
Autunno, freddo, umido, il piacere di restare in casa, mestieri da fare, leggere, studiare. Suona il campanello, è un ragazzino nero, avrà forse tredici anni, una sporta con poche cose da vendere. Niente che possa interessami, anche se sorrido per l’impegno con cui mi elenca la sua mercanzia, saponi inaffidabili, calze, qualche cianfrusaglia. Ha freddo, forse è poco coperto per il tempo che fa, ha le guance arrossate, e si lamenta che non gli alleggerisco per niente il peso che deve portare.
Lo faccio entrare e gli offro una tazza di cioccolata calda con dei biscotti, mentre inizio a chiedergli da dove viene. In quella suonano il campanello: un ragazzino di poco più grande, anche lui con la sua mercanzia. Scoppio a ridere e gli mostro il mio ospite, così invito anche lui a prendersi qualcosa di caldo. Il primo ragazzo mi guarda con aria di riprovazione: vedi come sei, mi dice, hai una bella casetta, ma guarda qui quante cose in giro! Che ci fanno tutti quei libri e quei giornali? Metti via un po’, sarebbe più bello!
– La tua casa come è?
– Noi siamo in tanti, c’è mio papà, mio zio, ed altri ragazzi, abitiamo a Breno.
– Come sei giunto qui? (io sto in Valtrompia, una valle dopo).
– Siamo venuti in macchina con un amico di papà, poi stasera torniamo a casa. Ma tu ce l’hai un marito?
– No, sono separata.
– E stai qui da sola?
– No, poi viene mio figlio, e anche il mio compagno quando sta qui.
– Ma allora un uomo ce l’hai!
– E voi ce l’avete la ragazza?
Cerco di sfuggire all’indagine interrogando loro, e senza farsi pregare mi dicono l’età: uno ha tredici anni, come avevo pensato, l’altro quindici, sono in Italia con i parenti, la mamma no, è un gruppo di uomini quello che vive in Val Camonica. E la ragazza no, non ce l’hanno, è difficile conoscere qualcuno se si va sempre in giro, e poi loro sono mussulmani, e qui i ragazzi e le ragazze frequentano l’oratorio della parrocchia. Osservo che per loro è difficile inserirsi, chiedo se hanno provato a cercare altri posti dove si ritrovano i loro coetanei, non c’è solo l’oratorio.
“È brutto essere soli”, dice il più piccolo, e l’altro osserva: “Sai, qualche signora sta con noi…”. “Qualche signora quando bussate alla sua porta per vendere?”.
Penso che questa l’hanno vista in un film e chiedo loro che senso ha alla loro giovane età incontrarsi qualche momento con una sconosciuta adulta con cui non possono avere nulla in comune. Dico che io quelle non le capisco, io non sono disponibile a giocare a destra e a manca, e non accetterei nemmeno che il mio compagno lo facesse, se incontri una persona e stai con lei, non hanno senso quei giochi squallidi, e non credo servano neppure a loro!
Mi trovo all’improvviso a misurarmi con i pregiudizi e le fantasie che hanno accompagnato il viaggio di questi ragazzi, certo nutrite dai discorsi dei più grandi. Pensano davvero, o forse vogliono solo verificare, che le donne europee siano disponibili in ogni momento, visto che non indossano veli e che chiacchierano tranquillamente con loro. Io ho buon gioco perché grazie all’età posso assumermi un ruolo pseudomaterno, e quindi mi avventuro in punta di piedi per discorsi difficili, sperando di lasciarli almeno perplessi, in dubbio che la realtà non sia soltanto rifiuto o licenziosità, ma che c’è qualche possibilità di comunicazione senza equivoci.
Quanti errori si fanno in nome della buona volontà… Mi accorgo che il ragazzo più grande ha qualche barlume di comprensione, che sfugge al più piccolo. Questi spontaneamente parla e si lascia sfuggire parecchi pregiudizi, mentre l’altro almeno a parole ha capito come deve comportarsi per farsi accettare. I ragazzi sono seduti, hanno mangiato anche la patate al forno, si guardano in giro, li colpisce soprattutto la mole di libri e riviste che occupano la casa, fanno osservazioni e andrebbero avanti fino a sera, tocca a me salutarli e spedirli fuori, inconsapevoli del tempo che mi sono lasciata rubare mentre cercavo un modo per comunicare.
Qualcosa è passato, almeno un nucleo di fiducia, passeranno altre volte, e dopo alcuni mesi il più piccolo, forte della sciarpa e di alcuni vestiti smessi che gli avevo passato, passa per salutarmi, torna a casa, a trovare la mamma, e mi chiede se ho qualche vestito che le potrebbe piacere, vorrebbe portarle un regalo…
[Tratto da un libretto scritto tra dicembre 1995 e gennaio 1996, una vita fa…]
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