Il sottobanco è una definizione molto evocativa che Lea Melandri usa per riferirsi a tutto ciò che a scuola è nascosto, cancellato, represso. A cominciare dal corpo di chi abita le aule scolastiche: il vissuto, le storie, le sofferenze, le lingue, i desideri, le emozioni. La trasgressione trasformativa allora è tirare fuori insieme dal sottobanco ciò che lì viene relegato. Un gruppo di lavoro di diverse persone ha approfondito questo tema in un seminario, scegliendo come grimaldello il pensiero di bell hooks, e ha scritto, con calma e cura, un articolo ricco di senso. In realtà gli interventi raccolti nell’articolo sono sei
Sotto al banco, la trasgressione come pratica educativa
Sotto al banco, dietro alla cattedra. Stare tra, al lato, dietro e non solo di fronte. Nella polifonia e non nella cacofonia di una voce s-corporata (senza corpo) che ripete storie che non la riguardano a una classe non guardata. Quali storie? Come narrarle? Da dove? E come-dove ascoltarle?
Sotto al banco è un’espressione folgorante che mi ha colpita all’improvviso nel corso dell’intervento di Sara Rossetti alla scuola politica estiva di BeFree. Il sotto banco è una soglia, uno spazio in cui è possibile esercitare il dentro-fuori contemporaneamente.
A un tratto ho ricordato come sotto al mio banco di liceale c’era stato “ficcato” il mio dolore di adolescente che conosceva la morte. La morte irrompe nella mia vita e la scuola mi impone di tenere il mio dolore sotto al banco. Ci sono voluti l’insegnamento e la cura di Massimo Canevacci (ero una delle dieci nella ricerca in Mato Grosso), il vissuto straziante di Renato Rosaldo, il femminismo di tante compagne, per fare esplodere quel sotto banco e fare sconfinare tutte quelle emozioni e incrinare la mia timidezza di studentessa perennemente invisibile, brava, ma invisibile.
Il mio intento era armonizzare gli scritti che seguono, costruire una cornice di senso in cui collocarli e invece no. Affido queste preziose riflessioni alla lettura di tutte e tutti voi ponendole in una cornice di dis-senso, di ribaltamento e ribellione alla forzatura dell’armonia e del flusso ordinato per dirigerci verso un disorientato e favoloso sapere.
Grazie a Sara Rossetti, Rahma Nur, Elisabetta Careri, Elisabetta Serafini, Massimo Canevacci.
[Federica Scrollini]
Un incontro settembrino
Difficilmente quando penso all’inizio dell’anno penso a gennaio. Mi capita più spesso, da quando ne ho memoria, di volgere il pensiero, invece, a settembre. Le spese in cartoleria, l’emozione del principio, il caldo che si affievolisce pianissimo dandoci il sollievo giusto per tornare a scuola. La scuola come evento periodizzante delle nostre vite, di anno in anno. La prima volta mi è successo quando avevo tre anni e, a parte qualche piccola pausa, a oggi non ho ancora smesso.
E così, quando Federica mi ha chiesto di pensare insieme questo incontro settembrino, e di moderarlo, ho subito accettato e datogli un senso tanto personale quanto collettivo. Iniziare il rito dell’anno scolastico insieme, docenti, studenti, famiglie, a Roma, in una periferia sconosciuta ai più – forse dimenticata -, facendoci comunità, confortandoci, sostenendoci, parlando di scuola: non poteva che essere un’ottima idea. Farlo poi con bell hooks e il suo pensiero come fari guida non poteva che migliorare il tutto. Trasgredire partendo da sotto il banco. Un sottobanco che continua ogni settembre ad accumulare i soliti vecchi problemi che vanno dalla mancanza di risorse e organizzazione, ai bisogni, le rivendicazioni, le sensazioni e le condizioni delle famiglie, delle studenti1, delle lavoratrici della scuola. Un sottobanco che tutte abbiamo conosciuto, come lui conosce noi.
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Nell’incontro ci siamo chiesti a più riprese di che cosa avessimo bisogno per iniziare un anno realmente trasformativo a livello di pratiche educative. Abbiamo tentato delle risposte. Ci siamo poste ulteriori domande. Sicuramente ci siamo trovate reciprocamente, scoperchiando banco e sottobanco. Un luogo celato, che se potesse, oggi, parlerebbe di post-covid, genere, discriminazioni, razzismo, disuguaglianze, materiali e metodologie didattiche, etnocentrismo, formazione delle docenti, conflitto, paure, ansie, cura, ruoli, potere e benessere. bell hooks utilizza molti di questi concetti, li analizza e li rende pratica. Noi, dal canto nostro, li abbiamo provati a declinare nel contesto italiano, nei nostri singoli contesti di studio, lavoro, insegnamento, vita. Ce li siamo detti e raccontati, ed è stato importante; so anche per certo che li stiamo coltivando ancora, che dobbiamo coltivarli per vederli crescere, ancora.
