Perché si parla solo di disoccupazione e mai di disoccupati? La ricerca e le scienze “nobili” devono recuperare le connessioni con la vita vissuta (anche a sinistra)

di Carla Maria Ruffini*
Lo spettro della disoccupazione incalzante, che morde le caviglie e tende in misura crescente ad assumere i caratteri della persistenza e dell’irreversibilità, si materializza ogni giorno intorno a noi nelle sue molteplici e drammatiche forme, dentro le città e le periferie, nei luoghi dismessi che furono del welfare e negli spazi svuotati che furono della partecipazione, prendendo le inquietanti sembianze delle nuove povertà e delle solitudini delle vite frammentate e spezzate.
Eppure sono rare le indagini e gli studi sul fenomeno della disoccupazione capaci di sottrarsi ai diktat della ricerca mainstream che, quando non è centrata esclusivamente sugli aspetti economici della questione, si concentra in modo prevalente sulle variabili strettamente individuali che la caratterizzano, trascurando la dimensione sociale e il “contesto” entro il quale essa si manifesta. Giorgio Lunghini, nel volume del 2012 Conflitto crisi incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative (Bollati Boringhieri), sostiene che la teoria economica egemone è ormai ridotta al rango di una branca delle matematiche applicate e che la matematizzazione dell’economia affida il governo della società alla statistica, eliminando qualsiasi apporto proveniente da sensibilità e saperi storici e sociali.
Nella straripante letteratura prodotta dagli economisti sul fenomeno della disoccupazione – dispiace dirlo, anche a sinistra – rarissimi sono i casi in cui le categorie interpretative delle “scienze economiche” si mettono al servizio delle storie di vita delle persone e si “incarnano” al fine di creare essenziali connessioni tra i vissuti reali degli individui, i contesti sociali e le comunità di appartenenza. Uno di questi rarissimi casi è rappresentato dal libro-inchiesta di Loris Campetti Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni (Manni), pubblicato qualche mese fa con la penetrante introduzione di Rossana Rossanda: in esso l’autore ci restituisce, attraverso intensi racconti di perdita del lavoro e disoccupazione (in alcuni casi anche protratta) di cosiddetti “over cinquanta”, e con la forza che promana dalle storie di vita delle persone in carne, ossa e sangue, alcuni esiti significativi di questo promettente ma ancora scarno filone di indagine e ricerca.
Esiste senza dubbio una significativa correlazione tra un approccio al tema della disoccupazione che isola le dimensioni di indagine e rifugge dalla prospettiva eco-sistemica e la strategia di frantumazione del lavoro e di isolamento delle molteplici dimensioni che gli sono proprie (macro-economiche, produttive, organizzative, normative, sociali, ambientali, individuali) perseguita dal capitale nel suo odierno assetto neoliberista e finanziario. E non è certo un caso che tardi ad affermarsi, soprattutto nel nostro Paese, un approccio di studio in grado di andare oltre lo stretto inquadramento economico-statistico e di toccare la condizione di vita (socio-esistenziale in senso lato) delle persone, mettendo in evidenza come la condizione di “senza lavoro” modifichi in modo sostanziale il benessere generale della persona e il suo rapporto con l’ambiente e il contesto sociale e culturale in cui vive.
Questo filone di studi sulla disoccupazione ad approccio psicosociale, non piegato alle logiche “giustificatorie” che trattano la disoccupazione come fenomeno “fisiologico”, e quindi inevitabile, sotto il profilo economico e sociale (e con conseguenze sul piano individuale attribuibili alle fragilità dei singoli individui), può infatti aiutare ad evidenziare come il disagio che deriva dalla perdita del lavoro generi nell’individuo una spirale di senso di impotenza indotto, di perdita delle sicurezze, di tentativi falliti e di conferme della propria inadeguatezza, che generano un progressivo isolamento sociale e una sempre più evidente difficoltà nell’affrontare le relazioni familiari. Ciò è reso possibile soprattutto grazie a una metodologia di ricerca che estrae, dal grandissimo numero di variabili individuali in gioco, quelle dimensioni comuni che rendono possibile una definizione più generale, più collettiva e “sociale” del problema, analizzando tutti gli aspetti che riguardano il vissuto dei disoccupati (pluralmente intesi, pur con le differenze che caratterizzano la storia di ognuno).
Un punto di riferimento fondamentale per questo tipo di ricerche, dopo anni di abbandono di tale prospettiva, rimane lo studio psicosociale promosso dall’Istituto di psicologia di Vienna e realizzato durante gli anni Trenta a Marienthal, un piccolo villaggio austriaco nel quale la chiusura di una filanda aveva causato, per quasi tutti gli abitanti, la perdita del lavoro. Dallo studio viennese, curato da Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel nel 1933, hanno preso il via le ricerche che valutano l’impatto della perdita o della mancanza di lavoro sul benessere biopsicosociale di individui, famiglie e comunità e, soprattutto a partire dai primi anni Sessanta, il concetto di disoccupazione, anche in questo caso in perfetta sintonia con il libro di Campetti, è affiancato a quello di “evento di vita”; ovvero la perdita del lavoro è descritta come un’esperienza che distrugge la normale attività di un individuo, inducendo una profonda trasformazione del suo equilibrio psicosociale. La concezione della disoccupazione come evento di vita catastrofico ha consentito di trovare alcuni fattori e situazioni che accomunano ogni disoccupato e che riducono le differenze intersoggettive. In uno studio effettuato nel 1978 a Chicago su un campione di adulti, Pearlin e Liebermann sono arrivati alla conclusione che cinque su dieci degli eventi di vita con la più alta correlazione con lo stress psicologico sono collegati allo stato occupazionale.
