A noi che abbiamo condiviso con lei, per qualche anno, quella strana, meravigliosa esperienza che fonde quel che abitualmente si chiama “lavoro” con la scelta di provare a fare la tua parte per rompere il sistema che afferma il dominio del capitale sulla vita, fa una certa impressione leggere e tradurre, a vent’anni di distanza dall’incontrarsi di ogni giorno nella redazione di Carta, l’intervista in cui Matilde Muñoz racconta la sua militanza prima che la conoscessimo. Quando la chiamammo per venire a darci una mano a far crescere quello strano mensile, che sarebbe diventato settimanale, poco prima della fine del millennio, non conoscevamo molti dettagli della sua straordinaria esperienza nella Spagna del regime franchista. Quel che non avresti mai potuto mettere in dubbio, però, era la fierezza e la tenacia di una donna, una compagna femminista, avrebbe detto lei, che aveva fatto della lotta perché le donne e gli uomini possano decidere il proprio destino qualcosa di inseparabile dal senso stesso della sua esistenza. Si tratta di qualcosa che è diventato assai raro, per molti versi perfino impossibile, per una ragazza dei nostri giorni. I giorni in cui il matrimonio conta più dell’amore, il funerale più del morto, gli abiti più del corpo e la messa più di Dio, come scrisse una volta Eduardo Galeano. Eppure, è assai probabile che nel leggere quel che racconta Matilde, una vita che oggi sembra più adattarsi alla scrittura del soggetto di un film che non a un’intervista, non sarebbero poche le “militanti” del nostro tempo che sarebbero molto felici di poterla abbracciare. Ci ha telefonato qualche giorno fa, Matilde, che porta splendidamente a spasso i suoi 75 anni. Era di passaggio a Roma, mentre dilagava il massacro in Palestina. Non siamo riusciti neanche noi ad abbracciarla, ma lei era lì, a gridare per la gente di Gaza, come sempre

Hai cominciato a militare all’università, nell’ultima fase della dittatura spagnola, che non aveva affatto attenuato la repressione. Nel 1967 la polizia faceva volare da una finestra lo studente Rafael Guijarro, nel 1969 assassinava nello stesso modo lo studente Enrique Ruano. Com’era l’ambiente universitario in quel tempo e cosa ti ha portato a sfidare il regime entrando in un’organizzazione clandestina?
Il clima universitario della Facoltà di Politiche Economiche della Universidad Complutense di Madrid, nel 1967, era vitale. Si respirava un’aria di libertà, c’era voglia di sapere e c’era grande attivismo politico antifranchista. Per i nuovi arrivati, come me, significava la possibilità di conoscere, di prendere coscienza di ciò che non sapevamo, di quale fosse la nostra educazione, di cominciare ad accedere alla cultura (letteratura, poesia, cinema, pittura), di socializzare e poter condividere inquietudini. L’organizzazione studentesca più presente e attiva era la Federación Universitaria Democrática Española, la FUDE, che aveva posizioni politiche che a me sembravano le migliori.
Da quello che ho letto, la tua famiglia era molto conservatrice, tuo padre era addirittura un falangista tesserato. In quale ambiente familiare hai vissuto e come si è manifestata la tua ribellione contro quella società patriarcale?
Mio padre, falangista e nazista, morì quando avevo 4 anni. Mia madre lavorava gestendo l’attività commerciale che mio padre le aveva lasciato: un magazzino di scagliola e la sua distribuzione. Avevo un fratello maggiore che fu sempre considerato “l’uomo di casa”. Con tutti i suoi privilegi. Ho vissuto anche le sofferenze, le vessazioni e le umiliazioni che mia madre doveva sopportare lavorando in un ambiente “da uomini”. Tutto questo mi faceva arrabbiare, lo ritenevo ingiusto. La mia ribellione mi portava a mettere in discussione la nostra vita quotidiana e le differenze nelle regole che venivano applicate (lavori domestici, orari) e che rappresentavano un’enorme discriminazione. Le risposte erano sempre violente: percosse e punizioni. Quando avevo 18 anni scappai di casa.

Entrasti nella FUDE, che, pur provenendo dal Partito Comunista di Spagna (PCE), finì per aderire al FRAP (Frente Revolucionario Antifascista y Patriota), insieme al PCE (m-l) marxista-leninista. Perché decidesti di aderire a questa organizzazione, in un contesto di dura repressione, e in cosa consisteva allora la militanza?