Non aggiungo altro, le intense righe che seguono diranno tutto ciò che serve. Ringrazio le penne e le menti che gli hanno dato forma, Federica, che ha reso possibile tutto ciò, chi c’era in quel piacevole pomeriggio di settembre e chi leggerà. Chi lotterà.
[Sara Rossetti, insegnante e ricercatrice]
Il corpo a scuola: tra speranza e libertà
Per prepararmi al nostro incontro di autoformazione, di confronto e di scambio di pratiche e riflessioni educative, mi sono posta la domanda “Di cosa ho bisogno per iniziare questo nuovo anno scolastico?”.
Premetto che è da qualche tempo che, “ogni anno scolastico”, lo inizio con fatica, con una malcelata tristezza e impotenza e anche questo settembre ho provato gli stessi sentimenti. Mi sono chiesta però, anche, perché mi devo sentire così, perché devo lasciare queste sensazioni prendere il sopravvento su di me: allora sono andata a rileggere bell hooks e i miei appunti. Mi sono posta in ascolto di me stessa e sono arrivata alla scelta di tre punti da cui partire per iniziare l’anno: “Il nostro corpo a scuola”, “Tenere viva la speranza”, “Educazione come pratica di libertà”.
Innanzitutto, non voglio perdere di vista il mio corpo e la mia salute, perché se non sto bene, non stanno bene le persone che mi circondano; voglio avere cura di me e dei corpi, delle menti e dello spirito dei miei alunni e del mio gruppo docente.
Non voglio perdere la speranza, che vacilla ad ogni cambio di governo, ad ogni uscita inopportuna sulla scuola; voglio continuare a rendere l’apprendimento/insegnamento accattivante, coinvolgente e gioioso per loro e per i miei studenti, soprattutto perché fuori dalle aule e dalle mura scolastiche, assistiamo a fatti intrisi di violenza, di putridume patriarcale, razzista e abilista, che rende questa speranza fievole, che indirizza uno sguardo sugli studenti come fossero solo da punire e non persone che hanno il diritto di imparare e, soprattutto di essere viste. Questo vuol dire quindi anche decolonizzare, decostruire, il nostro pensiero e ciò che abbiamo imparato erroneamente, facendo il possibile per attuare una “trasformazione multiculturale”.
Un modo per lavorare con e su noi stessi, è stato lo “storytelling”: raccontare di sé, apre una porticina per far entrare gli altri e permettere poi, che gli altri raccontino di loro stessi. È uno scambio equo: io do qualcosa di me a te e tu qualcosa di te a me.Raccontare storie ci aiuta a creare comunità, come insegna la hooks, e ora che le nostre aule sono variegate, la condivisione dei nostri vissuti può facilitare “l’apprendimento comunitario”.
Condividere vuol dire anche non dimenticare che, come insegnanti abbiamo un potere, che non tutti sono disposti a riconoscerlo o a metterlo da parte invece di usarlo in modo arbitrario; condividere vuol dire ascoltare le altre voci, senza sovrapporsi e senza competere; vuol dire avere fiducia, prendersi cura ed essere consapevoli del benessere di ciascuno. Vuol dire prestare attenzione alle parole, a ciò che viene detto, a come viene detto e qual è l’impatto sugli altri; condividere è anche essere consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, come insegnanti e come alunni; come docenti abbiamo anche il dovere di aiutare i nostri studenti a superare i pregiudizi, le storture che la società ci passa, le differenze di genere e di classe e loro hanno il diritto di essere ascoltati, di porre domande, di voler sapere e capire come funziona il mondo. Abbiamo il dovere sacrosanto di mantenere viva la speranza anche in loro.
Mi sento di aggiungere inoltre che abbiamo il dovere di rendere l’aula un luogo sicuro per tutti; prepararci a ricevere alunni di culture diverse senza dimenticare, però, che alcuni di loro sono italiani, sono nati qui, crescono qui e cercano rappresentazione e comprensione; trattiamoli di conseguenza, cerchiamo, come suggerisce bell hooks, di riconoscere Codici culturali differenti; non oggettivizziamo perché quel tal studente è di un’etnia diversa, non usiamoli come “informanti nativi”, un ragazzo o una ragazza africana, non possono parlare per l’Africa intera.
Per concludere, l’aula è un luogo di apprendimento ma è anche il luogo nel quale ci impegniamo reciprocamente per creare una comunità di apprendimento. È uno spazio condiviso dove deve avvenire uno scambio onesto e aperto di idee, dove docenti e discenti devono sentirsi liberi di esprimersi senza essere giudicati o rimproverati. Questo è ciò che bell hooks ci invita a perseguire.
[Rahma Nur, poeta e insegnante]
Liberare il sottobanco
Il sottobanco è una definizione molto evocativa che Lea Melandri usa per riferirsi a tutto ciò che a scuola è nascosto, celato, cancellato, represso. Ciò che non ha il diritto di stare in bella vista sopra il banco e viene spinto sotto1. Il corpo di chi abita le aule scolastiche – il vissuto, le storie, le sofferenze, le lingue, i desideri, le emozioni – è presentissimo eppure escluso dal discorso scolastico. La trasgressione trasformativa allora è tirare fuori insieme dal sottobanco ciò che lì viene relegato. Il corpo.
