
Leggo che il sindaco di Roma si lamenta perché un gruppo di sette persone hanno colorato di nero, sotto gli occhi della solita folla di scoreggioni ubriachi che lui chiama turisti le acque in cui Anita si bagnò (qui la notizia del blitz). Poiché pare che non vi sia più modo per uscire dall’inferno in cui procreatori irresponsabili li hanno generati, condannandoli a respirare aria avvelenata a bere acqua inquinata e prossimamente finita, mentre il fuoco brucia i boschi e la terra si squarcia sotto il peso delle bombe che il sindaco di Roma fornisce ai poveri ucraini, quelli dell’ultima generazione manifestano in maniera totalmente innocua. Un sentimento che gli ipocriti non sono in grado di capire: la disperazione.
Il sindaco ha condannato l’azione con le solite parole che sfidano il ridicolo ma in me suscitano soprattutto voltastomaco. Poiché per ragioni professionali sono un po’ più esperto dell’ignorante che siede al Campidoglio posso garantirgli una cosa: se Bernini e Van Gogh, e Vermeer e Cattelan, tanto per citare alcuni cosiddetti artisti (parola che ormai si usa soltanto nelle agenzie turistiche di quarta categoria) fossero intervistati a proposito delle azioni che non lasciano sulle loro opere nessun segno durevole risponderebbero (come ha fatto l’unico dei succitati che sia ancora in vita) con una bella risata.
Ma al sindaco di Roma vorrei fare osservare che qui non stiamo parlando di arte e di bellezza, argomenti sui quali credo non sia competente più del suo sodale che siede alla presidenza del Senato. Qui stiamo parlando di vita o di morte, stiamo parlando di speranza e di orrore, di futuro o di estinzione. C’è poco da condannare, signor Sindaco.
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