A guardarla da tanto lontano, la discussione sullo Stato plurinazionale, affermato nelle Costituzioni di Ecuador e Bolivia e rifiutato dal pessimo risultato del recentissimo voto cileno, potrebbe sembrare anche un po’ surreale. Ma come, dopo secoli di oppressione, i popoli originari ottengono un riconoscimento istituzionale da Stati a lungo governati da feroci dittature, con società profondamente segnate dalle culture razziste e coloniali, e non gli basta? L’accusa di estremismo, di assoluta mancanza di buon senso e realismo politico è lì dietro l’angolo. Possibile che non si accettino un’idea della transizione e la gradualità di certi processi difficili di emancipazione rischiando, com’è accaduto in Cile, di non portare a casa alcun risultato? Lo sappiamo, a qualcuno potrà sembrare paradossale, ma il problema sta probabilmente, oltre che nella evidenza della prospettiva da cui si guarda, proprio nei risultati: è davvero cambiato qualcosa di sostanziale nella vita concreta delle popolazioni indigene di Bolivia ed Ecuador a dieci anni dall’approvazione di quelle Costituzioni “avanzate”? C’è stato, al di là della retorica e delle promesse, un tentativo reale di rifondarli, quegli Stati? Due autorevoli femministe boliviane, il cui pensiero ha notevole influenza ben oltre i confini nazionali, Maria Galindo e Silvia Rivera Cusicanqui, sostengono ad esempio che “se le forze armate non vengono sciolte non ci sarà alcuno Stato plurinazionale
“, quello apportato nelle Costituzioni si rivela dunque che un cambiamento di pura facciata. Raúl Zibechi aggiunge che una delle ragioni chiave che spiegano perché l’idea di uno Stato plurinazionale appare già in declino e non viene fatta propria dalla maggior parte dei popoli che rivendicano territorio e si organizzano per recuperare spazi di vita è la crescente debolezza degli Stati di fronte al capitale. In fondo, dunque, si tratta esattamente di fare davvero i conti con la realtà, cosa che – da qualsiasi latitudine la si guardi – con l’estremismo ha ben poco a che vedere

L’idea progettuale della costruzione di uno Stato plurinazionale ha avuto ampio sostegno per risolvere le asimmetrie tra lo Stato-nazione, le nazionalità e i popoli originari. La corrente di pensiero che le ha dato vita, tuttavia, oggi si trova in evidente declino, mentre l’altra corrente che attraversa i popoli in movimento, quella autonomista, continua la sua lenta ma costante crescita.
La proposta plurinazionale era nata negli anni Ottanta, per iniziativa di organizzazioni contadine-indigene della Bolivia e dell’Ecuador, nel mezzo di processi di lotta che mostravano come lo Stato contenesse in forma violenta le rivendicazioni e le mobilitazioni dei popoli originari. La formula dello Stato plurinazionale
veniva considerata sufficiente per risolvere quel problema ed è stata infatti adottata nelle Costituzioni ecuadoriana del 2008 e boliviana del 2009.
Eppure, quella proposta fino ad oggi non è stata fatta propria dalla maggior parte dei popoli che rivendicano territorio e si organizzano per recuperare spazi di vita. Il declino della corrente plurinazionale deriva da due processi: la crescente debolezza degli Stati di fronte al capitale e l’esperienza concreta fatta nei due paesi citati, dove non si è registrata la minima “rifondazione
” dello Stato, dimostrando così, nei fatti, che si tratta ancora di costruzioni coloniali e patriarcali.
Il problema centrale è che la plurinazionalità comporta il fatto che sia ancora lo Stato a riconoscere che esistono diverse nazionalità indigene e culture che abitano lo stesso territorio. I progetti per incamminarsi verso un’amministrazione della giustizia secondo le modalità dei popoli originari non hanno mai funzionato, né è possibile che lo facciano, perché la logica dello Stato-Nazione continua a essere dominante.