La FUDE venne abbandonata dal Partito Comunista, e i suoi militanti lasciarono il PCE. Dal 1964-1965 fu guidata dal PCE (m-l). E nel momento in cui il PCE (m-l) lanciò l’iniziativa della creazione di un Fronte, il FRAP, il FUDE ne fece parte. Sono entrata nella FUDE perché era l’organizzazione più combattiva e radicale, perché mi piacevano di più i suoi militanti. La militanza consisteva nel discutere le politiche universitarie, le posizioni delle assemblee, la partecipazione nel Sindacato studentesco, nel realizzare volantini e distribuirli, fare scritte e murales, nell’organizzare e partecipare alle manifestazioni e nel difendersi dalla polizia. Era un’organizzazione clandestina, anche se tra gli attivisti di facoltà ci conoscevamo, non sapevamo chi fossero i nostri compagni delle altre facoltà, né sapevamo come era strutturata l’organizzazione. Ero una militante di base.
Il primo punto programmatico del FRAP dichiarava la sua intenzione di “rovesciare la dittatura fascista ed espellere l’imperialismo Usa dalla Spagna attraverso la lotta rivoluzionaria”. Eravate determinati a utilizzare tutti i mezzi possibili per raggiungere questi obiettivi?
Sì. Eravamo convinti che per rovesciare la dittatura fascista fosse necessaria la lotta rivoluzionaria, la lotta armata. E questo era chiaro nei 6 punti programmatici del FRAP e nel suo emblema: la bandiera repubblicana con il fucile. La storia ci ha dato ragione. La dittatura non fu mai rovesciata, non vi fu alcuna rottura ma solo una transizione che diede origine al regime del ’78.

La prima denuncia contro di te venne da tuo fratello, ti mandarono in convento di clausura per sei mesi. Sembra la trama di un film, ma allora si trattava d’un film del terrore, giusto?
Quando sono scappata di casa, l’ho fatto correndo perché mi aspettavano sulla porta con una mazza. Mio fratello mi aveva denunciato alla polizia politica, perché sembra che il commissariato non desse molta importanza alla cosa. Sono venuti e hanno perquisito la mia stanza, hanno preso i libri e un’agenda telefonica. Poi hanno iniziato a chiamare i miei amici. Molti di loro erano militanti. Così, insieme ai miei compagni, abbiamo deciso che dovevo tornare, perché quello stava diventando un problema troppo grande… Ero minorenne e non potevo fare niente. Sono andata al commissariato del mio quartiere e ho spiegato che ero andata via di casa perché ero stanca di essere picchiata e che i libri “proibiti” mi erano stati dati all’università, ma non li avevo nemmeno letti perché erano noiosi … La polizia mi ha accompagnato a casa e, quando siamo arrivati, la prima cosa che ha fatto mio fratello è stata alzare le mani contro di me, allora la polizia ha detto che non potevano picchiarmi e che se lo avessero fatto dovevo andare a dirlo al commissariato… Mi hanno difesa!. Il “consiglio di famiglia” decise di mandarmi in un convento a Calatayud.
Non è un film del terrore, è quello che è successo. Le cose allora andavano così. La verità è che lo vivemmo tranquillamente e senza vittimismo.
Tornata all’università ti sei impegnata ancora di più nella militanza, in un’epoca in cui le mobilitazioni erano continue. Agivate nella clandestinità o eravate più o meno conosciuti dal resto degli studenti?
Al rientro all’università ho continuato a militare, ma ho iniziato anche a lavorare, perché la mia famiglia aveva deciso di non darmi soldi. Quindi la mia attività all’università è diminuita. In Facoltà si sapeva chi era del FUDE, anche se è vero che avevamo molti simpatizzanti e chi ci vedeva da fuori non sapeva distinguere. L’organizzazione era clandestina ma noi eravamo attivisti che si vedevano ovunque… Nel 1968 mi sono sposata e un anno dopo sono andata con mio marito a Torino, con una borsa di studio che avevamo ottenuto tramite Tierno Galván. In quel periodo viaggiavo spesso tra Madrid e Torino, e approfittavo dei viaggi per portare piccoli pacchi da Ginevra a Madrid e viceversa. In uno dei viaggi un compagno di Ginevra mi chiese se fossi del PCE(m-l) e io gli dissi di no. Anche se partecipavo alle riunioni con i compagni della FUDE per discutere la linea e gli statuti del PCE(m-l), non mi hanno mai ritenuto adatta perché ero femminista e foquista (difendevo la guerriglia guevarista), cioè piccolo borghese.
