affaccia,
e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video si abbevera,
orda pura che irrompe con pura avidità,
informe desiderio di partecipare alla festa.
E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole42. […]
Roberto Carnero è professore associato di Letteratura italiana contemporanea, presso l’Alma Mater Studiorum dell’Università di Bologna