Dopo circa venti anni dalla sua affermazione è venuto il momento di tentare un bilancio degli effetti sulle città e sul territorio dell’urbanistica contrattata. Esso deve partire da una constatazione statistica: nel quindicennio che va dalla ripresa del mercato delle costruzioni (1995) ad oggi, un fiume di cemento e asfalto si è riversato sul paese. L’Istat ha certificato (2009) la costruzione di oltre 3 miliardi di metri cubi di cemento, una produzione edilizia imponente, molto simile per dimensioni a quella realizzata negli anni ’50-70 quando l’Italia era investita da grandi flussi demografici e da indici di crescita economica a due cifre. La cancellazione delle regole urbane ha dunque giovato al mondo della proprietà fondiaria e delle costruzioni. Ha giovato anche alla qualità delle nostre città?
La risposta è inequivocabile. Le periferie – che rappresentano la parte preponderante delle nostre città – sono in assoluto, con alcune lodevoli eccezioni, le più brutte, disordinate ed invivibili dell’intera Europa. Lo sono per le carenze dei sistemi di trasporto, per la qualità dei servizi pubblici e degli stessi edifici. Le caratteristiche localizzative delle nuove periferie hanno anche contraddetto la regola usuale della città liberale, quella cioè di espandersi in adiacenza ai precedenti tessuti, mantenendo la città compatta e minori i costi di funzionamento urbano. In ogni parte del territorio agricolo sono nati centri commerciali, nuclei abitati, residence, cittadelle del consumo: lo sprawl urbano è la caratteristica più evidente del ventennio liberista. Le città italiane nel ventennio dell’urbanistica contrattata sono diventate più estese, più disordinate, socialmente più ingiuste. La speculazione immobiliare ha fatto giganteschi affari. Gli altri sono stati costretti a spostarsi nelle sempre più lontane e squallide periferie.
Una gigantesca periferia senza struttura e senza relazioni: abbiamo il più basso livello di infrastrutture su ferro, il più alto numero di automobili ad abitante, con il più elevato livello di superficie urbanizzata a parità di popolazione, un consumo di suolo senza uguali nei paesi ad economia forte. Un’immensa “non città”, anonima e disordinata. Una frammentazione che genera consumi energetici insostenibili, disfunzioni economiche e scarsa qualità della vita. Raccogliamo dunque gli effetti di processi giustificati dall’ideologia di uno “sviluppo” che oltre a lasciare macerie urbane ha anche vuotato le casse delle amministrazioni pubbliche. La stessa stagione delle “grandi opere” è servita soltanto al saccheggio. Dietro i concetti dell’ammodernamento del paese sono state avviate opere dannose e inutili: dal Mose al Ponte di Messina; dal corridoio della Val di Susa alle emergenze della Protezione Civile, è stata messa a punto una macchina perfetta che ha favorito soltanto le cricche del malaffare e dilapidato risorse pubbliche. Del resto, per collocare in un panorama più vasto le dinamiche italiane, non si deve dimenticare quanto è avvenuto in Grecia. Anche lì l’ideologia liberista ha imposto a tutti i costi lo svolgimento dei Giochi Olimpici nel 2004: il deficit di bilancio accumulato per la folle sfida è stato di 20 miliardi di euro dilapidati in cattedrali nel deserto: poco meno di un decimo del debito che sta collassando quella nazione.
Se si mettono queste caratteristiche del territorio in relazione con la crisi economica e finanziaria che sta colpendo sempre più intensamente il paese e che provocherà un’inevitabile diminuzione delle capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche, gli interrogativi sul futuro delle nostre città si fanno allarmanti. Non avremo risorse per portare i servizi nel territorio diffuso e – ciò che in prospettiva è più importante – non potremo competere con i livelli di efficienza delle città europee, con la qualità dei servizi erogati ai cittadini, con la loro capacità di fare rete – e richiamare investimenti privati – proprio in virtù dell’alto livello di funzionalità.
Viaggiamo verso una prospettiva insostenibile. Nella crisi globale una struttura forte del territorio è un potente fattore di traino di nuove attività: territori a bassa densità non sono invece in grado di competere con i livelli di concentrazione di servizio esistenti nelle città del mondo. La Comunità europea prevede che nel 2020 l’80% della popolazione degli stati membri vivrà in ambiente urbano. La sfida per la ripresa economica passa dunque per le città e l’Italia è la cenerentola rispetto ai paesi che anche in questi anni di liberismo non hanno abbandonato la cultura del governo delle città. Abbiamo minato le stesse basi per una nuova fase di sviluppo e per tentare di colmare la distanza dobbiamo essere in grado di rendere concrete due condizioni. Bloccare per sempre le espansioni urbane perché è un costo che non possiamo permetterci più e investire risorse pubbliche per migliorare le città. Assistiamo purtroppo ad una rincorsa bipartisan ad espandere ancora le città e ad impoverirle cancellando il welfare urbano, i trasporti urbani, fino a ipotizzare di svendere i monumenti.