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Spesso, quando parliamo di educazione e pedagogia di genere, parliamo dei corpi degli e delle studenti, silenziati, mai nominati dal sapere trasmissivo, dalle discipline e dalla disciplina, dal modo in cui l’istituzione scolastica è organizzata, parlarne è cruciale, ma è altrettanto cruciale parlare del corpo dell’insegnante, l’altro corpo presente in classe, un corpo a cui l’istituzione dà un potere molto particolare. Per questo proviamo a partire da noi, come il femminismo ci insegna, e dal nostro corpo in classe inteso come corpo politico. La prima cosa da dire è che il corpo docente in Italia è un corpo di donna.
In Italia, nell’anno scolastico 2020/2021, l’83% del corpo insegnanti è composto da donne, una percentuale addirittura in aumento rispetto al passato2. Analizzando il dettaglio di questo dato complessivo scopriamo che la presenza varia a seconda del ciclo scolastico, partendo dalla quasi totalità all’infanzia e primaria (si sfiora il 100%), passando all’85% della secondaria di primo grado e rimanendo a percentuali molto alte (intorno al 79%) anche alla secondaria di secondo grado. È una peculiarità tutta italiana rispetto agli altri paesi europei, uno squilibrio che si può associare a un altro dato che vede l’Italia molto indietro se confrontata al resto d’Europa, quello relativo ai salari di chi insegna, che qui sono molto più bassi.
Qual è la relazione tra la femminilizzazione dell’insegnamento e i bassi salari? E perché bisogna affrontare questo nesso quando si parla di educazione di genere?
Marcella Farioli, nel suo “Le vestali della classe media”3 sostiene che le ragioni della femminilizzazione del comparto scuola sono varie, prima tra tutte la persistente concezione del compito educativo come qualcosa di “naturalmente” destinato alle donne, tutte di indole affettuosa, pazienti e inclini alla dolcezza in quanto predisposte ad essere madri. La professione docente è quindi intesa come prolungamento del ruolo materno, una concezione problematica per due ragioni: perché non mette in discussione il concetto di “materno”, ancora naturalizzando il ruolo di cura come ruolo femminile, e perché deprofessionalizza l’insegnamento equiparandolo, a una forma di accudimento e maternage. Non è un caso che spesso si faccia riferimento al lavoro dell’insegnante come a una missione o a una vocazione, termini affatto neutri, al contrario funzionali a svalutarne la professionalità.
La retorica della missione è “la formidabile copertura ideologica di una svalutazione sociale dell’istruzione” e la volontà di consolidare un ambiguo modello educativo, che considera adatte le donne a educare le bambine o i bambini solo nei cicli scolastici iniziali, infatti più il contenuto culturale si specializza più viene affidato a docenti maschi, percepiti come portatori di una sapienza più alta. La presenza numerica delle donne nel settore istruzione-formazione è in rapporto inversamente proporzionale al livello stipendiale e al prestigio sociale.
Il fatto che il corpo dell’insegnante sia un corpo di donna ha quindi delle implicazioni importanti, il nostro essere tutte donne consolida un’oppressione, rafforza la norma di genere secondo la quale sono sempre le donne per natura ad occuparsi del lavoro di riproduzione sociale, un lavoro al quale non va riconosciuto grande valore professionale né economico perché fatto “per amore”.
Entriamo in un paradosso: vogliamo decostruire gli stereotipi di genere ma è il nostro corpo posto nel ruolo di chi cura che li alimenta. La figura della mamma–maestra però, come ci ricorda Lea Melandri, “è scomoda, da contorsionista. Le si chiede di trasmettere un sapere che, mentre la celebra come mito, ne proclama l’insignificanza storica”4.
I corpi delle migliaia di insegnanti che ogni giorno varcano la soglia delle aule scolastiche non trovano spazio sui libri di testo, le loro parole raccontano gesta di uomini bianchi, esplorano geografie di occidente declinate al maschile universale. La parola dell’insegnante nega il proprio corpo, dice Lea Melandri, un corpo che è alienato dal sapere. bell hooks in Insegnare a Trasgredire ci spiega perché il corpo dell’insegnante, come quello delle studenti, deve essere cancellato da ciò che si insegna dandoci un’indicazione di metodo per provare a sovvertire questa impostazione.
