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Un gelato amaro per l’economia solidale

Riccardo Troisi / Monica Di Sisto
06 Luglio 2012

La notizia è nota da tempo: le multinazionali hanno cominciato a cavalcare la sempre più ampia fetta di mercato dei consumatori critici e hanno avviato azioni di facciata per ripulire la loro immagine infangata quanto a mancato rispetto della dignità della persona sul lavoro e a devastazioni ambientali. Ma negli ultimi tempi, con la crisi che riduce alcuni consumi, i casi di «green washing», l’espressione tecnica che denuncia queste operazioni di «pulizia», sono all’ordine del giorno, come dimostra il caso della Nestle che utilizza linee di prodotto con il marchio equosolidale «Fair trade».

Nelle ultime settimane assistiamo a una nuova campagna di questo tipo, promossa da una nota marca di gelati dal nome simpatico, «Ben & Jerry’s», diretta emanazione di una delle più grandi multinazionali dell’alimentare e chimica, Unilever. L’obiettivo della campagna è puntare proprio sui favori dell’associazionismo che lavora sulle buone pratiche della sostenibilità premiando 25 nuove «good ideas» con una donazione di 2.000 euro (qui sono leggibili tutti i dettagli).

È da tempo che Unilever usa questo marchio per cercare nuovi clienti tra i consumatori giovani e sensibili ai destini del pianeta.La prima gelateria Ben & Jerry’s è nata il 5 maggio 1978 da un’idea di Ben Cohen e Jerry Greenfield che ne aprirono una all’interno di una stazione di servizio di Burlington, e successivamente centinaia in tutti gli stati uniti grazie a un’immagine fortemente concentrata sul «naturale» e «fatto in casa», nonostante anni dopo la società fermò l’etichettatura dei gelati e frozen yogurt «tutti naturali» dopo che una campagna pubblica aveva fatto emergere l’uso di sciroppo di mais, cacao alcalinizzato, e altri ingredienti modificati chimicamente. Il salto dagli Usa al mondo Ben & Jerry lo fecero nel 2000, quando furono acquisiti da Unilever per circa 326 milioni di dollari in contanti, ottenendo, però, di poter continuare le proprie attività promozionali dirette al pubblico «socialmente responsabile». Il direttore esecutivo di Unilever Paul Polman nel 2010 ha rivelato al Guardian che questo atteggiamento pubblico a loro avviso è sempre più essenziale per competere nel mercato perché «i consumatori vogliono di più», ma anche perché «i costi connessi agli impatti ambientali legati alla nostra crescita non sono più sostenibili». E dunque mano libera ai pittoreschi gelatai, che hanno addirittura scritto agli occupanti di Wall Street ai tempi di Occupy di «stare dalla loro parte» per un «cambiamento del sistema», rivendicando che «abbiamo sostenuto gli sforzi dei cittadini per limitare i finanziamenti delle imprese alla politica, abbiamo pagato un salario ai nostri dipendenti, sosteniamo direttamente le aziende agricole familiari e stiamo lavorando agli ingredienti di origine equosolidale per tutti i nostri prodotti».

Nell’ultimo video di lancio della campagna comunicativa di Ben & Jerry, un simpatico ragazzo si chiede se «è possibile migliorare la qualità della vita?», per poi spiegare a chi guarda che ci sono molte associazioni in Italia paladine dei diritti sociali e ambientali che vanno aiutate. Come? Basta inviare un video e l’organizzazione migliore riceverà un bel premio. Ma se questa domanda la rivolgessimo direttamente a Unliver? Secondo i dati della Guida la consumo critico (Emi) curata dal Centro nuovo modello di sviluppo (http://www.impreseallasbarra.org) i comportamenti di Unilever, in realtà, sono tra i più aggressivi: la Guida, ad esempio, ricorda che questa multinazionale possiede piantagioni di tè in Africa e India ed è uno dei più grandi acquirenti dell’olio di palma e di cacao, settori estremamente critici caratterizzati «da salari al limite della sopravvivenza, da problemi ambientali di ogni tipo e perfino dalla presenza di lavoro minorile talvolta in schiavitù». Unilever ha mille responsabilità in molti settori, del resto i marchi Unilever sono tantissimi: Lipton, Tè Ati, Algida, Carte d’Or, Rama, Maya, Foglia d’Oro, Gradina, Blue Band, Bertolli, Knorr, Calvè, Hellmann’s, Maizena, Flora, Slim-Fast, Coccolino, Cif, Lysoform, Svelto Fissan, Pepsodent, Dove….

Intanto, «Ben & Jerry’s» ha cominciato ai produrre una linea di gusti utilizzando prodotti certificati fair trade: Così recita la promozione: «Oggi la produzione di Ben & Jerry’s è quasi tutta certificata da Fair trade questo significa che utilizzano solo prodotti provenienti da un commercio equo e solidale che garantisce, oltre al rispetto delle colture locali, un prezzo equo e stabile ai produttori del Sud del Mondo e un margine aggiuntivo (il Fair trade premium) da investire in progetti sociali e sanitari per le comunità locali» (qui è leggibile il comunicato di Fair trade Italia).

Probabilmente molte organizzazioni sociali hanno partecipato al concorso promosso da «Ben & Jerry’s», non sapendo che il marchio del gelato era della nota multinazionale. Sarebbe bello allora lanciare una contro proposta: inviamo anche noi un video alla Ben & Jerry’s nel quale però raccontiamo punto per punto i nostri dubbi e ricordiamo le violazioni denunciate dalla Guida al consumo critico. Chi è disponibile?

Unilever

Multinazionale alimentare e chimica presente in 75 paesi e classificata al 43° posto della graduatoria mondiale. Fattura 88.000 miliardi e impiega 267.000 persone. La multinazionale opera negli alimentari, nei detergenti per la casa, nei prodotti per l’igiene personale e in altre attività. In Italia opera attraverso cinque società autonome che fanno capo a Unilever Italia spa e sono Sagit, Lever Fabergè, Van Den Berg, Calvin Klein Cosmetics, Diversey. La Unilever Italia occupa i primo posto tra le imprese alimentari italiane, è azienda leader nel mercato degli oli d’oliva, dei surgelati, del tè, delle margarine e dei gelati. Unilever è il più grande commerciante al mondo di tè di cui è anche un grande produttore attraverso la propria filiale Brooke Bond. Pertanto Unilever è uno dei massimi responsabili delle gravi condizioni in cui versano milioni di contadini del sud del mondo perché i suoi metodi commerciali, totalmente ispirati ad una logica di profitto, non garantiscono guadagni dignitosi. secondo il sindacato internazionale degli alimentaristi, la controllata Brooke Bond continua a strappare ingenti profitti dalla sua piantagione keniota Sulmac, la più grande del mondo, ove impiega oltre 5000 lavoratori a tempo pieno. Le condizioni di lavoro sono state definite «da manuale del colonialismo».

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