Abbiamo raccolto voci e storie fra i moli e i bar del porto di Lampedusa. Una conversazione intorno a tre temi: il futuro della pesca, l’immagine dei tunisini, i salvataggi in mare. Un racconto plurale nel quale emergono questioni da non sottovalutare quando si pensa a quest’isola, come l’estrattivismo, lo sfruttamento dei lavoratori, la standardizzazione dei gusti. A scrivere questo racconto è Luca Quierolo Palmas (professore di Sociologia delle migrazioni): lo ha fatto a bordo della Tanimar, un’imbarcazione di scienziati sociali che ha percorso le rotte migratorie del Mediterraneo. Uno straordinario diario di bordo (quello di Queirolo Palmas riguarda il settimo giorno di viaggio), edito da elèuthera (Crocevia Mediterraneo, a cura di Jacopo Anderlini ed Enrico Fravega), sulla violenza necropolitica e sulla forza della libertà di movimento
Settimo giorno
VattelaPesca. Dialoghi ittici
Lampedusa 35° 31’ Nord – 12° 35’ Est
Lampedusa, concepita per essere una colonia agricola, è stata ben presto caratterizzata da una lunga storia di pesca. Negli ultimi decenni, il turismo di massa diviene la principale fonte di reddito, trasformando radicalmente i modi di vita degli isolani; eppure, le distanze fra i due mondi sono porose e molti capitali accumulati in mare si riconvertono a terra. Sopra la Tanimar, in ogni caso, il rombo degli aerei di ogni tipo e di ogni provenienza è continuo.
Nei giorni in cui il cattivo tempo ci ha bloccato in porto, abbiamo provato a raccogliere voci e storie fra i moli e i bar del porto. Il risultato è una specie di conversazione immaginata attorno ad alcuni temi: il futuro della pesca, l’immagine dei tunisini, i salvataggi in mare. Il discorso risente del differente posizionamento sociale in quella che è una realtà stratificata in termini di classe sociale e scala: dagli armatori ai capitani, dai grossisti ai proletari del mare, dagli artigiani della pesca agli imprenditori.
Sul futuro della pesca
z: «La pesca? Che si può fare per migliorare? Nulla, è morta. Mezza Lampedusa sta aspettando la rottamazione delle barche. Pesce? Non ce n’è più. Vengono tutti a pescare qui, anche i mazaresi. Il gasolio costa troppo, non c’è più tempo buono. Prima potevi uscire per trenta-quaranta giorni consecutivi. La mia barca è ferma in porto da anni, al corpo morto. Se la vendo ci faccio 12.000 euro, se la rottamo con lo Stato almeno 60.000. Poi mi vendo pure la licenza di pesca. Adesso me ne vado in pensione, prenderò 800 euro, poi ai 60 anni magari 1.200. Il pesce è morto, non si può fare niente per migliorare la situazione. Persino i mazaresi hanno ridotto le barche. Qui i grossisti la fanno da padroni, sono loro che fissano i prezzi. D’estate, ancora, vendiamo ai ristoranti, ma d’inverno? Che facciamo? Lo buttiamo il pesce che tiriamo su? Sono dei ladri, cambiano persino i pesi sulle bilance. Alla fine, guadagnano loro. Ci hanno provato diverse volte a fare la cooperativa, ma non ha funzionato. La calamità? L’ultima cinque anni fa. Mi hanno dato quasi 30.000 euro, mi sono fatto due manutenzioni alla barca. Io ho la licenza di pesca entro le 12 miglia, ma vado spesso oltre; cernie e tonni li pesco a 200 metri di profondità».
h: «Mio padre ha lasciato un peschereccio, tanti fratelli e tutti pescatori. Ma dei miei figli nessuno ha voluto continuare con la pesca… ci hanno provato, ma è un lavoro duro… e poi qua stava prendendo piede il turismo e piano piano la pesca scompariva. I miei figli hanno voluto studiare e tutti e due sono andati via da Lampedusa… oggi noi stessi viviamo più di turismo che di pesca, affittiamo gli appartamenti di famiglia. Ma la pesca rimane la mia grande passione… e poi comunque devo tirare a campare fino alla pensione. La pesca in ogni caso non ha futuro, i prezzi del carburante non permettono più a nessuno di lavorare».