La cancellazione del corpo incoraggia a pensare che stiamo ascoltando fatti neutrali e oggettivi, fatti che non sono legati a chi condivide le informazioni. Siamo invitati a insegnare come se le nozioni non emergessero dai nostri corpi. È significativo che quelli di noi che cercano di criticare i pregiudizi in classe sono stati costretti a tornare al corpo per parlare di noi stessi come soggetti nella storia. Siamo tutti soggetti nella storia. Dobbiamo tornare allo stato di esseri incarnati per decostruire il modo in cui il potere viene tradizionalmente utilizzato in classe, negando la soggettività ad alcuni gruppi e accordandola ad altri. Riconoscendo la soggettività e i limiti dell’identità, interrompiamo quell’oggettivazione che è così necessaria in una cultura del dominio.5
Affinché il corpo sia effettivamente invisibilizzato l’insegnante deve aderire a un canone di accettabilità che la vuole bianca, eterosessuale, abile, accogliente, accomodante e aderente ad un modello di moralità sessuale e politica “rispettabile”. Chi si rivela non conforme rischia durissimi attacchi da parte della comunità scolastica, dell’opinione pubblica e talvolta anche dell’istituzione stessa. Se il nostro corpo è impossibile da invisibilizzare, se turba troppo, tanto da mettere evidentemente in discussione il sapere trasmesso, le istituzioni – razziste, sessiste, abiliste e omolesbotransfobiche – lo marginalizzano, lo escludono e fanno di tutto per destituirlo da quel ruolo. Lo sappiamo bene dopo la tragica morte di Cloe Bianco, insegnante di ruolo, discriminata perché persona trans, prima demansionata poi sospesa, vittima della più feroce violenza istituzionale6.
Cosa facciamo? Pensiamo sia necessario prima di tutto prendere consapevolezza del significato del nostro corpo in classe, delle implicazioni politiche della femminilizzazione, per sovvertire l’associazione corpo insegnante/corpo materno, rifiutando la naturalizzazione del lavoro di cura, la deprofessionalizzazione del lavoro delle insegnanti, rifiutando la retorica della missione e le condizioni di lavoro che questa retorica nasconde, pretendendo salari adeguati e stabilizzazioni per le migliaia di precarie storiche sulle quali si regge la scuola italiana.
Bisogna poi interrogarsi sul potere che ci viene concesso, su come lo usiamo in classe, su quanto la norma madre-maestra incida sui nostri comportamenti, sul nostro modo di disciplinare i corpi di alunni e alunne. “Riconoscere che siamo corpi in classe è stato importante per me, specialmente nei miei sforzi di sabotare la nozione di docente come mente onnipotente e onnisciente”7.
Non ci resta che metterci a lavorare “sulla decostruzione degli stereotipi interiorizzati che, spesso inconsapevolmente, si riportano nella relazione educativa”8 come afferma il Piano Femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere di Non Una di Meno, prendere consapevolezza del fatto che si trasmette prima di tutto quello che si è, e che gli stereotipi passano non solo attraverso ciò che diciamo ma attraverso i nostri gesti, i modi di fare, l’organizzazione dei tempi, degli spazi e delle modalità della didattica. Non essere consapevoli di queste dinamiche implicite ci rende complici di ciò che vogliamo combattere.
Dobbiamo trasformarci in quelle che Rachele Borghi chiama “portatori sane di potere”, hackerando il sapere razzista, sessista, abilista, classista e omolesbotransfobico. “Quando ti muovi, ovunque ti muovi, qualsiasi cosa tu faccia, il tuo corpo circolante è sempre potenzialmente uno strumento di oppressione. E allora, a un certo punto, l’unica cosa che puoi fare è cortocircuitare il sistema in cui sei inserita. Non si tratta di innestare il virus ma di diventarlo tu stessoa”9, sovvertendo il carattere di “onniscenza e onnipotenza” che l’istituzione scolastica conferisce alla nostra figura in classe, mostrandoci anche nella vulnerabilità, nella nostra umanità, soprattutto esponendoci, come insegnanti, prendendo posizione rispetto al sapere, rivendicando un posizionamento che smascheri la falsa neutralità di un canone patriarcale e razzista, e aprendo spazi di parola per dare voce al vissuto, alle oppressioni e all’esperienza, spazi che interroghino ciò che i saperi omettono, nascondono, travisano.
Non farlo vorrebbe dire relegare nel sottobanco la sofferenza, le urgenze, i desideri, le oppressioni, il dolore, la marginalizzazione, tacerle nonostante siano presentissimi nelle classi, girarsi dall’altro lato e lasciare che si esprimano indirettamente, vorrebbe dire non assumersi la responsabilità, come scuola, di essere il luogo in cui la condivisione dell’esperienza può essere trasformativa.
