Come possiamo difenderci dal panico, dalla paralisi, dalla postura distopica e dalla beatitudine-horror cara a tanti ambientalisti? Si tratta di cercare coloro che hanno cominciato a costruire un futuro a partire dalle rovine, senza restare schiacciati dall’apocalisse. Timothy Morton e Dominic Boyer parlano ad esempio di “iposoggettività” e la riconoscono tra i saperi dei movimenti delle donne, le ecologie meticce, le epistemologie indigene decoloniali. Gli iposoggetti ci sono anche dove non arrivano i radar della tecno-modernità perché sanno riprodurre vita, cercano di autoprodursi cibo e vestiario, cercano di non dipendere da social e reti elettriche, imparano a riciclare scarti e residui… E quasi sempre non hanno bisogno di manifesti. Insomma, il tempo che viviamo non è solo orribile, è anche strano e vitale. E la vita ha forme che meritano esplorazioni


Dato per scontato che abbiamo capito che gli Iperoggetti (*) non sono grandi-oggetti e che l’Antropocene non è un lasso di tempo – e per inciso è esso stesso una entità iperoggettuale – ma che entrambi sono dispositivi di palpazione delle scaglie del triceratopo che si è materializzato in salotto, potremmo fare un passo in più e provare a osservare chi sono gli altri abitanti del salotto (oltre al triceratopo). E magari vedere se, di fronte a Cthulhu, hanno una qualche possibilità di farcela bene, gestendo il panico, evitando la paralisi o la postura distopico/escapista, la “beatitudine-horror” perversamente tipica anche del discorso ambientalista. È quello che fanno in modo, per certi versi, picaresco, Timothy Morton (l* stess* autor* di Iperoggetti, appunto) e Dominic Boyer nel recente Iposoggetti. Sul diventare umani, uscito con LUISS University Press.
Si incontrano al pub, si scambiano email e telefonate e ne esce un testo-flusso a due voci, a volte indistinguibili, che scorre come su un nastro di Moebius facendo zoom-in/zoom-out sulla condizione umana nativa dell’Antropocene, attingendo a cultura pop, gamemaking e larp, filmografie, musica, arti performative.
Vengono ripresi i temi cari a Morton (esponente delle correnti postumane e OOO, acronimo di “ontologia orientata agli oggetti”) con una rimodulata domanda di ricerca. Ovvero, parafrasando Gandhi in esergo: “Cosa pensiamo degli esseri umani? Che sarebbero un’ottima idea”. Dunque, di che umani ci interessa parlare? Non certo degli ipersoggetti, col loro portato narcisistico patriarcale antropocentrico, i loro suprematismi e populismi allucinati, fautori (ma anche autoproclamati demiurghi salvatori) di tutto ‘sto casino, produttori e prodotti “dell’apparato predatorio che ci sta divorando”. Il loro tempo è finito, dissolto. Meglio concentrarsi sugli abitatori delle soglie liminali e degli anfratti accidentati, quelli che forse transiteranno quest’epoca. Anzi, gli unici che, secondo gli autori, nel mondo degli Iperoggetti – che l’Antropocene ha reso manifesti – sono chiamati a occuparlo. O meglio a squattarlo, come imperativo politico.
Del resto, come dicono citando Jon Gnarr, “Ricordate perché i mammiferi, a differenza dei dinosauri, sono sopravvissuti all’asteroide? Erano davvero piccoli. E stavano bassi”. E non per questo si possono dire passibili di abiezione, giacché “il primo dovere del prigioniero è quello di fuggire”. Ma anche perché l’hanno già transitata l’abiezione, tappa necessaria assieme all’orrore, nel momento in cui, come noi ora, abitanti di questo pianeta (e non di un altro), sentiamo deflagrare la dislocazione (dys-location, ossia una locazione disfunzionale) sia spaziale che temporale, materiale e immateriale.

L’intuizione ontologica centrale è che “l’intero sia meno della somma delle sue parti”, che il “neoliberismo sia ontologicamente più piccolo di un singolo orso polare”, perché è astratto, trascendente, e necessita di una gran quantità di lavoro e di corpi viventi per mantenersi trascendente. Questa disarticolazione dimensionale, che vale per tutti gli iperoggetti, sposta l’asse prospettico e l’agentività degli iposoggetti (umani e nonumani). Ma è meno anche perché è pieno di vuoti. Ecco, è proprio in quei vuoti che si va a squattare.
Ebbene, questi umani sono chiamati Iposoggetti: exoumani alla ricerca di una casa, che si preparano a un “lungo e periglioso viaggio di ritorno sulla Terra”, a costruirsi un futuro a partire dalle rovine. E quell’ipo non è indice di una gerarchia ma di una scelta topografica e di relazione che contempla subscedenza, in alternativa alla trascendenza e all’astrazione dell’olismo. Necessita del lavoro giocoso di bricolage dedicato a “smantellare l’apocalisse”, ossia a districare il desiderio dal modo in cui è stato addomesticato dal neoliberismo. Implica riallocazione nelle crepe, tra le scaglie del triceratopo, “invaginazione” pervasiva, implosione nel fango geotermico. L’iposoggettività guarda alla difrattività dell’adolescenza, ai femminismi, alle ecologie meticce, alle epistemologie indigene decoloniali. Ma sopra ogni cosa, se questo iposoggetto è capace di gioco e deliquescenza, è probabilmente capace di alleanze interspecie (riecheggiando, come in Ecologia oscura dell* stess* Morton, i lavori di Donna Haraway e di Anna Tsing) perché ha capito che bestiame e capitale sono la stessa cosa, perché riconosce l’enorme lavoro nonumano che regge la Modernità, perché sa che il suo corpo di olobionte non è “suo” ed è consapevole che gli stessi processi interconnessi governano i genocidi dei macelli industriali e lo sfollamento di umani dalle proprie case spazzate via dalle inondazioni. Ed è disposto a sentirsi sufficientemente spaventato, a esporsi al fatto che la morte è reale.
Si sta forse qui inventando una nuova categoria soggettuale? Assolutamente no, il testo è dichiaratamente un’affabulazione speculativa. Gli iposoggetti ci sono sempre dove non arrivano i radar della tecno-modernità, li incontriamo in zone ecotonali dove stanno ludicamente riproducendo vita; gli iposoggetti umani fanno anche cose come autoprodursi cibo e vestiario, scollegarsi da social e rete elettrica, disassemblare e riciclare scarti e residui perché è molto più giocoso. Non hanno bisogno di tassonomie né di manifesti.
No, lo sforzo di Morton e Boyer è quello di capirne o delinearne l’ontologia (e quindi l’ecologia) per contribuire alla mappatura di un reale antropocenico così esploso e viscoso. E se gli Iperoggetti ci servono per scrutare le viscere dello Zeitgeist, forse gli Iposoggetti ci aiutano a tastarne la porosità. Perché quello in cui siamo immersi non è solo orribile, è anche strano e vitale. E la vita ha forme che meritano esplorazioni.
(*) Tipo riscaldamento globale, finanza, logistica, estinzioni di massa, fonti fossili, biosfera, ecc. Iperoggetti, Not NERO Edizioni,
daje con una nuova etichetta, pure brutta, iposoggetti!
Davvero che brutto termine 🙁 mi chiedo come bisognerà chiamarle queste forme invisibili di resistenza?ben venga il rimanere bassi, sperando che il cataclisma neoliberista non travolga i piccoli *