I fatti di Caivano invece di avviare una stagione nella quale interrogarci in profondità su come creare spazi ed esperienze dense di significato per (e con) ragazzi e ragazze e come riconoscere la violenza contro le donne in quanto fenomeno culturale sono stati l’occasione per promuovere una campagna di repressione con pochi precedenti. La nuova inchiesta di Territori Educativi, Vite a margine, prova ad aprire crepe in questo universo soffocante di passioni tristi nel quale si vuole rinchiudere gli adolescenti. Si tratta allora di ripensare i territori, di imparare a riconoscere la violenza nella e della scuola ma anche di far emergere e creare arte e bellezza nelle periferie. Per questo l’inchiesta oltre a raccogliere ottimi interventi – di Susanna Marietti, Emilia De Rienzo, Daniele Novara, Giuseppe Bagni, Giuseppe Buondonno, Carlo Cellamare, Loris Antonelli, Paolo Mottana, Franco Lorenzoni, Antonella Agnoli, Lea Melandri, Raúl Zibechi, Mirella La Magna e Cesare Moreno – racconta come a Catania e Brindisi, due esperienze di scuole aperte partecipate hanno cominciato a coinvolgere ragazzi e ragazze per vivere il territorio in modo diverso, mentre a Torino accade in diverse scuole superiori con le proposte di Acmos

“Invece che di educazione, ciò di cui abbiamo veramente bisogno sono le condizioni per una vita degna; abbiamo bisogno di una comunità…” (Gustavo Esteva)
Le note a margine, per definizione, sono appunti nei quali si raccolgono brevi osservazioni rispetto a un testo principale. Se quel testo è la vita reale le note a margine sono i ragazzi e le ragazze. Per loro oggi non c’è spazio. Del resto quali esperienze vivono per contribuire alla vita di un territorio? Quali spazi di partecipazione e autogestione sono loro consentiti? C’è qualcuno che li ascolta sul serio? Chi li incoraggia a prendere in mano la propria vita e a collaborare per costruire una società diversa?
La scuola, ad esempio, continua a proporre un’idea di educazione quale lunghissimo tempo di preparazione fatto soltanto di simulazioni, per altro ossessivamente verificate e raramente in grado di alimentare passioni, senza alcuna ricaduta sulla vita concreta di una comunità. Intanto la società degli adulti, mentre impedisce in tanti modi l’autonomia degli adolescenti e dei giovani (basti pensare a come il mercato nega il diritto all’abitare), si presenta prima di tutto come un’immensa fabbrica di violenza: guerre e femminicidi, ma anche competizione diffusa, individualizzazione, ritmi accelerati, sete di successo e denaro sono la grammatica di una civiltà profondamente violenta. Eppure media e politica istituzionale non fanno che parlare e prendere decisioni per il disagio giovanile, per l’emergenza criminalità, per la crescita della violenza tra i ragazzi. Così, i fatti di Caivano (Ansa) invece di avviare una stagione nella quale chiedersi come creare spazi ed esperienze dense di significato per ragazzi e ragazze e come riconoscere la violenza contro le donne in quanto fenomeno culturale (ne ragiona qui Lea Melandri) sono stati l’occasione per promuovere una campagna di repressione con pochi precedenti.