1 Melandri, Lea, “Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola”, Postfilosofie, 2018, n.11, pp. 89-107
2 https://www.tecnicadellascuola.it/in-italia-piu-di-8-docenti-su-10-sono-donne-ocse-stipendi-adeguati-potrebbero-trattenere-insegnanti-di-entrambi-i-sessi
3 Farioli, Marcella, “Le vestali della classe media. Funzioni politiche della femminilizzazione dell’insegnamento nella scuola italiana”, Dialoghi 6,1 (2015), pp. 3-12
4 Melandri, Lea, op. cit., p.102
5 bell hooks, Insegnare a trasgredire, Meltemi, Milano 2020, p.174
6 Al seguente link un articolo che racconta la storia di Cloe Bianco: https://www.dinamopress.it/news/la-rabbia-di-cloe-brucia-ancora/
7 bell hooks, op. cit., p.173
8 Non Una di Meno, Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, (p. 15), l’intero documento al seguente link: https://nonunadimeno.files.wordpress.com/2017/11/abbiamo_un_piano.pdf
9 Borghi, Rachele, Decolonialità e Privilegio, Meltemi, Milano 2020, pp.191-192
[Elisabetta Careri – Cattive maestre]
Imparare a trasgredire
Ogni giorno passato a scuola – oserei dire ogni minuto, ogni attimo – è in potenza radicalmente trasformativo. Ogni mattina si entra in aula con in testa i progetti per la giornata, gli obiettivi da raggiungere a breve e medio termine e il modo in si vuole provare a raggiungerli, ma non si ha la benché minima idea di come se ne uscirà: se elettrizzatǝ per quegli sguardi accesi e vivi che quando suona la campanella si accompagnano al grido “No! È già ora di uscire?!”, se intristitǝ perché c’è chi non ha proprio voglia di accendersi – che ha ben altro da guardare –, se stroncatǝ da quella frase che dimostra quanto quegli stessi occhi siano capaci di guardarti dentro e vedere anche ciò che non vorresti mostrare. C’est la vie, si potrebbe pensare. É la vita che ci mette costantemente a confronto con l’inatteso. Forse sì, ma con qualcosa in più: la scuola è vita ad altissima densità, è tante vite che si incontrano in uno spazio troppo piccolo per contenerle, a creare trame intricate delle quali vorresti non perdere nulla per restituire quanti più sostegno, vicinanza e opportunità possibili. Ma perdi quasi tutto e con quel ‘quasi’ provi a costruire un progetto sensato di comunità.
Per tutte queste ragioni mi resta difficile ricordare che insegnante ero solo un paio di mesi fa, quando mi ritrovavo a discutere con colleghǝ e amicǝ di trasgressione come pratica educativa, di segnali dal sottobanco che troppo spesso lì restano ben nascosti o, purtroppo, ignorati. Era un sabato di metà settembre e a breve sarei rientrata in classe dopo un anno di congedo, durante il quale sono stata impegnata in un progetto di ricerca promosso dall’Università di Roma Tor Vergata. Un anno che mi è servito anche a comprendere quanto la scuola, con tutta la sua vita, con tutte le sue vite, mi mancasse, e, più in generale, quale opportunità sia quella di poter sconfinare, continuamente, tra i campi della scuola e dell’università, dell’insegnamento e della ricerca, della docenza e della formazione docenti, delle pratiche educative e del femminismo. Spostarsi e poter adottare uno sguardo strabico sulle diverse fasi della formazione, su docenti e discenti e, non meno importante, su me stessa quale punto di intreccio di questi molteplici fili, uno tra i tanti che compongono le trame della scuola.
Tali prospettive incrociate sul sistema educativo fanno emergere con ancora più chiarezza una complessità che non si può leggere e decodificare in solitudine. Occorre essere tantǝ e porsi le stesse domande, come scriveva Mario Lodi. Dunque, le riflessioni che ho avuto modo di portare all’incontro organizzato da Linearmente, e che provo a ri-portare qui, non possono essere considerate ‘mie’ riflessioni perché nascono dall’incontro con i testi (bell hooks con il suo Insegnare il pensiero critico, potente e necessario, da poco concluso), con le compagne di strada e di pensiero, con le ‘maestre’ di scuola e di vita, e si modificano e trasformano grazie a queste contaminazioni.
Insegnare a trasgredire, suggerisce bell hooks. Ma occorre imparare a trasgredire prima di insegnare a farlo. E, ancor prima, intenderci su come interpretiamo la trasgressione e rispetto a cosa vogliamo trasgredire. Trasgredire come andare oltre, superare i limiti imposti da un sistema profondamente patriarcale e capitalista, generatore di visioni razziste, sessiste, abiliste, speciste che è necessario smascherare esercitando lo sguardo a situarsi ai margini ed educando a farlo. Farlo insieme, studenti e docenti, a partire dalle proprie esperienze e dalle proprie storie, perché quel sistema si fonda su oppressioni agite e subite, facendo emergere le quali si può ragionare su come le differenze possano essere trasformate in disuguaglianze e asimmetrie. E ragionare sul fatto che, a partire da quelle stesse differenze, possiamo provare a costruire comunità democratiche, valorizzando ciò che ci distingue e ciò che ci accomuna, oltre le evidenze, ma ancor più le relazioni che ci legano e che determinano profondamente le nostre complesse identità in continuo mutamento. Questo processo passa inevitabilmente attraverso il conflitto, spesso anche interiore, attraverso il dolore che va accolto con compassione, ma senza lasciare nulla all’improvvisazione, almeno per ciò che possiamo prevedere. Non c’è possibilità di realizzare una pedagogia libertaria, di educare al pensiero critico (e non al conformismo e all’obbedienza) senza prendere in considerazione il conflitto, inteso come opportunità di educare al confronto costruttivo tra posizioni differenti.