Il tuo impegno femminista ti ha portato anche ad aderire all’Unione delle Donne Popolari, organizzazione promossa dal PCE (m-l) e con la quale facevi cose che nessuno poteva immaginare, in un contesto di dittatura, come fermare gli sfratti. Il contatto con le donne dei quartieri e delle fabbriche è stato una buona base per mettere in pratica ciò che avevi teorizzato?
A Torino sono stata in un collettivo femminista (1969-70). Quando sono tornata dall’Italia ero già una militante del PCE(m-l) e mi hanno chiesto di far parte dell’attivo della UPM di Madrid. L’attivo era una cellula del Partito che dirigeva l’organizzazione. Eravamo in quattro, una di loro era Juana Dona. L’UPM era un’organizzazione di donne autonoma. E clandestina, ovviamente. Il nostro giornale si chiamava Liberación. Lo facevamo, come i volantini, gli adesivi, i manifesti, con “vietnamiti”. Avevamo gruppi organizzati in molti quartieri e nelle fabbriche. Ero attiva nel quartiere di Palomeras, lì c’era un folto gruppo di donne che lavoravano a pulire e strofinare anche fuori casa e che vivevano in casette autocostruite (alcuni le chiamavano chabolas, baracche). La speculazione edilizia voleva espellere le persone dalle loro case, quindi una delle lotte era proprio per evitare gli sfratti. Compito delle donne. L’obiettivo dell’UPM era la liberazione della donna, il che implicava non solo lottare per le loro rivendicazioni ma anche per raggiungere ciò che oggi chiamiamo empowerment, prendere coscienza che ogni situazione non è qualcosa di personale ma sociale, collettiva, politica. L’esperienza di militanza nell’UPM è stata arricchente, molto bella e molto positiva. Però la direzione del PCE (m-l) decise di scioglierla nella primavera del 1973. Lo fecero perché era un’organizzazione femminista, bisognava dare priorità all’organizzazione della classe operaia. Non dimenticherò mai quella riunione nefasta.
Nella direzione del FRAP c’era un ex ministro della Repubblica, Julio Álvarez del Vayo, e nel PCE (m-l) c’erano Raúl Marco ed Elena Ódena. Qual è la tua opinione su queste tre figure decisive per le organizzazioni in cui stavi?
Il presidente della FRAP era don Julio Álvarez del Vayo. Non l’ho mai conosciuto personalmente. A giudicare dalla sua vita e dai suoi scritti, e attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto, credo che fosse un’ottima persona. E ho conosciuto e frequentato Raúl ed Elena. Non ne parlerò mai male. Con Elena ho avuto un rapporto più conflittuale, anche se ho sempre sostenuto che nella segreteria del partito (che era un collettivo) ci dovesse essere una donna. Ho conosciuto di più Raúl e con lui ho avuto dei bei confronti accesi, ma ho sempre avuto molto affetto per lui.
La manifestazione del 1° maggio 1973 fu determinante per la vostra organizzazione, si decise di rivendicare la scelta di difendersi dalla repressione. Quali furono gli effetti immediati di questa decisione? Fu quello il germe della sfida del FRAP nella lotta armata per rovesciare il regime?
La decisione di difendersi dalla polizia durante la manifestazione del 1 maggio 1973 a Madrid fu presa all’unanimità e i militanti e i simpatizzanti della FRAP vi andarono consapevoli di ciò che comportava. Negli scontri con la polizia molti rimasero feriti e morì un poliziotto della brigata politico-sociale. Così fu scatenata la repressione. A centinaia furono detenuti. Tra loro molti dirigenti delle organizzazioni. Non credo però che sia stato “il germe” della sfida della lotta armata per rovesciare il regime. La sfida era già nel nostro programma.
