C’è la linea delle persone che rendono omaggio a chi resiste tra le colonne di fumo e il canto delle mitragliatrici e delle granate. La tracciano persone esposte agli sguardi della gente che fugge e di quella arrivata, anche da molto lontano, per vedere, capire, raccontare quel che accade nel martoriato e ormai leggendario lembo della pianura mesopotamica che divide la Turchia dalla Siria. Le condizioni dei profughi nelle tende sono durissime, si vive sovraffollati e nel fango. Mancano le cure sanitarie, fa freddo. Eppure ci sono la dignità dell’autogestione e la consapevolezza di stare a fianco di una lotta per la libertà. Sono tante le linee che racconta il reportage che ci ha inviato Serena Tarabini. Ci sono quelle formate dalle macchine che i fuggitivi siriani sono stati costretti ad abbandonare lungo il confine, quelle delle ambulanze con i morti e i feriti, quelle delle persone in attesa di un pacco o di una visita medica. E poi c’è la linea di frontiera, irta di filo spinato, di carri armati e brulicante di uomini in divisa. Come tutte le frontiere del mondo: innocenti righe tracciate su un pezzo di carta che diventano selettive e crudeli barriere sulla quale si infrangono le speranze e la vita di chi fugge dall’orrore
Testi e foto di Serena Tarabini
La “linea” si compone tutte le mattine a Mesher, villaggio collocato fra la cittadina di Suruç, ultima enclave urbana turca prima della frontiera, e la Siria. Un’aggregato di poche case che lambisce il confine, dalla quale ciò che succede a Kobane si vede e si sente. Uno in mezzo a tanti altri, ma che si distingue. Le sue poche centinaia di abitanti a cui si sono aggiunte una quarantina di famiglie fuggite d Kobane, assieme a ex combattenti, volontari, simpatizzanti, visitatori internazionali che vi transitano, ogni mattina formano una lunga linea rivolta verso una Kobane dalla quale si alzano colonne di fumo e provengono i suoni delle mitragliatrici e delle granate, e mentre il ronzio degli aerei della coalizione si avvicina o si allontana.
Nella “ linea”, decine, a volte centinaia di persone rivolgono il loro omaggio ai combattenti di Kobane, scandendo slogan e innalzando canti di lotta. Un gesto simbolico pieno di orgoglio, di storia, di forza, e di coraggio. Un rituale non privo di pericoli quando si svolge a pochi metri dal confine ed è sotto il tiro dell’esercito turco: un’attivista curda di 28 anni, Kader Ortakaya , a novembre vi ha perso la vita colpita alla testa da una pallottola sparata da un soldato.
Questa catena umana che corre parallela lungo il confine, fa anche da linea di congiunzione fra due fronti di resistenza, quello militare che si svolge dentro Kobane, dove le YPG e le YPJ, le truppe di liberazione maschili e femminili curde combattono l’ISIS a costo della loro vita, e quello umanitario dall’altra parte della frontiera, dove si sono rifugiate le decine di migliaia di profughi provenienti da Kobane. “La linea” è uno dei tanti gesti che fanno di Mesher un luogo speciale, un osservatorio permanente sugli sviluppi del conflitto ed un presidio di solidarietà dai caratteri della “comune”. Ma non c’è solo Meshser, tutta questa zona ha qualcosa di eccezionale.
Nel giro di pochi mesi quella che è una delle aree più povere della Turchia è stata investita di un’emergenza enorme, 132 mila profughi da Kobane e da tutta la Siria nella provincia di Urfa, di cui 65 mila solo nella zona di Suruc. Le difficoltà e le contraddizioni del governo turco sono state compensate dallo sforzo titanico messo in campo dalle Municipalità amministrate nella stragrande maggioranza dal partito filo curdo: ospitalità nelle case, recupero di edifici abbandonati, allestimento di tendopoli, raccolta e smistamento di aiuti, coordinamento dei tantissimi volontari arrivati in zona dalle regioni contigue come da tutta la Turchia e dall’Europa. Una catena di solidarietà straordinaria che lo spirito della carta del Rojava contribusce a mantenere ben salda e ramificata dalla convinzione di stare portando avanti una lotta che riguarda tutti. “Questa guerra non è la nostra guerra” ci dice Fatma, nome di fantasia per uno dei 20 membri eletti al governo del cantone di Kobane e responsabile dell’ordine e della sicurezza a Suruç. “ Chiunque si definisca un democratico dovrebbe sostenere questa nostra resistenza, perché stiamo combattendo contro l’ISIS, che è fatto da fascisti e terroristi”.