Allontanarmi per un anno da scuola è stato utile, pure se doloroso. Anche in questo caso un situarsi e guardare dal margine, perché non sono mai riuscita a uscire del tutto. Mi ha ricordato ancora una volta quanto sia necessario che la scuola cambi globalmente e radicalmente perché i risultati siano solidi e durevoli, che non sono sufficienti – per quanto estremamente importanti – le iniziative di alcunǝ insegnanti, perché come individui siamo capaci di incarnare modelli completamente differenti di scuola, che spesso sono incompatibili agli occhi di bambinǝ e ragazzǝ. Per limitarsi soltanto a ricordare uno degli argomenti più discussi a scuola negli ultimi anni, non basta una riforma del sistema di valutazione nella primaria per renderlo realmente formativo. È fondamentale che la scuola come comunità intera si ponga delle domande e chiarisca qual è il modello educativo a cui intende fare riferimento per comprendere che tipo di docente vuole al suo interno (e in base a ciò attivare una formazione iniziale e in servizio coerente) ed è fondamentale che queste domande arrivino dalla base e lì vengano discusse. Ciò presuppone che lo spazio angusto dell’aula si apra alla comunità e al dialogo con gli altri segmenti del sistema formativo, università compresa, che anche l’aula accademica sia disponibile a un dialogo paritario con la scuola, che le pratiche femministe vengano integrate nella nostra idea di scuola, senza istituzionalizzarle allontanandole dalla base e dall’attivismo. Come tutto questo si possa realizzare non si può che pensare insieme, procedendo per sperimentazioni e, inevitabilmente, per tentativi ed errori.
Necessariamente, come docenti dobbiamo essere prontǝ a riconoscere e rivedere la nostra posizione di privilegio, a fare un passo indietro – anche contenendoci nei nostri interventi –, a raccontarci, a guardare il nostro sottobanco, a tirare fuori e a rendere visibile l’implicito, il non scritto della nostra programmazione, perché molto probabilmente ha un peso maggiore di ciò che riusciamo a esplicitare.
[Elisabetta Serafini , storica e insegnante]
Sotto al banco. La trasgressione come pratica educativa.
Massimo Canevacci, docente di Antropologia culturale all’Università di Roma La Sapienza, facoltà di Sociologia e visiting professor all’Università di San Paolo (USP)
Per Beatriz Nascimento
Quando ero studente, ho vissuto strane pratiche educative. In V elementare, il maestro – vestito elegante, occhiali d’oro, capelli grigi tirati all’indietro – mi chiamava per interrogarmi e mi faceva stare in piedi vicino a lui, seduto nella cattedra. Se non rispondevo a una sua domanda, aveva le unghie molto curate tagliate a triangolo e le premeva con più o meno forza sul mio collo nudo, appena sopra il colletto bianco che sorreggeva il fiocco, e sorrideva verso gli altri alunni, che capivano il motivo delle mie smorfie. Un’immagine che mi rimarrà sempre impressa era la sua “benevolenza” con cui compiva atti feroci e diseducativi contro di me, quasi fosse la sua missione o perversione. Ero un bambino silenzioso, quasi ovattato, e subivo le sue angherie come fosse un evento “normale”, quel maestro che ricordo dopo tanti anni mi ha fatto inconsapevolmente crescere “sotto banco”, incapace di iniziare a studiare o semplicemente a capire: sotto-messo.
E in effetti, sotto al banco ci sono rimasto per anni, incapace di alzarmi e guardare in alto, prendere decisioni, decidere di gestire il mio destino o almeno qualche pagina di un libro scolastico. Quando mi iscrissi a Scienze Politiche alla Sapienza, il docente di geografia politica, faceva entrare uno alla volta noi studenti per farci sedere in una poltrona comoda, luci soffuse in penombra, sulla scrivania lucida una mappa, dove il suo sguardo fissava un punto e sussurrava all’orecchio: Sharm El Sheik, e dovevamo indicarla nella cartina muta. Se sbagliavamo tre volte eravamo bocciati. Decisi di cambiare facoltà e a Lettere e Filosofia ascoltavo in piedi Lucio Colletti che leggeva e interpretava Il Capitale di Marx nell’aula 1 strapiena.
La trasgressione per me arrivò insieme alla musica. Per motivi difficili a spiegare almeno qui, ascoltare Charlie Parker e poi John Coltrane fu esperienza formativa fondante. Adoravo e inseguivo nelle mie fantasie le improvvisazioni dei loro sax. Le improvvise modulazioni fuori dagli schemi e dagli spartiti mi comunicavano un senso di libertà e di possibilità. Forse questa è la parola decisiva: era possibile improvvisare, cioè dopo saper svolgere i temi secondo le regole, infrangerle non per distruggerle, ma per andare oltre. Immaginavo di fare lezioni usando la voce tipo il sax contralto di Coltrane.
