La maggior parte dei migranti nel mondo sono “profughi ambientali”. Per questo abbiamo sempre più bisogno di comunità aperte, multietniche e multiterritoriali

I territori non sono di chi li possiede né le comunità di chi vuole controllarle, ma di chi li abita e cerca sia di valorizzarne le risorse palesi che di suscitarne quelle latenti. In comunità aperte alle potenzialità di una propria trasformazione basata sulle proprie risorse c’è posto per tutti e la molteplicità delle culture e delle biografie che le fanno vivere sono garanzia di una moltiplicazione delle forme in cui le risorse locali possono essere sia individuate che messe all’opera.
Oggi la principale manifestazione in campo sociale della crisi climatica e ambientale è senz’altro costituita dalle migrazioni forzate provocate dal degrado dei territori, dal saccheggio delle risorse naturali pregiate e dalle guerre finalizzate alla predazione o provocate dal deterioramento climatico e dalla conseguente riduzione delle risorse vitali. Queste migrazioni sono per lo più selettive: solo in occasione di disastri improvvisi che rendono inabitabile un territorio tutta la popolazione si sposta, in genere, nelle regioni vicine, in attesa di poter fare ritorno nelle proprie terre. Quando invece il deterioramento del territorio o della comunità è graduale, è in genere la componente più giovane, più intraprendente, spesso più istruita, a volte meno povera, avendo le risorse per affrontare un viaggio pericoloso e costoso, a spostarsi prima nelle città principali del paese, poi a tentare la via dell’Europa – dall’Africa o dal Medio Oriente – o degli Stati Uniti, dall’America Latina. Quella che arriva da noi – e di cui, contestualmente, vengono private le comunità di origine – è dunque, in genere, la componente più forte e attiva di una popolazione: una ricchezza umana che i paesi meta di queste migrazioni dovrebbero saper valorizzare, e che invece emarginano, disprezzano, opprimono e degradano in ogni modo.

È la globalizzazione, comunque, a sospingere questa manifestazione, il flusso ininterrotto di migranti, che sono in realtà quasi tutti profughi ambientali, nel cuore dei nostri habitat, mentre il colonialismo di un tempo teneva relativamente separate, e solo indirettamente connesse, lo sfruttamento dei lavoratori autoctoni e la repressione delle loro lotte di emancipazione e le conquiste dei lavoratori nelle madrepatrie dalla oppressione delle popolazioni colonizzate e dalle guerre per combatterne le rivolte. Per questo oggi non è più possibile né concepibile una emancipazione dei lavoratori, cioè la trasformazione del lavoro in attività condivise di cura del territorio e del prossimo, al di fuori di processi di accoglienza, inclusione e riscatto della popolazione migrante. Non possono più essere due processi separati, né uno di essi può essere subordinato all’altro.
L’accoglienza, al di là dell’obiettivo di medio termine del riequilibrio demografico tra paesi con una popolazione troppo vecchia e paesi con una popolazione troppo giovane, deve trovare il suo sbocco di lungo termine nel rendere le comunità espatriate protagoniste di una lotta per la liberazione e la rigenerazione delle loro terre di origine, valorizzando i legami che l’emigrazione odierna – a differenza di quella del secolo scorso – mantiene con le comunità di origine grazie a internet e, quando possibile, ai viaggi aerei low cost. La composizione sociale delle migrazioni odierne e la facilità dei collegamenti, per lo meno di quelli on line, danno sì che la maggioranza degli odierni migranti desideri e spesso progetti di tornare, temporaneamente o definitivamente, alla propria terra di origine, ma soprattutto di potersi sentire cittadini e cittadine di entrambi i paesi.
Per questo i migranti non possono, e non devono, essere considerati un «peso» da accollare alla comunità che li ospita, ma nemmeno solo «risorse» da mettere al lavoro, termine che rinvia a una concezione economicista degli esseri umani. Va messa in luce l’opportunità di carattere strategico che essi possono rappresentare per il futuro di tutta l’umanità attraverso la loro inclusione nelle lotte per la conversione ecologica e nei processi a cui essa darà luogo. Solo in questo modo è possibile costruire, per e con i migranti, una prospettiva che sfugga all’alternativa tra le politiche che oggi prevalgono – il respingimento a qualsiasi costo – e le forme, generose e ma parziali e spesso impotenti, di «accoglienza»: una politica che non sa ancora fare i conti con «il dopo».
Di fatto molte delle terre devastate da guerre, saccheggio delle risorse e cambiamenti climatici potrebbero ancora essere salvate e rigenerate, così come le rispettive comunità. Ma questa rigenerazione non può essere affidata a programmi di «sviluppo» decisi da governi dispotici, da multinazionali rapaci o da organismi internazionali a queste asserviti. Quella rigenerazione richiede un presidio umano ad opera di persone che siano state messe in grado e siano disposte a muoversi agevolmente tra le consuetudini locali delle comunità di origine e le tecnologie della conversione ecologica messe a punto, ancorché non ancorché poco applicate nei paesi di arrivo: fonti rinnovabili, agricoltura, allevamento e pesca sostenibili, edilizia a basso impatto, Ict, gestione del territorio, mobilità che non riproduca il caos della motorizzazione privata, ecc. I migranti che desiderano fare volontariamente ritorno alle loro terre, se messi in condizione di poterlo fare da un allentamento della pressione politica e predatoria sui loro paesi di origine, possono essere gli agenti di questa rigenerazione in processi di cooperazione decentrata tra comunità sorelle. E, nel frattempo, se messi in condizione di organizzarsi nel paese che li ospita, costituire un riferimento sicuro per le lotte di liberazione delle loro terre dal giogo della predazione e dall’oppressione dei governi che l’assecondano.
Questo articolo fa parte del quaderno Benvenuti
VOGLIAMO LA CAROTA SENZA LAVORARE. Non so cosa succedera’ tra non molto, abito a vicenza zona richissima di industrie una volta, perche’ oggi ci sono i capannoni vuoti, pochi operai occupati, e molte persone giovani per strada. credo che accogliere deve essere un’opportunita’ anche per i pensionati e perche’ i politici facciano le riforme. senza riforme chi paghera il debito insostenibile.