Ancora dodici chilometri è una storia di vita, di morte, ma soprattutto di lotta. Un reportage sui migranti che si avventurano verso la Francia lungo la rotta alpina, con il soccorso di cittadini italiani e francesi


Ancora dodici chilometri (Bollati Boringhieri, 2019) si presenta come un reportage sui migranti che si avventurano verso la Francia lungo la rotta alpina, ma in realtà parla di noi italiani, di come viviamo e attraversiamo questi tempi infami. È a suo modo una guida per osservare noi stessi. L’autore, Maurizio Pagliassotti, condivide e racconta le imprese di migranti e passeur, si fa passeur lui stesso, ma non vuole impietosire, né alimentare sensi di colpa. Più semplicemente, ma più duramente, vuole mettere a fuoco l’ordine delle cose, il clima di indifferenza e rassegnazione che ci pervade.
Il suo è un libro a tratti rabbioso – giustamente rabbioso – e rimarca, fra le altre cose, un punto chiave del nostro presente: lo scarto che divide gli antirazzisti da tastiera, informati, indignati e furenti ma immobili davanti allo schermo, e gli antirazzisti sul campo, quelli che fra Ventimiglia e Claviere, fra Oulx e Briançon, sostengono, aiutano, indirizzano individui – i migranti – che Pagliassotti ci invita a osservare con ammirazione, non con pietà o semplice spirito di solidarietà.
Gli uomini e le donne che salgono in bus a Claviere da Torino e che vorrebbero mettersi in marcia subito, nonostante il freddo e la neve, e che vanno convinti a passare almeno la notte al rifugio allestito dai “solidali” e a indossare scarpe pesanti e cappotti, queste persone sono forse l’ultima speranza cui aggrapparsi per l’avvio di un nuovo corso nella stanca, frustrata e cinica Europa degli anni Duemila: “Come questi giovani non siano oggi i nostri eroi, esempi unici e inarrivabili – scrive Pagliassotti – è un mistero dietro il quale si nasconde il suicidio dell’Occidente”.

Ancora dodici chilometri è un reportage serrato e acuminato, che bandisce la retorica e scava nel nostro mondo, nei nostri cuori, con ardore sincero. C’è la gioia dopo il passaggio di frontiera in automobile con un “clandestino” a bordo, ma c’è anche la dolorosa constatazione che il sentimento generale, nell’Italia e nell’Europa degli anni Duemila, è una cinica insofferenza per gli uni e per gli altri, per chi tenta di passare la frontiera e per chi si prodiga in aiuto.
I “solidali” sono criminalizzati, colpiti da leggi e ordinanze, circondati dall’antipatia e Pagalissotti non se lo nasconde. E però si domanda, e domanda a tutti noi: “Che accadeva a chi aiutava i partigiani, o gli inglesi, durante i gloriosi anni del fascio e della guerra? A chi li nascondeva nei fienili, o li portava proprio nelle montagne dove oggi i migranti sono aiutati nella loro fuga? Proviamo a ricordarlo”.
Pagliassotti frequenta i bar e le trattorie, ascolta i discorsi che si fanno e ne esce sconvolto. Perciò è cosciente di quanto sia drammatica la frattura fra “le ricche caffetterie del centro città dove tutti siamo d’accordo, dove regna l’altruismo”, e i bar di periferia e di provincia, ben più numerosi, dove sono anche lì d’accordo, ma in direzione opposta: “Lumpenproletariat che ha trovato un’inaspettata manna in grado di dare una prospettiva alla propria frustrazione: qualcuno ancora più disgraziato da odiare“.
C’è un’ulteriore frattura da mettere a fuoco: nella minoranza “altruista” antirazzista e antifascista, quelli che agiscono sul campo e mettono in pratica ciò che affermano e teorizzano sono a loro volta una minoranza e non sempre una minoranza compresa e considerata per quel che in verità è: un esempio, una guida, un’apertura a un futuro diverso.
Ancora dodici chilometri è una storia di vita, di morte, ma soprattutto di lotta. A ruoli, si badi bene, capovolti. La via del cambiamento e quindi della giustizia, dice Pagliassotti, non appartiene più a un variamente definibile “noi”, ma cammina nelle scarpe, nei muscoli e nella volontà di un popolo in marcia, inarrestabile:
“Penso che l’unica speranza per queste comunità sia data proprio da quei giovani che stanno tentando di venire qui, a contrastare questa discesa verso un baratro fatto di nulla. L’invasione da parte dei migranti è la nostra unica speranza di salvezza da questo goduto, e inconsapevole, scivolo verso la morte”.
Stiamo vivendo una crisi di civiltà che fatichiamo a riconoscere come tale. Nel Mediterraneo (con propaggini sulla via alpina, visto che chi arriva a Claviere e Oulx passa generalmente per Lampedusa o Pozzallo) è in corso un genocidio, che avviene nell’indifferenza generale. Anche le Alpi sono costellate dei corpi di chi non ce l’ha fatta, ma chi si cura davvero di loro, a parte i pochi “solidali” che provvedono alla cura non solo dei corpi ma anche dei cadaveri?
Un giorno, se dovesse prevalere un principio di giustizia universale e sovranazionale, questa fase della nostra storia produrrebbe istruttorie legali e processi, con le politiche europee sull’immigrazione come sfondo di numerosi crimini contro l’umanità. Gli imputati sarebbero governanti e decisori pubblici di vario livello, ma pochi fra noi potrebbero davvero dirsi assolti, quanto meno dal peccato (sia pure non reato) di omissione.
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