La nuova inchiesta di Territori Educativi, Vite a margine, prova ad aprire crepe in questo modo di pensare ai ragazzi e alla ragazze. In Abbiamo bisogno di fatica educativa Susanna Marietti ricorda prima di tutto che i dati degli ultimi dieci anni dicono che il numero di reati compiuti da ragazzi e ragazze in Italia non è affatto aumentato. Nessuno nasce bullo, delinquente, violento – aggiunge Emilia De Rienzo in Non si nasce violenti -, lo si diventa quando nessuno si prende cura di te. Per questo occorre partire dal ripensare la vita delle comunità a livello territoriale, dall’immaginare qualcosa di diverso. Insomma, il disagio di tanti ragazzi e ragazze non può essere considerato un problema di ordine pubblico. Secondo Daniele Novara dobbiamo sostenere i genitori e la scuola a vivere il loro compito all’interno di un insieme di relazioni sociali (Una comunità più ampia). Gli adulti sono chiamati a mostrare ai ragazzi un futuro di possibilità, aggiungono Giuseppe Bagni e Giuseppe Buondonno in Creare strade aperte per i ragazzi, a metterli di fronte a strade aperte, non certo alle pareti chiuse di una prigione. Meno ancora servono eserciti nelle periferie più maltrattate: per Carlo Cellamare, docente di urbanistica e direttore del Laboratorio di Studi Urbani “Territori dell’abitare” presso l’Università “La Sapienza” di Roma, da Tor Bella Monaca a Scampia, prima degli interventi di riqualificazione edilizia e urbanistica, serve riconoscere la presenza di esperienze importanti sui territori, dalle associazioni ai gruppi informali di abitanti, serve sostenere le scuole che si aprono alla città, ma serve anche un racconto differente per contrastare la stigmatizzazione di certi quartieri (Periferie, pensare e agire diversamente).
In realtà le recenti storie di violenza che hanno coinvolto tanti adolescenti ci consegnano prima di tutto storie di corpi violati, nel tempo dei corpi in vetrina e dei corpi-macchina. Quando ci chiediamo come creare comunità educanti dovremmo partire da quei corpi e dai corpi degli adulti che vogliono aprire strade nuove, dice Loris Antonelli, educatore nelle periferie romane. Educatori, insegnanti, adulti sono chiamati ad esserci, ad essere presenza consapevole con i loro corpi, con i loro desideri, con le loro fragilità (Corpi educativi).
Ma è necessario anche riconoscere come un certo modo di fare scuola sia carico di violenza. In La violenza nella e della scuola Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione alla Bicocca, spiega come le violenze trai banchi sono molteplici anche se poco visibili: gli ambienti della scuola sono quasi sempre poco accoglienti ed estranei a bambini e ragazzi, i diversi tempi di apprendimento non vengono assecondati, per effettuare attività principalmente cognitive si fa ricorso a una disciplina esigente accompagnata da minacce di valutazioni e punizioni, a volte si aggiunge anche l’atteggiamento autoritario di alcuni insegnanti. Nello stesso tempo gli insegnanti si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi. Per questo “non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione…. Questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione…” (a quel drastico cambiamento si ispirano le esperienze di educazione diffusa, a cui Mottana e altri hanno dedicano da tempo molte attenzioni).
Per fortuna i tentativi con i quali imparare a disinnescare e rielaborare le esplosioni della violenza non mancano: tra i tanti segnaliamo un percorso che ha avvicinato ragazzi e ragazze della periferia romana di San Basilio al linguaggio audiovisivo per affrontare il tema della gestione dei conflitti (Ciak, impariamo a litigare bene) e un progetto promosso da Acmos di Torino e Libera che coinvolge i ragazzi e le ragazze che devono scontare il periodo di “messa alla prova” (cioè la sospensione del processo e l’affidamento ai servizi sociali per un cammino di crescita) in un percorso di antimafia sociale (Oltre l’errore). Si chiama invece Scu.ter (Scuola e Territorio) il progetto con cui Acmos affianca i ragazzi e le ragazze di diverse scuole superiori per promuovere incontri, preparati con gli adolescenti, di approfondimento sui temi sociali, per favorire la creazioni del gruppo classe, per aprire la scuola al quartiere e per fare del territorio un luogo educativo (Relazioni sullo scooter).
Di certo, per Franco Lorenzoni – Le tre solitudini di ragazze e ragazzi, insegna – occorre proteggere i diversi tentativi di costruzione di comunità educanti che in alcune città stanno dando risultati interessanti contro l’abbandono scolastico: c’è bisogno ovunque di ristrutturare piazze, fare delle biblioteche, dei punti di ritrovo, aprire spazi per attività sportive o espressive, tenere aperte le scuole il pomeriggio con la partecipazione del territorio per ospitare proposte e laboratori. Se c’è un luogo nel quale cercare risposte su cos’è una città o un quartiere educante, suggerisce Antonella Agnoli in Città e biblioteche, quel luogo è la biblioteca: non quella tradizionale, ma la biblioteca che sa rivolgersi anche ai non lettori, che ripensa i suoi compiti attraverso la partecipazione degli abitanti del territorio, che si propone come luogo di relazioni soprattutto per studenti e studentesse, dove si trova sempre qualcosa da fare o qualcuno con cui parlare.
