Guai per il New York Times e il Washington Post: al processo contro Bradley Manning, le due testate sono finite sul banco degli imputati perché rimasero sorde agli appelli del giovane soldato che aveva offerto loro centinaia di migliaia di documenti segreti del governo statunitense. Si tratta della più grande fuga di notizie della storia degli Usa finì così nelle mani di Wikileaks: in pratica Manning aveva semplicemente scaricato documenti riservati mentre svolgeva il suo incarico di analista informatico in Iraq. I documenti raccolgono immagini drammatiche di guerra, tra i quali il video del 2007 Collateral Murder (il drammatico video, destinato a pubblico adulto, visto da milioni di persone in tutto il mondo lo trovate in rete) nel quale Apache statunitensi attaccano uccidendo dodici civili disarmati.
È stato lo stesso Manning ad accusare di insensibilità giornalistica i due quotidiani rivelando di averli contattati nel gennaio 2010. Dopo mille giorni dietro le sbarre (Juan Mendez, relatore Onu sulla tortura ha parlato di in modo molto chiaro di trattamento «crudele e disumano») solo nei giorni scorsi Manning è finito davanti al giudice, davanti al quale si è dichiarato colpevole di dieci capi di accusa minori sui ventidue raccolti nei suoi confronti.
Il magistrato militare, colonnello Denise Lind – qualche settimana dopo che il numero di suicidi tra i militari Usa ha superato quello dei caduti in Afghanistan (295) – ha accettato la dichiarazione di colpevolezza parziale che rischia di portare Manning per vent’anni dietro le sbarre ma gli evita il carcere a vita: gli sarebbe toccato per l’imputazione più grave, aiuto al nemico.
Intanto negli Usa e in altri paesi alcuni pezzi di società si muovono in difesa di Manning. Chris Carlsson, scrittore da sempre impegnato con i movimenti sociali statunitensi (tra i fondatori della prima storica Critical mass a San Francisco e autore, tra le altre cose, dell’ottimo «Nowutopia», Shake edizioni) ha promosso insieme a molti altri l’appello che trovate in rete (leggibile qui) dal titolo «Eliminiamo l'”Aiuto al nemico”, l’accusa rivolta a Bradley Manning». Scrive Carlsson: «Lasciate andare quest’uomo, è una fonte d’ispirazione … se solo ci fossero altri milioni disposti a fare come lui…».
E il mese scorso alcune organizzazioni politiche e sociali hanno promosso una campagna internazionale perché il premio Nobel per la pace sia dato a Bradley Manning (se ne parla, tra le altre cose, su bradleymanning.org/).
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