Nel leggere le poche righe che introducono lo spettatore alla visione della Grande Ambizione, biopic su Enrico Berlinguer, chi conosce l’opera del fondatore del Partito comunista, non può che essere spinto ad alcune riflessioni partendo proprio dalle funzioni e caratteristiche che doveva avere la sua classe dirigente. È compito secondo Gramsci del “capo politico”, cioè il moderno principe, essere interprete di quella che potremmo definire una grande ambizione, cioè attraverso una forma di pedagogia politica, di elevare il livello delle masse, non però considerandole “strumento servile”, ma protagoniste del divenire storico e artefici della trasformazione necessaria dalla società capitalista al comunismo. È però un buon capo politico, un vero moderno principe, quello che sa lavorare affinché la necessità di una divisione tra “governanti” e “governati” sparisca, non solo in seno alla società ma anche all’interno di quell’organizzazione politica, cioè il partito comunista, che ha il compito di governare questo processo.
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Il buon capo politico per Gramsci è colui che lavora affinché si possano dare le condizioni per la sua stessa sostituzione. Il primo compito quindi del capo, del dirigente politico possiamo dire, del moderno principe è quello di fare uscire le masse da quella condizione in cui sentono solo l’urgenza del particolare. È un compito ambizioso, perché implica l’instaurazione di un rapporto tra intellettuali e masse di ordine insieme pedagogico e politico, come politico lo sguardo che devono acquisire le masse per uscire da una visione corporativa della società che non sia legato quindi solo ai suoi bisogni immediati. Dai quali è inevitabile partire, ma oltre ai quali bisogna andare se non si vuole rimanere ancorati a un materialismo volgare e superficiale.
Ma il secondo e ancora forse più delicato compito è quello che porta ad avere l’ambizione (è qui che Gramsci ci esorta a orientare lo sguardo) che questo rapporto pedagogico tra intellettuale e massa, tra capo politico e classi subalterne, implichi un’educazione reciproca di dirigente e diretti perché senza questa educazione reciproca impossibile sarà l’estinzione della divisione tra dirigenti e diretti come della società divisa in classi. Solo cosi sarà possibile uscire dal particolare delle lotte specifiche per vedere l’orizzonte collettivo della trasformazione sociale e dell’approdo a una società socialista. Genuinamente socialista solo se il moderno principe saprà assorbire, grande veramente questa ambizione, nel nucleo dirigente delle lotte, attraverso una pedagogia politica espansiva, il protagonista storico delle stesse, confutando l’errore assunto degli elitisti, secondo il quale la divisione tra elites e massa sarebbe irrisolvibile.
Purtroppo questa ambizione pedagogica gramsciana non si è tradotta in una pratica consolidata della classe dirigente del PCI in nessuna delle sue principali fasi. Il partito ha saputo assorbire energie dalla società e aprire piccoli spazi, offrire posizioni di potere intermedie all’interno della sua struttura tenendone però quasi sistematicamente lontano da quelle apicali proprio il protagonista storico della trasformazione sociale, cioè la base militante.
Il compromesso storico non fu che l’ennesima dimostrazione di una concezione elitaria della politica, insita anche nel più grande partito comunista dei paesi occidentali, nel quale la direzione delle lotte la stabiliscono i dirigenti che la sottopongono ai militanti ai quali è lasciato solo il compito di ratificarne la razionalità e l’ineluttabilità.
È il progetto pedagogico la vera ambizione gramsciana, cioè quello di costruire un partito nuovo. Berlinguer come i suoi predecessori non è stato all’altezza di realizzare questo progetto. E delle tante sconfitte probabilmente questa costituisce la più grande. È una responsabilità che non può determinare una condanna senza appello, perché condivisa con molti altri capi, ma che impone a noi, oggi, un atteggiamento dialettico di fronte alle ricostruzioni che l’industria culturale stanno proponendo e che non serviranno a invertire la rotta che la nostra società ha preso, perché ci suggeriscono di ritornare a calcare sentieri che si sono rivelati nefasti come fossero la soluzione al malessere del presente.
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