Esercito popolare, lotta armata, terrorismo, gruppi combattenti, la terminologia è ampia, ma il più delle volte essa è al servizio del racconto. Penso sua sterile il dibattito sul fatto che un’organizzazione sia terroristica oppure un gruppo di liberazione, dipende sempre da quale momento storico lo si guarda, ma qual era il modo di agire del FRAP e cosa lo differenziava dagli altri gruppi che allora affrontavano la dittatura con azioni armate?
Si crearono gruppi di combattimento composti da militanti volontari (uomini e donne), che mettevano in atto le azioni ritenute fattibili. La nostra idea era che le azioni potessero essere il motore di una lotta rivoluzionaria di massa, non di una minoranza. Era un periodo in cui le lotte sono cresciute e si sono radicalizzate.
Nel settembre del 1973 ti arrestarono e ti portarono alla Direzione Generale della Sicurezza, dove conoscesti l’agente della BPS Antonio González Pacheco, Billy el Niño. Come è avvenuto il tuo arresto e come hai vissuto il tempo in cui eri richiusa in quel terribile centro di tortura alla Puerta del Sol?
Mi hanno arrestato per strada mentre partecipavo a una riunione del Comitato di cui facevo parte. La zona è stata occupata dalla polizia e mi hanno catturato con un altro compagno. Mi hanno messo su un taxi. Ho provato a scappare, ma mi hanno afferrato per la gonna e me l’hanno strappata. Siamo arrivati alla DGS, nella Puerta del Sol di Madrid. Gli altri membri del Comitato erano già lì. Billy el Niño mi accolse a schiaffoni. Non chiedeva nulla, si limitava a picchiare. Ho trascorso i tre giorni come hanno fatto tutti gli altri. Resistendo e aspettando che finisse. Ero quasi sempre negli uffici al piano di sopra, e cercavo di resistere. Mi hanno applicato la corrente elettrica alle caviglie, mi hanno tenuto ferma in piedi per molte ore, colpendomi le ginocchia ogni volta che pensavano che le piegassi… Mi hanno offerto di collaborare con loro in cambio del fatto che mi avrebbero lasciato in pace, mi hanno mostrato dei grossi album fotografici perché riconoscessi le persone… Tutto il tempo mi insultavano e mi sottopevano a maltrattamenti. La cosa peggiore è proprio che perdi il senso del tempo e dello spazio. Ti facevano sentire che eri nelle loro mani, che si sarebbero vendicati e che avrebbero potuto fare di te quello che volevano. Si sentivano impunibili.
E dopo tre giorni all’inferno, dopo esser passata per il Tribunale dell’Ordine Pubblico, ti hanno mandato a Carabanchel (il noto carcere di Madrid, ndt). Molti dei compagni che ho intervistato mi hanno confessato che quando sono entrati in carcere è stato un vero sollievo. Anche tu sei di questo parere? Cosa hai trovato a Carabanchel?
Sono arrivata al carcere di Carabanchel il 4 settembre 1973. Noi donne eravamo in un piccolo modulo che chiamavano “il psichiatrico”. Due piani, grandi celle comuni e celle individuali, un piccolissimo patio, una sala da pranzo con televisore in bianco e nero. Dal secondo piano si vedevano la strada, un solaio e le case di Eugenia de Montijo. Sì, arrivare lì è stato un vero sollievo. Non c’erano celle di isolamento, questo significava incontrare subito le compagne, ricevere abbracci, vestiti puliti, poter fare la doccia… Le prigioniere politiche erano insieme alle comuni, tutte mescolate anche nelle celle. Tutte noi detenute politiche eravamo del FRAP. Avevamo tutto in comune: soldi, cibo, saponi… Nella nostra comune però c’erano anche prigioniere non politiche, incarcerate per droga, rapine a mano armata, furti, prostituzione. Le mamme erano in un altro edificio e noi passavamo attraverso il loro patio per andare a comunicare. C’era un’infermiera condannata per aver praticato aborti. In carcere trascorrevamo tutta la giornata in modo molto attivo: facevamo ginnastica, seminari, chiacchierate con le non politiche, riunioni… E cantavamo, due compagne suonavano la chitarra… La cosa peggiore era il freddo.
