Dovrebbe essere a tutti piuttosto evidente che nel mondo contemporaneo la scomparsa dei contadini segnerebbe la fine del genere umano sul pianeta, eppure la tendenza sembra inarrestabile. Alle nefaste cause “ordinarie”- quelle politiche, culturali, economiche, ambientali – si aggiunge poi negli ultimi anni, un vero stillicidio di uccissioni di uomini e donne che si battono per la difesa dell’acqua o della terra e di chi la lavora. Non passa settimana, ormai, senza che veniamo a sapere di un’esecuzione, peraltro molto spesso annunciata. Quello che è probabilmente meno chiaro, non solo ai mandanti dei killer ma soprattutto alle istituzioni internazionali, è che con quelle vittime, coraggiose quanto quasi sempre inermi, muore il futuro di tutti noi
di Gustavo Duch
“E la nostra civilità non collassò, come tante altre, per mancanza di cibo. Collassò perché erano scomparsi quelli che lo producevano, i contadini”. Potrebbe iniziare proprio così qualche racconto apocalittico e come per tanti altri potremmo semplicemente tracciarlo a livello di fantasia, ma in questo caso dovremmo invece prenderlo molto seriamente.
Le cifre relative alla Catalogna sono una valida dimostrazione. Secondo i dati dell’Istituto di Statistica, dal 1994 ad oggi, il numero di coloro che si dedicano all’agricoltura è praticamente diminuito del 50 per cento. Si è passati da 51.000 persone alla metà: attualmente, dei sette milioni di persone che abitano in questo territorio, solamente 26.000 si dedicano alla produzione alimentare. E come dice il sociologo Josep Espluga: “Più preoccupante è chiedersi se oggi possiamo contare sul doppio di contadini rispetto al loro numero, per esempio, tra una decina di anni”.
Alle cause della scomparsa dei contadini nel mondo (politiche, culturali ed economiche), da alcuni anni dobbiamo aggiungerne un’altra, la meno rilevante in termini numerici ma la più grave per quanto riguarda il suo significato. Come un gocciolio che non si placa, ogni settimana veniamo a conoscenza dell’assassinio di contadini impegnati nella difesa della loro terra, dei loro fiumi, delle loro sementi, dei loro territori dove per secoli hanno raggiunto il magico equilibrio di procurarsi i beni per il loro sostentamento senza prosciugare le risorse che li producono.

Otto colpi
L’ultimo caso di cui sono venuto a conoscenza si è verificato in Sudafrica dove la notte del 22 marzo è stato ucciso con otto colpi – uno dei quali alla testa – Sikhosiphi Bazooka Rhadebe, leader comunitario impegnato a Xolobeni contro i progetti dell’impresa mineraria TEM, filiale dell’australiana MRC, interessata allo sfruttamento nel territorio della comunità di una miniera di titanio: una miniera che, come dicono gli abitanti della comunità, significherebbe la distruzione dei loro mezzi di sostentamento.
Pochi giorni prima, il 3 marzo, mentre dormiva, è stata assassinata Berta Cáceres, compagna del movimento internazionale Via Campesina in Honduras, e alla quale un anno prima era stato riconosciuto il premio Goldman (il Nobel verde). Lei, così come Gustavo Castro Soto, trattenuto [in Honduras] fino agli inizi di aprile, e Nelson García, assassinato una settimana più tardi, dopo lo sgombero da parte del Governo honduregno delle terre dove vivevano 150 famiglie, sono uomini e donne che difendono il diritto a poter vivere nei loro territori a fronte delle multinazionali del settore energetico, minerario e agrario che – con la complicità del Governo – pretendono di trasformare questi luoghi in un business lucrativo.
La terra e i fiumi, se protetti, sono madre e sostentamento; maltrattati e sfruttati con monocolture industriali (nel caso dell’Honduras, principalmente la palma africana per l’olio dell’agro-industria) o rinchiusi nelle dighe, sono indispensabili per l’impossibile miracolo della moltiplicazione infinita del denaro. Il conflitto centrale dei nostri giorni è questo: sostenere la vita o trasformare la vita in un business.

E così, avanza una pioggia di omicidi e di criminalizzazione di contadini che, se si presta attenzione, è una tormenta che infradicia. Nel solo mese di marzo, si possono aggiungere molti altri casi. Come quello di Walter Manfredo Méndez Barrios, ucciso con un proiettile mentre era diretto verso il suo campo in una delle zone della Reserva de la Biosfera Maya, in Guatemala, dove, a capo della cooperativa agricola La Lucha, esercitava il suo attivismo contro l’usurpazione delle terre e il loro uso illegale. O come la morte dei fratelli Cristian e Jorge Castiblanco, di 23 e 18 anni, e di Álex Carrillo, di 35, lavoratori della terra e attivisti comunitari che assieme alle loro famiglie e ad altri abitanti della regione colombiana di Cabrera, si oppongono ai progetti della mega-miniera e alla costruzione di dighe nel territorio di Sumapaz. Oppure come qui, nello Stato spagnolo, dove è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere André Bódalo, del Sindicato de Obreros del Campo, membro anch’esso de la Via Campesina, a seguito di una protesta collettiva contro il latifondismo e i suoi affari agrari.

La via contadina
E sì, si può dire che “la via contadina”, la volontà di difendere la terra che offre da vivere, è crudelmente attaccata. Ma è molto di più. Come direbbe John Berger: “Non si può depennare una parte della storia, il contadino, così come si traccia una linea sopra un conto pagato”, perché se consideriamo la sua cosmovisione, il suo rapporto con le risorse naturali, il suo sguardo e il suo agire comunitario e il senso di interdipendenza tra i piccoli universi che custodisce, potremo riconoscere il lievito giusto che serve a impastare nuove forme di società che assicurino un futuro sostenibile e autonomo. Quel che sta arrivando non merita alcuna fiducia.
Pubblicato sul blog Palabre-ando con il titolo Una tormenta de asesinatos
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
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