Per non parlare, poi, delle forze armate e di polizia, nocciolo duro dell’apparato statale, dove le logiche dei popoli non ha mai avuto il minimo radicamento. Per 13 anni, in Bolivia, e 10 in Ecuador, con i governi di Evo Morales e Rafael Correa, non è stato fatto registrare alcun miglioramento sostanziale nella promessa “rifondazione
” dello Stato. Ecco perché sorge, inevitabile, la domanda: è possibile rifondare un’istituzione coloniale e patriarcale?
Lo scorso anno, le boliviane María Galindo e Silvia Rivera Cusicanqui convenivano sul fatto che “se le forze armate non vengono sciolte non ci sarà alcuno Stato plurinazionale
“. Si è trattato solo di un cambiamento del nome, dicevano, senza alcun cambiamento nelle strutture del potere politico, economico e simbolico.
In questo momento, la questione della plurinazionalità è molto discussa da settori dei popoli mapuche, in Cile, e aymara in Bolivia.
Il primo Incontro degli intellettuali della Nazione Aymara, che si è tenuto presso l’Università Pubblica di El Alto, in Bolivia, nello scorso luglio, ha concluso che la Costituzione Politica dello Stato, in vigore dal 2009, “è uno strumento dello Stato coloniale, che non risponde alla realtà né soddisfa gli interessi degli Aymara
.
La dichiarazione conclusiva dell’Incontro assicura che l’obiettivo è la ricostruzione della nazione aymara e delle altre nazioni originarie, secondo il principio del federalismo e di un sistema politico proprio, basato sulle comunità (ayllus) e le regioni (markas y suyos), senza l’intervento dei precetti della democrazia istituzionalizzata dello Stato
.
In questa corrente autonomista ha militato Felipe Quispe (con il soprannome di “El Mallku, è stato uno dei più noti e rilevanti protagonisti delle lotte indigene e popolari boliviane per decenni, fino alla recente scomparsa, avvenuta nel gennaio 2021, ndt), che rimase in prima linea nella mobilitazione contadina-indigena contro il regime golpista di Jeannine Áñez (novembre 2019-novembre 2020) e rese possibile la convocazione delle elezioni poi vinte dal Movimento per il socialismo. Anche l’attuale vicepresidente boliviano, David Choquehuanca, che ha sostenuto l’incontro degli intellettuali aymara, simpatizza apertamente con le posizioni autonomiste.

In Cile, il portavoce della Coordinadora Arauco Malleco (CAM), Héctor Llaitul – arrestato e nuovamente imprigionato a fine agosto dallo Stato cileno – durante l’inaugurazione di un centro comunitario a Peñalolén (Santiago), il 10 gugno scorso, sosteneva che negli ultimi 30 anni non aveva mai visto un solo striscione mapuche che chiedesse la plurinazionalità
e riaffermava che le rivendicazioni sono sempre di territorio.
In una lettera aperta della CAM, datata 8 agosto, si afferma che “la plurinazionalità, come proposta per la causa mapuche, risulta essere una misura vuota di forza territoriale e priva di prospettive di trasformazione. Si tratta, piuttosto, di un’invenzione accademica di un’élite che cerca spazi e quote di potere senza tener conto della realtà delle ingiustizie o dei reali bisogni del nostro popolo
“.
Una delle ragioni che porta questi gruppi a rifiutare la creazione di uno Stato plurinazionale e ad insistere sul recupero dei territori, è che “le condizioni con cui il grande capitale e il colonialismo hanno operato per espropriarci del nostro territorio si sono ulteriormente approfondite negli ultimi decenni
“. Una realtà che si riscontra in tutta la regione latinoamericana.
Penso che siamo dunque già nella fase di tramonto del progetto degli Stati plurinazionali. L’esperienza ha dimostrato che quel progetto di Stato non differisce affatto da quello tradizionale. È solo un modo per cercare di rattoppare delle istituzioni delegittimate senza toccarne affatto le fondamenta.
Versione originale su la Jornada El declive de la corriente plurinacional
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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