Di quanto la quotidianità di molti ragazzi e ragazze sia troppo spesso un limbo di inutilità, tra contesti di violenza cronica e mille buone ragioni per non avere fiducia negli adulti, ragiona Cesare Moreno, dell’Associazione Maestri di strada di Napoli, in La bellezza e l’arte rompono gli schemi precostituiti: per spezzare quell’orizzonte, una priorità è la ricerca del bello vissuta insieme agli adolescenti. Ma il bello va portato prima di tutto dove le persone vivono: l’arte e la bellezza sono infatti in grado di rompere le routine e gli schemi precostituiti, sanno portare fuori da un destino già assegnato. Lo sanno bene quelli dell’Associazione Musicale Etnea che insieme all’Istituto comprensivo Rita Atria, ha avviato l’esperienza della Scuola Aperta Partecipata a Librino, enorme quartiere periferico di Catania. In L’arte di essere periferia raccontano come a fine settembre hanno trasformato il quartiere in un grande palcoscenico: Librino as Stage è stato un ottimo esempio di come sia possibile partire dalla periferia per fare della musica, della danza e delle arti performative canali attraverso i quali far emergere una nuova cultura politica, non sono un modo diverso di aggregare ragazzi. A Brindisi, invece, uno dei processi che ha generato il progetto Scuole Aperte Partecipate è stato ascoltare e coinvolgere in diversi modi tanti adolescenti per il quartiere: sono loro che fanno sapere, raccontano e contribuiscono all’animazione (ad esempio con la Scuola popolare di Hip Hop promossa nella Casa di Quartiere a Parco Buscicchio) di ciò che accade ogni giorno nel parco, nella scuola che si apre al territorio. “Questi ragazzi e queste ragazze hanno un forte desiderio di riscattarsi – racconta Paola Meo in Abbiamo smesso di distruggere il parco -, ma mentre prima gridavano aiuto per lo più distruggendo, ora proteggono il percorso attivato insieme a tante persone da chi ancora non ne è consapevole e distrugge…”. Che il presente debba saper inventare spazi comunitari anche laddove sembra assurdo perfino immaginarli lo dimostra anche il reportage in due puntate – La scuola in comunità nell’ultima favela e Il Museo che difende la vita – di Raúl Zibechi: il territorio raccontato è il Complexo o Morro do Alemao, settantamila abitanti suddivisi in 16 favelas, l’ultimo enorme quartiere di Rio de Janeiro secondo l’indice della sviluppo umano: lì resiste alla militarizzazione del territorio e al narco-traffico, la gente della scuoletta intitolata a Dandara, eroina del Quilombo de Palmares, la più importante comunità autonoma creata dagli schiavi fuggiti dalle piantagioni nel XVII secolo.
Insomma non è vero che mancano alternative agli spot repressivi come il decreto Caivano. E non è vero che la creazione di territori diversi dipende dall’alto oppure da eroi. L’utopia per le strade: i carnevali del Gridas (Marotta&Cafiero), meritoriamente tornato nelle librerie a settembre, capovolge quella narrazione ricostruendo una storia meravigliosa cominciata in una periferia complicata come Scampia quarant’anni fa con i murales di Felice Pignataro, con il carnevale popolare che coinvolge scuole e associazioni del territorio e che nel tempo si è legato ad altri carnevali di quartiere di Napoli. Nell’introduzione di quel testo straordinario, scritta da Mirella La Magna (promotrice insieme a Felice Pignataro, Franco Vicario e altri del Gridas), tra l’altro si legge: “Diciamolo a tutti che insieme si può e si cresce e si è felici. Sempre. E soprattutto non si muore. Mai…” (Per le strade).
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