y: «La mia famiglia continua ancora con la pesca. Molti pescatori hanno scoraggiato i propri figli a intraprendere questo mestiere usurante … ma per noi è stato diverso, ho trasmesso ai miei figli la mia grande passione. Purtroppo, è chiaro che tanti fattori incidono negativamente, ad esempio ho sempre detto di fare un mercato ittico a Lampedusa e mai è arrivato. Abbiamo tanti pesci ma il guadagno è minimo, per non parlare del caro gasolio di oggi che ci sta ammazzando tutti. Degli ottanta pescherecci che ci sono a Lampedusa, oggi quaranta sono fermi…».
k: «Qua prima si viveva di pesca, oggi si vive di turismo. Gli armatori non erano ricchi ma guadagnavano quel poco per avere la fiducia delle banche. Così, hanno costruito degli appartamenti e si sono buttati tutti sul turismo… Gli unici che hanno mantenuto una grande flotta sono i mazaresi, ma in ogni caso il mondo della pesca sta morendo».
r: «Tutte le tecnologie per individuare il pesce hanno distrutto la pesca e il mare. È una mattanza continua e il mare non si rigenera».
Sull’immagine dei tunisini
y: «Dai racconti dei miei, c’era pace e rispetto fra le parti. La Tunisia era la nostra Sicilia di allora. C’era una stretta collaborazione con Sfax e Sousse, molti andavano a vivere lì, perché c’erano banchi di pesca molto ricchi».
h: «Quando si faceva la pesca alle spugne, noi e i tunisini pescavamo insieme. Abbiamo tutti parenti che sono nati in Tunisia. Poi c’è stata l’indipendenza, e ci hanno costretto a scegliere se essere tunisini o italiani. La maggior parte è tornata. Io al Mammellone [una zona protetta nel sud tunisino] a pescare non ci vado più da decenni, una volta ci hanno inseguito per spararci. I tunisini si piazzavano sulle secche a vivere, non facevano avanti e indietro come noi e le occupavano con le reti. Dal pesce azzurro siamo dovuti passare allo strascico, chiaramente senza licenza, e ci hanno regolarizzato solo dopo più di venti anni».
z: «I tunisini ci rubano il pesce, e noi rubiamo il pesce a loro».
j: «I tunisini sono una brutta razza… vengono a pescare da noi e noi non possiamo pescare da loro. A differenza dei neri, chi arriva qui non scappa da nessuna guerra».
k: «Io la Tunisia la conosco bene, è un popolo che non mi piace. Mi hanno sparato e messo in galera quando ero giovane… mi hanno lasciato trecento buchi sulla barca. Noi andavamo a rubare il pesce, però quando sconfinano loro nessuno gli dice nulla».
r: «I tunisini hanno barche più grandi e attrezzate delle nostre. Anche loro spolpano il mare, come i mazaresi. È come una pentola. Ci dovremmo vivere tutti, ma a forza di prendere e sfruttare, il mare si svuota».
Sui salvataggi in mare
z: «Meno male che c’è Salvini che ci toglie tutti questi clandestini. Vediamo che fa questo nuovo governo. Quando c’era lui, Salvini, non arrivavano più. In realtà qui li vogliamo i clandestini. Ti spiego… Noi pigliamo il pesce; loro – i finanzieri, lo Stato – pigliano i clandestini. Se togliamo i clandestini, poi loro si occupano troppo di noi. Invece così viviamo senza legge, perché loro ci lasciano in pace e si occupano dei clandestini. È il loro lavoro. Se io mi sono trovato a dover soccorrere? Milioni, milioni di volte. E che devi fare? Io soccorro anche se mi mettono in galera. Almeno sono a posto con la coscienza, non mi interessa della galera. E poi io sto in mare. Chi mi salva a me, se io non salvo gli altri?».