Altro aspetto di rilievo è la percezione sociale della disoccupazione, che nel volume di Campetti trova uno spazio di trattazione privilegiato. Per analizzare la disoccupazione in termini sociali si può partire da una considerazione svolta nel 2000 dal sociologo Horton:
“Nessuna condizione, nessun problema per quanto drammatico o shoccante per qualcuno, diviene un problema sociale finché i valori di un considerevole numero di persone non contribuiscono a definirlo come problema”.
Questo è esattamente il caso della disoccupazione, che ha dovuto subire un processo molto lungo di costruzione sociale della propria rilevanza per la collettività. Infatti, pur possedendo informazione e dati fortemente dimostrativi della gravità del problema, non è comparso se non agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso un primo parziale riconoscimento sociale, che però, ancora una volta, si è focalizzato principalmente sugli aspetti del disagio socio-economico, tralasciando quasi completamente gli aspetti psicosociali di questa drammatica condizione.
Warr, in un articolo pubblicato nel 1988, Work, job and unemployment, ha messo in evidenza nove possibili aspetti negativi dell’evento di vita “disoccupazione”: il sensibile decremento delle entrate economiche (gli studi suggeriscono che lo stress finanziario, in particolare nelle categorie sociali più ‘deboli’, è molto alto); la varietà della vita piuttosto ristretta; meno obiettivi e assenza di quella che in inglese si definisce traction, ovvero lo slancio motivazionale che offre un lavoro; una ridotta capacità di prendere decisioni e di utilizzare adeguate strategie di coping; il ridotto esercizio di abilità lavorative che portano alla soddisfazione personale; l’esposizione ad altri eventi di vita potenzialmente minacciosi; l’insicurezza per il futuro; la diminuzione dei contatti interpersonali; la diminuzione del prestigio sociale e, in una certa misura, dell’autostima e del senso di identità. Tutti elementi presenti nei casi di perdita del lavoro descritti nel volume citato, mentre i fattori che si ritengono in grado di moderare gli effetti negativi dei vissuti legati alla disoccupazione, come ad esempio l’età, la protezione sociale, il supporto familiare e amicale, sono nel complesso assenti o presenti in misura insufficiente.
Tra le storie raccolte da Loris Campetti, tutte dense di significato e portatrici di molteplici suggestioni, due in particolare sembrano rappresentare casi esplicativi di questa condizione socio-esistenziale, sia per le caratteristiche delle storie ricostruite e dei vissuti emersi, sia per i “tratti” e le qualità soggettive delle stesse straordinarie protagoniste.
Quella di Gloria, romana, cinquantasette anni, ex lavoratrice Eutelia, è una storia che rappresenta in modo esemplare il tema della riduzione del lavoro a merce, quando per le aziende non sussistono più le condizioni per il business totalizzante e incondizionato che impone il sistema neoliberista: dal demansionamento al licenziamento, passando per tutti i gradi intermedi della perdita di valore della propria attività lavorativa, le lavoratrici e i lavoratori vengono “scaricati” con disinvoltura dalle proprie organizzazioni di appartenenza, che il più delle volte non hanno alcuna remora a recidere, in nome del profitto sempre e comunque, relazioni di lavoro durate anche decenni. E, come dice Rossanda, nell’uragano volano gli stracci. La determinazione di Gloria nel condurre la lotta per la difesa a oltranza del posto di lavoro insieme ai colleghi che vivono la stessa condizione di deprivazione, la volontà perdurante di affrontare le difficoltà in modo collettivo, la ricerca di un’alternativa comune, suggestiva e motivante (ma non risolutiva), non riescono a cancellare il terribile trauma subito e ad evitare il rischio di “lasciarsi andare”, lo sfaldamento dei legami con il mondo circostante, la rabbia che perdura, il senso di solitudine incombente, nonostante la ricerca di nuove forme di “collettività”.
La storia di Sukhwinder Kaur, detta Goghi, ultracinquantenne che perde il lavoro dopo una lotta strenua e drammatica per i diritti e la dignità condotta in terra padana, ci parla dei destini di due comunità. Una comunità di migranti (indiani in prevalenza), che grazie a lei, leader autorevole e riconosciuta di un gruppo di quasi duecento connazionali, prendono consapevolezza dei propri diritti e della propria dignità, rompendo lo stereotipo dei lavoratori indiani disposti a tutto pur di lavorare e mettendo in atto forme di lotta “estreme” e inusuali per noi, come lo sciopero della fame e della sete. Un’altra comunità, quella reggiana, costretta a fare i conti con una realtà fino a quel momento occultata e rimossa dalla coscienza collettiva: il lavoro gravemente sfruttato cresciuto all’ombra delle cooperative grazie a un sistema di produzione di beni e servizi fondato sulla negazione dei diritti, su salari sempre più bassi e condizioni di lavoro che offendono la dignità umana, su un’organizzazione del lavoro che crea e distrugge, all’occorrenza, cooperative fasulle in cui i soci lavoratori non solo non sono tali, ma vengono spesso usati per avallare logiche di dumping salariale e sociale. Ciò che ha aiutato Goghi a non cadere nel baratro è stata la determinazione nel difendere la propria dignità, che per nessun motivo è disposta a perdere, e la consapevolezza di rappresentare tante persone che, pur trovandosi come lei a vivere quella drammatica situazione, non erano dotate del suo coraggio e della sua tenace volontà di lottare contro l’inaccettabile privazione dei diritti e il pesante sfruttamento subito.
Quando la ricerca e le scienze “nobili” si occuperanno a pieno titolo di queste storie di ordinaria disoccupazione, ma così straordinarie per le implicazioni che hanno sulla vita delle persone e delle comunità?
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