Quando sei uscita di prigione, una borsa di studio a Torino ti ha permesso di fare da corriere per l’organizzazione, e poi sei arrivata a fare perfino consegne a Ginevra, dove aveva sede il comitato esecutivo del PCE (m-l). Come hai vissuto quella tappa all’estero in cui assumevi maggiori impegni con l’organizzazione?
Venni rilasciata dal carcere, in libertà provvisoria, dopo sei mesi. Per la militanza era previsto un periodo di quarantena prima di riprendere nuovamente i contatti. Trovai un lavoro, intanto, e affittai una stanza. Quando arrivò il momento di riprendere l’attività politica, il Partito mi chiese di andare in Italia. Mi diedero un passaporto falso e con i treni arrivai a Milano. Lì avevo appuntamento con il compagno che mi aspettava. Dovevo occuparmi di coordinare tutta l’attività di organizzazione del Partito, del FRAP, della solidarietà, dei rapporti con gli altri partiti e organizzazioni, con la stampa, con le personalità…
Il 27 settembre 1975, il regime assassinò tre compagni del FRAP, José Humberto Baena, José Luis Sánchez Bravo e Ramón García Sanz, e due militanti dell’ETA, in quella che sarebbe stata l’ultima esecuzione del franchismo. Come vivesti quei drammatici giorni di settembre e che effetti hanno avuto sulla tua organizzazione?
Quando vennero fatte le richieste di pena di morte per molti degli imputati politici, in Italia facemmo un’importante campagna di solidarietà con i prigionieri. Fu fatto un grande sforzo da parte di tutti i militanti e i simpatizzanti per fermare la repressione del regime. La campagna era rivolta a tutti gli italiani, a tutti i partiti politici, a tutte le organizzazioni, alla stampa… Ricevemmo grande sostegno e solidarietà. Nel Comitato di Solidarietà con i Prigionieri Politici che formammo c’erano esponenti del Partito Comunista, del Partito Socialista, delle Brigate Internazionali create durante la guerra, dei Partigiani, e personalità come Lelio Basso, Sandro Pertini, Pietro Nenni, Rafael Alberti e María Teresa Leon. Riuscimmo così a rompere con la linea del PCE che cercava di isolarci. Per un mese, coordinando le diverse organizzazioni, riuscimmo a fare una manifestazione ogni giorno davanti all’Ambasciata in Piazza di Spagna a Roma. Pasolini interruppe le riprese del suo ultimo film per venire a firmare al tavolo che raccoglieva la solidarietà agli imputati e la richiesta di non applicare la pena di morte. Il 27 settembre 1975 Franco ordinò la fucilazione di tre compagni della FRAP e dei due dell’ETA. Appresi la notizia mentre tornavo in treno da Bologna a Roma. Fu terribile. Quello stesso pomeriggio, organizzazioni di sinistra avevano indetto a Roma una manifestazione nazionale di solidarietà con il Portogallo. Mi chiamò Renzo Rossellini per invitarmi a parlare dal palco di Piazza del Popolo. La piazza era stracolma di gente e l’indignazione e la rabbia contro la dittatura franchista erano incontenibili. Afonso dedicò ai nostri compagni la sua famosissima canzone, Grandola Vila Morena. Quando si concluse il mio emozionato intervento, gran parte dei manifestanti presero a marciare verso l’Ambasciata. La polizia cercò di reprimerli e nel centro della città ci furono ore di guerriglia urbana.
Le fucilazioni ebbero un impatto tremendo sull’intera organizzazione. Il mese successivo Franco morì, morì uccidendo, così come aveva iniziato la sua dittatura. E tutta la situazione cambiò molto rapidamente.

Il FRAP, a un certo punto, è diventato un’organizzazione molto radicata in diverse zone dello Stato, non solo a Madrid. A Vigo, da dove scrivo, mi risulta che i suoi militanti erano molto attivi, infatti in quella città sono nati Sánchez Bravo e Humberto Baena, ai quali ogni anno si continua a rendere omaggio. È possibile quantificare la militanza FRAP?
No, non posso proprio quantificare il numero dei militanti del FRAP. Non lo so. Quello che posso dire è che, se non eravamo i più numerosi, eravamo certo i più attivi.