In genere, si dice superficialmente che la differenza tra un professore di liceo e uno dell’università dipende dalla ricerca e di come specifiche ricerche influenzino la didattica. Non sono mai stato d’accordo in questa visione semplicistica: ci sono ottimi professori nel liceo che fanno ricerche originali, come il mio di greco al Giulio Cesare; e ci sono docenti universitari che ripetono solo e sempre quello che hanno studiato. Per proseguire il discorso sul banco, era necessario spostarlo dalle aule e collocarlo in contesti diversi, fuori delle mura di scuola e università. Era necessario osservare panorami diversi per mettere insieme docenti e studenti, in modo che le esperienze fossero almeno in parte condivise.
Insomma i saperi stanno dentro e fuori le mura dell’insegnamento. Questa è stata la prima scoperta trasgressiva. Un giorno non si poteva fare lezione, non ricordo il motivo, dovevamo finire e uscire dall’aula, così proposi di camminare fuori per visitare la Roma antica ancora presente (insegnavo antropologia urbana) e li portai a piazza Sallustio, dove c’erano i famosi horti e ora si vede sprofondata in basso per le sovrapposizioni urbanistiche della storia. Il custode gentile ci fece entrare e scendere verso la sede principale della Farnesina dell’antichità, cioè dove alloggiavano i politici stranieri. Nessuno studente l’aveva mai vista, neanche i romani. Poi tornammo verso le mura aureliane dove a piazza Fiume scoprii un giovane tedesco che abitava per terra di lato a un superbo ingresso nelle mura. Raccontò la sua vita di operaio ferito al volto nella fabbrica dove lavorava e decise di vivere all’aperto. Vicino alla sua dimora, c’era un campanello con nome e cognome. Suonai e mi rispose una signora che abitava nelle mura! Alla mia richiesta di salire rispose di no. Peccato. Chi sa come si vive stretti stretti dentro la mura aureliane lunghe lunghe. Fu un camminare didattico spontaneo e in parte trasgressivo: osservare con sguardi obliqui la città, questo il compito all’aria aperta.
La mia prima lezione a Sociologia come assistente dipese dal titolare malato che mi chiese di sostituirlo: l’argomento era già deciso da lui, si trattava dell’accumulazione originaria durante la rivoluzione industriale in Gran Bretagna. Conoscevo l’argomento in quanto lo avevo studiato, eppure sentivo le difficoltà delle parole che mi uscivano di bocca, insomma forse io stesso capivo che erano… troppo astratte. Importanti ma senza la mia partecipazione. Quando anni dopo iniziai a insegnare direttamente come professore incaricato, cioè con incarico annuale, decisi di immaginare la didattica in modi diversi, unendo o intrecciando la verticalità dell’astrazione, pur sempre decisiva, con l’orizzontalità della ricerca empirica. In realtà davo più importanza e passione alle ricerche micrologiche, ai dettagli svolti in contesti sia del tutto diversi dalle esperienze di uno studente a sia quelli più comuni nella sua vita quotidiana. L’antropologia mette insieme lo straniero e il familiare, l’empiria e la teoria, il suono e la visione.
Mi fu facile partire dalle mie ricerche etnografiche in Brasile, in particolare nella comunicazione urbana a São Paulo, in connessione con le pubblicità più note della televisione nazionale. Trasgredire poteva significare affrontare con la massima serietà il consumo in uno shopping center paulistano, i jeans in uno spot a mio avviso significativo, una breve sequenza di un film famoso (Bella di giorno o Videodrome). Etnografia si svolge nell’aldeia del Mato Grosso, un piccolo villaggio nativo, partecipando all’inquietudine del funerale Bororo e portando gli studenti di sera al Forte Prenestino, un centro sociale aperto alle innovazioni e anche a molteplici trasgressioni. Qui ci accolse Luciano, Luzy, inventore del genere musicale Toretta, in cui mescolava i jingle della pubblicità con le canzoni più banali o main stream degli anni 50-70 facendo ballare centinaia di ragazzi. Luciano fu la guida e ispiratore del Forte, con estrema gentilezza e competenza. Indimenticabile lo smarrimento degli studenti che si trovavano improvvisamente in uno spazio del tutto diverso da quelli cui erano abituati.
La scelta più trasgressiva che immaginai e portai a termine fu selezionare e portare 10 studenti, cinque ragazze e cinque ragazzi, proprio in Mato Grosso nel citato villaggio Bororo, grazie a un piccolo finanziamento e a una raccolta di fondi in una festa. Idea folle e rischiosa. per fortuna tutto andò bene e – nonostante qualche piccolo incidente – li riportai sani e salvi in facoltà. L’idea di fondo, a mio avviso molto trasgressiva, era semplice: per capire un villaggio indigeno delle culture native, la didattica migliore può essere portarli là, pur nelle complesse difficoltà. Credo che quelle esperienze staranno a lungo nella loro formazione e, attraverso il passa-parola studentesco, si poteva diffondere tale pratica tra gli altri studenti, anche se la facoltà come istituzione rimase del tutto indifferente.