h: «Il decreto sicurezza è stato fatto sulle spalle dei pescatori. Non facevano uscire la guardia costiera oltre le 12 miglia. Allora, se vado a pescare al largo, devo decidere io se farli vivere o morire? Lo Stato perlomeno deve prendersi le sue responsabilità. Nonostante a terra i pescatori ti dicono di tutto, poi a mare non possono non salvare. Se non li salvi, poi come vivi, come fai a guardare i tuoi figli? Per noi che peschiamo a strascico il vero problema della migrazione sono i relitti lasciati in mare…».
j: «Bisogna difendersi. Qui siamo in guerra contro i clandestini. Però che fai se li trovi in mare? A me, come a tutti, è capitato. Ho chiamato i miei amici che mi hanno detto di lasciar stare. Alla fine ho deciso di trainarli, e se fosse affondata la barca me li sarei presi a bordo. Non si lasciano le persone a mare. Quando siamo arrivati in porto, mi hanno abbracciato come un salvatore… guarda ho ancora la pelle d’oca».
r: «Un tempo erano i pescatori di là che portavano la gente qui di nascosto. In mare ci sapevano andare, e le loro barche le volevano riportare a casa. C’era più sicurezza».
Epilogo
I tunisini, i mazaresi, i clandestini… Le storie raccolte fra il mondo, i mondi, della pesca si costruiscono attorno a questo primo piano iper-visibile. Però spesso è una facciata. E il retroscena che a tratti appare sgretola certezze e posizionamenti e mette in luce altre dimensioni. Ad esempio, l’estrattivismo forzato e la distruzione ambientale. Oppure il mercato e la standardizzazione dei gusti: «Ora vogliono solo certi pesci, devono essere senza spine. Ci sono pesci buonissimi che nessuno mangia più e che non te li comprano. Dobbiamo insegnare ai nostri figli a mangiare il pesce, tutto il pesce!», con le parole di uno che dopo molti anni di imbarchi ha cambiato mestiere. Continua un altro ex del mare: «Il mare è pieno di spazzatura, olio, motori, relitti. Certo, colpa dei clandestini. Però mi ricordo anche tutto il pesce che si tirava su e poi ributtavamo a mare quando lavoravo in Atlantico perché non pregiato e senza mercato. Mi ricordo che qui si pescava con le bombe e questo distruggeva tutto. Ci sono barche che in questi giorni tirano su dentici enormi pieni di uova… e poi come pensiamo che si ripopoli il mare?». E infine la questione della classe e dello sfruttamento: «I grossisti sono quattro strozzini, guarda uno è qui davanti. Il pesce entra a 5 [euro] da una porta e ne esce a 25 [euro] dall’altra. Non sanno manco cosa è un amo. Noi non siamo stati capaci a organizzarci. I «rigattieri» ci mettevano in concorrenza. Ti offrivano un prezzo più alto se non lo dicevi agli altri pescatori. La cooperativa? Non esiste. È solo per i contributi dello Stato, non per fissare un prezzo e fare un nostro punto vendita o ristorante».
Prima di partire, alcuni articoli di Giacomo Orsini ci hanno aiutato a comprendere i diversi modi di organizzarsi dei pescatori fra Lampedusa e le Canarie; se nel primo caso prevale una gestione individuale familiare, nel secondo il pesce viene conferito alle confraternite che si occupano di distribuirlo e rivenderlo, riducendo il potere dei grossisti. Dalle Canarie alcuni di noi sono tornati da poco e sul molo di Arguineguín abbiamo raccolto altre storie di mare che adesso portiamo qui a Lampedusa in queste conversazioni informali: la distruzione della pesca artigianale in Senegal, i viaggi auto-organizzati nei villaggi per raccogliere i capitali necessari a rottamare la vecchia imbarcazione e a comprarne una nuova, i pescatori costretti a fare i clandestini perché strozzati dalle multinazionali.
Eh sì, la pentola si sta svuotando; e non è un caso che ormai una buona parte delle catture in tutta l’industria ittica globale sia ormai di allevamento.
fabrizia paloscia dice
Ottimi questi spaccati ,grazie!!