È come se una banda di malfattori si fosse impadronita del paese. Continua infatti l’assalto alle coste marine ancora integre e l’unico motore di sviluppo è il cemento. Assistiamo poi ad un altro assalto all’integrità dei luoghi condotto mediante nuovi mostri giuridici come i “piani casa” (nel Lazio si deroga perfino per le aree ricomprese nei parchi) o le “zone a burocrazia zero” volute dall’ex ministro Tremonti con le quali si possono superare anche i vincoli paesaggistici che hanno rilevanza costituzionale sulla scorta dell’articolo 9. Salvatore Settis ha lanciato l’allarme sul rischio della definitiva cancellazione dei paesaggi storici italiani. Se a questo si aggiunge ancora che – deroghe a parte – i vigenti piani regolatori prevedono espansioni illimitate (solo i recenti piani di Roma e Milano prevedono un incremento di 120 milioni di metri cubi di cemento, e cioè un milione di nuovi abitanti in due città che perdono popolazione da circa trenta anni!) c’è davvero da preoccuparsi. Occorre interrompere questa folle corsa alla distruzione del Paese.
Solo in base a nuovi principi giuridici si potrà fermare il saccheggio del territorio e delle città. È necessario un nuovo paradigma e se finora lo sviluppo delle città e del territorio ha favorito la speculazione immobiliare e il mondo delle imprese colluse con la politica, è venuto il momento di riportare i destini delle città e del territorio nelle mani delle popolazioni insediate. Occorre affermare che il territorio, le città e le risorse naturali che consentono la vita insediativa sono beni comuni non negoziabili. Le istituzioni pubbliche, attraverso le forme della partecipazione attiva della popolazione, ne sono i custodi e i garanti nel quadro delle specifiche competenze.
È questo il pilastro su cui deve essere rifondato il governo del territorio. I beni comuni non possono essere trasformati in funzione dell’esclusivo tornaconto dei proprietari degli immobili ma ogni trasformazione deve essere decisa dalle amministrazioni pubbliche attraverso le forme di partecipazione delle comunità insediate. Specie in questo periodo di scarse risorse economiche. Le politiche urbane necessitano di investimenti pubblici. Una prassi normale nella storia delle città: esse sono infatti luoghi pubblici per eccellenza e la loro evoluzione è stata sempre alimentata dalla lungimiranza di coloro che la governavano. Oggi non si investe più perché “non ci sono più soldi”. Una menzogna vergognosa. Non passa giorno in cui non apprendiamo scandali e ruberie compiuti ai danni del territorio e dell’ambiente. È purtroppo vero che le risorse pubbliche vengono spese per opere inutili, per alimentare un sistema di potere che sfugge ormai al controllo democratico. La spesa pubblica per i provvedimenti contenuti nell’elenco serve per favorire la ricerca tecnologica e nuove produzioni, per rendere le città più vivibili. È un investimento per il futuro del Paese e delle giovani generazioni.
In questo senso è preminente interesse pubblico bloccare la corsa all’ulteriore espansione delle città e ridurre a zero il consumo di suolo ai fini insediativi e il mantenimento della parte naturale che è il luogo della biodiversità. Alcune normative regionali hanno già stabilito che nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali devono essere consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. La norma di principio valida su tutto il territorio nazionale potrebbe affermare ad esempio che «la realizzazione di nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamento di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali, può essere definita ammissibile, nei nuovi strumenti di pianificazione, d’intesa con la competente soprintendenza, soltanto ove non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture o attrezzature esistenti». L’esperienza ci insegna però che una simile norma non ha da sola la forza per fermare l’espansione urbana. Sono troppe le deroghe che consentono il nascere di nuovi insediamenti. Ma è innegabile che oggi il tema del blocco del consumo di suolo si stia facendo largo anche nella cultura degli amministratori pubblici: un piccolo ma combattivo nucleo di sindaci ha dato vita al movimento Stop al consumo di suolo, dimostrando che sono i cittadini a chiedere che le città non crescano più: si tratta di estendere all’intero Paese ciò che è già in movimento.
Il blocco delle espansioni urbane porterebbe un consistente riequilibrio dei bilanci pubblici. Si spendono infatti ingenti risorse per inseguire e raggiungere tutti i frammenti delle espansioni urbane nati recentemente. A carico della collettività resta infatti il pesante compito di realizzare le strade e le infrastrutture energetiche; di garantire servizi pubblici; i trasporti e la quotidiana gestione dei quartieri. Questi oneri sono ormai insostenibili poiché la crisi economica ha ridotto le capacità di spesa delle amministrazioni. Si deve dunque stabilire il principio che ogni attività di trasformazione urbanistica presuppone l’esistenza o la preliminare realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale, ad iniziare dalle reti di trasporto su ferro. A carico del privato vanno anche tutte le spese di mantenimento e di gestione dei nuovi insediamenti: è ora di chiudere il rubinetto che prosciuga le casse dello Stato.
In questo modo si possono cancellare le folli previsioni dei piani regolatori comunali. Se vogliamo davvero cambiare le città non possiamo consentire che si costruisca in luoghi privi di sistemi di trasporto non inquinante. I cittadini hanno il diritto, come in ogni altro paese europeo, di vivere in modo civile e non essere costretti a passare molte ore al giorno in spostamenti in automobile. È ora che gli attori edilizi si facciano carico della realizzazione delle infrastrutture interrompendo il comodo gioco di scaricarne i costi sulle amministrazioni pubbliche che non sono più in grado di farsene carico. Ricostruire regole nuove e blocco delle espansioni sono le uniche chiavi per affrontare il futuro delle città e dei territori.
(Questo testo, insieme ad altri, è stato pubblicato in Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva, edito da !Rebeldia edizioni, 2012; per aggiornamenti sul Municipio dei beni comuni promosso del Progetto Rebeldìa di Pisa leggete qua)
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