La ricerca empirica che in antropologia si chiama etnografia, sul campo, è la dimensione più esaltante e difficile anche umanamente. Eppure queste pratiche si vivificano con lo studio di autori selezionati e decisivi. Per me sono stati i testi di Adorno e Benjamin, specie all’inizio, sul mutamento della cultura visuale e urbana; poi si aggiunsero altri autori, come Bachin con le sue visioni polifoniche, Clifford che metteva in tensione etnografia e surrealismo, cioè le condizioni dlle tradizioni etniche con quelle di avanguardia, il classico Lévi-Strauss (strutturalista) e il suo critico Geertz (interpretativista). Anche la letteratura mi era di spinta verso la trasgressione: Bataille e i suoi romanzi accesi, il classico Tomas Mann, Musil che inventava il futuro, mentre Bernhard dissolveva il presente e Ovidio ci regalava il passato. E Pessoa che moltiplicava le sue identità come “persona” e scrittore.
Una scrittrice african-american come bell hooks era ed è decisiva nelle trasgressioni possibili insieme a Toni Morrison e Juliet Mitchel o, da noi, Giacomo Leopardi e Patrizia Cavalli. La questione sessuale e le discriminazioni o gli stigmi culturali appiccicati dal pensiero dominante contro i cosiddetti “diversi” stava producendo la differenza nell’insegnare. La questione razziale connessa all’emigrazione per l’Italia o al colonialismo per il Brasile erano e sono conflitti culturali da affrontare con gli strumenti proprio dell’antropologia. Su questi temi ci sarebbe moltissimo da dire sulle basi delle mie esperienze. Ne racconto solo uno perchè una dottoranda di Napoli mi ha scritto in questi giorni per avere informazioni su una donna straordinaria che ha scoperto in questi giorni attraverso anche un mio scritto e su cui vuole fare la tesi di laurea.
Molti anni fa fui invitato a un convegno sulla condizione delle persone afro-discendenti, per me fu onore ed emozione insieme. Qui incontrai Beatriz Nascimento, studiosa della schiavitù in Brasile (che fu abolita solo nel 1888) e in genere della condzione della donna. Aveva fatto un bel documentario sul quilombo, uno spazio libero dove gli esseri umani fuggivano dalla loro costrizione di essere schiavi e creavano spazi di libertà. “Quilombo nasce dal fatto storico della fuga di un uomo che non si riconosce più proprietà di un altro uomo”, diceva Beatriz. Mi fece visitare i luoghi ancora esistenti a Rio de Janeiro dove arrivavano dall’Africa esseri condannati alla schiavitù. Dopo il seminario, prendemmo un autobus che lungo le avenidas correva come un Airton Senna facendoci abbracciare per protezione reciproca. Arrivammo nientemeno che alla famosa scuola di samba Mangueira, colma di colori verdi e rosa, dove il grande Tom Jobim – cantante, compositore, poeta – cantava la sua composizione nuova per l’enredo del prossimo carnevale. Ballammo a lungo bossa nova e samba, Beatriz era danzatrice vivace e libera, spontanea e trasgressiva. Giornata indimenticabile.
Qualche anno dopo, lessi sul giornale che era stata assassinata da uno sconosciuto per difendere una donna in un bar. Lei, Beatriz Nascimento, morta così per la ferocia possessiva di un uomo che neanche conosceva.
Il suo destino sarà seguito da un’altra donna straordinaria, Marielle, sociologa nata in favela sempre a Rio, bisessuale, deputata statuale e impegnata contro il narco-traffico. Assassinata insieme al suo autista, da un commando forse organizzato da uno dei figli dell’ex presidente Bolsonaro.
Per tornare a bell hooks, lei ha dovuto superare enormi pregiudizi nelle università “bianche” per affermare il suo punto di vista diverso da quello egemone, in particolare sulla condizione della donna afro-americana, ben diversa dal classico femminismo dominante e per l’appunto di donne bianche. La sua didattica del trasgredire e di stare, anzi, di collocarsi nel margine, di sentirsi e studiarsi in quanto marginali e trasgressive per inventare un modo altro di fare insegnamento. Un linguaggio diverso, parole di lotta e impegno e amore che hanno affrontato un contesto razzista profondo e difficile da superare. In breve, a partire dagli studi post-coloniali, la mia parziale conclusione è che la questione razziale nelle Americhe, in particolare in quella brasiliana che conosco direttamente, sarà molto difficile poter superare … forse tra diverse generazioni. La tratta della schiavitù gestita da paesi cattolici o protestanti rimarrà a lungo nei conflitti quotidiani e storici, e anche l’Italia ne è coinvolta ora sotto il segno dell’emigrazione.
Forse sarà necessaria una trasgressione politico-culturale ancora più inventiva ed estrema. Il compito di ricerca, didattica, seminari diventerà sempre più decisivo per immaginare l’uscita dal margine, un segno liminale dove sappiamo abbastanza bene quello che è successo di orribile ma ancora non riusciamo a vedere le potenziali liberazioni. Forse stiamo troppo immobili nella sottile linea del limen, in attesa verso un rito di passaggio che ci aspetta ma non riusciamo a raggiungere.
1In questo brano ho deciso di scrivere con il femminile sovraesteso. Ogni autrice ha avuto piena libertà di scelta sulle forme da utilizzare.
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