Nelle conversazioni svolte in questa parte di Turchia dove il turco è quasi una lingua straniera, che siano state con volontari o coordinatori, con semplici cittadini o amministratori, fuggiaschi o combattenti, con donne o uomini, ricorrono temi come la parità di genere, la convivenza di culture diverse, l’autonomia democratica, l’ecologia sociale, la cooperazione economica; sono i capisaldi della sperimentazione di un nuovo modo di fare istituzione e società , cominciata in Rojava, il Kurdistan siriano, circa due anni fa, complice, ahimé , lo scoppio del conflitto civile siriano, il movimento curdo in Siria guidato dal PYD, il Partito di Unione democratica, prese il controllo della maggioranza della regione curda in Siria, dichiarò l’autonomia e propose una costituzione chiamata Carta del Contratto Sociale.
Un documento meravigliosamente laico, inclusivo, egualitario, anticapitalista. Alcuni dei principi stessi contenuti sono già realtà concreta, come l’eguale divisione della cariche amministrative fra uomini e donne, la costituzione delle YPJ, forze di difesa speciali di sole donne, la coesistenza sullo stesso territorio di etnie e religioni diverse.
Altri sono ancora solo nominati e si tratta di un processo non privo di contraddizioni: ma che un modello cosi radicalmente democratico si faccia strada in questi luoghi, storicamente condizionati dall’autoritarismo religioso e politico, è qualcosa di straordinario e che merita attenzione.
Anche per questo il tremendo problema dell’accoglienza qui assume un carattere diverso; le condizioni nelle tende sono durissime, si vive sovraffollati e nel fango, mancano le cure sanitarie, fa freddo. Ma allo stesso tempo c’è la dignità dell’autogestione e la consapevolezza di stare a fianco di una lotta per la libertà.
Lo stesso non si può dire per un’altra componente di questa emergenza, quella dei profughi Iazidi. Dopo essere stata massacrata dalle milizie dell’Isis, quest’estate, e poi messa in salvo proprio dalle truppe di liberazione curde siriane, questa pacifica minoranza curda la libertà l’ha già persa. Nessuno di loro vuole mai più tornare nel Sinjar, dove hanno visto trucidare, rapire, bruciare. Ora, in 300 mila, vivono intrappolati in campi profughi in Libano, Siria ( proprio nel Rojava) e, appunto, in Turchia. Senza possedere più nulla, nemmeno la speranza del ritorno. Senza sapere se e quando se ne potranno andare.
E non è finita, dove sono e come stanno tutti i siriani arabi che hanno dovuto abbandonare il paese? Poche le tendopoli e l’accoglienza organizzata per loro, i più poveri affollano le strade di città come Istanbul, dove sono arrivati in 300 mila. In tutta la Turchia i profughi sono diventati oramai due milioni, e volente o nolente, in mala fede oppure no, una paese dove il 16 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, non può affrontare tutto questo da solo.
Milioni di persone con alle spalle il Medio oriente in fiamme e di fronte l’Europa, sempre più chiusa, egoista, impaurita.
Sono tante le linee che ho visto in questo viaggio: quelle formate dalle tende dei campi profughi, dalle macchine che i fuggitivi siriani sono stati costretti dall’esercito turco ad abbandonare lungo i confine, dalle ambulanze che trasportavano morti e feriti, dalle persone in attesa di un pacco o di una visita medica, dal fumo delle esplosioni, sono tante linee le strade che tagliano l’infinita pianura mesopotamica. E poi la linea di frontiera, irta di filo spinato, brulicante di carri armati e uomini in divisa. Che continua con tutte le linee di frontiera dell’Europa e del mondo: innocenti righe tracciate su un pezzo di carta, nella realtà selettive e crudeli barriere sulla quale si infrangono le speranza, e la vita, di chi fugge dall’orrore.
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