Esiste uno studio, “FRAP, Memoria orale della Resistenza Antifranchista”, di Mariano Muniesa, pubblicato nel 2015, che raccoglie numerose testimonianze dei suoi militanti. Ti pare un buon approccio per coloro che vogliono saperne di più su questa organizzazione? E quali altre letture potresti consigliare?
Non sono molti i lavori sulla nostra storia. Posso consigliare vivamente il libro di Riccardo Gualino, “Una stagione in Spagna“. Era un militante del PCE(m-l) e per 40 anni è stato il mio compagno, mio marito, il padre dei miei figli, una persona di grande valore.

La repressione s’è accanita contro il PCE(m-l) e il FRAP, durante il regime franchista e nel post-franchismo, così come contro altre organizzazioni situate a sinistra del PCE. Pensi che esistesse un piano ideato dagli archiettti della Transizione affinché la sinistra più combattiva scomparisse?
La transizione è stata molto difficile per noi e per me anche personalmente. Quando tornai in Spagna, nel 1976, con Riccardo, potei recuperare i miei documenti. Mi fu concessa l’amnistia. Però Riccardo, che era già mio compagno nella vita, in quanto italiano, aveva ancora un provvedimento di espulsione in vigore dal 1969, dopo aver trascorso quasi quattro anni in carcere. Rimanemmo a Madrid e continuavamo a militare, ma lui è stato arrestato tre volte, in una delle quali è scomparso per 10 giorni. E ogni volta lo hanno espulso. Abbiamo continuato a vivere clandestinamente. Così, quando abbiamo deciso di avere un figlio, siamo dovuti andare in Italia a partorire, perché io ero sposata e non volevamo che il bambino risultasse automaticamente figlio del mio primo marito. Riccardo lo ha riconosciuto, io risultavo come “mamma che non vuole essere nominata”. Abbiamo provato a legalizzare la sua situazione, ma era impossibile. Gli apparati statali erano rimasti gli stessi. Nel 1981 Riccardo si ammalò gravemente e decidemmo di ritornare in Italia. Solo più tardi, con l’approvazione della legge, ho potuto divorziare, sposarlo e riconoscere mio figlio, che aveva già quattro anni. Nel 1982, dopo che il Partito Socialista vinse le elezioni, riuscimmo finalmente a far revocare il provvedimento di espulsione di Riccardo.
Hai continuato a far parte del PCE (m-l) fino al 1981, quando sei andata a vivere in Italia. Dopo una militanza così intensa, in un’epoca in cui quella militanza veniva pagata con la tortura e il carcere, e spesso addirittura con la vita, come è stata la tua vita dopo? Hai continuato a impegnarti?
Sono molto orgoglioso della mia vita e della mia militanza. Ho imparato molto e quell’esperienza mi è stata molto utile nella vita e nel lavoro. Posso dire che ho sempre fatto ciò che ritenevo giusto, che mi sono battuta per cambiare radicalmente questo sistema. E sebbene creda che siamo stati sconfitti, non siamo stati vinti. Ho continuato con la mia militanza e con l’attivismo nei movimenti sociali e nel femminismo. Sono ancora lì.
fonte e versione originale in spagnolo: Nueva Revolución
traduzione per Comune-info: marco calabria
Brava, brava carissima amica. Nos conocemos desde el colegio, hemos sido vecinas en el barrio, compañeras en la facultad. Me casé con un italiano Carlo Caranci, gran amigo de Riccardo Gualino. Nuestros hijos se conocen y aprecian. Pertenezco a familia republicana por parte de padre y madre, represaliada y vencida. Me enseño a odiar el franquismo y me permitió gozar de una libertad de pensamiento crítico. Quiero a Matilde (Dita), como a una hermana, la admiro y agradezco enormemente la sua lotta. Salud amiga mía
Sono contenta e molto orgogliosa di essere amica di Matilde, mi ha insegnato molto . Quando abbiamo lavorato nell’ associazione di cooperazione internazionale Terra Nuova era il mio capo : intransigente, precisa, innovativa e originale, mi ha insegnato l’ uso della logica ed un modo diverso di approccio alla vita e al mondo .
Grazie Mat.
Grazie mille per aver tradotto questa intervista, è una gioia vedere il mio lavoro tradotto nella tua bellissima lingua. A vostra disposizione, colleghi
Grazie a te, è stato piacere lastricato di belle e grandi emozioni. Un abrazo marco