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Lavoro educativo informale

Lorenzo Natella
09 Dicembre 2022

Quella delle “ripetizioni” resta una storia del nostro tempo per tante ragioni. Le lavoratrici e i lavoratori coinvolti, tanti e molto diversi tra loro, sembrano indispensabili a tenere a galla una barca malconcia. Intorno a questo lavoro riproduttivo si muovono “modelli Airbnb” ma anche esperienze di autorganizzazione, dalle forme più basilari a quelle più strutturate. In realtà ci sono anche alcuni tentativi che puntano a riconoscerlo cercando di incrociare l’offerta informale con la domanda dei nuclei familiari economicamente più fragili, facendolo dentro la scuola pubblica. “Percorsi simili rappresentano un primo passo avanti – scrive Lorenzo Natella in questa dettagliata ricostruzione – perché incubano il seme della relazione possibile tra autorganizzazione educativa e scuola pubblica, a servizio di un progetto di territorio educante, inclusivo e popolare…”

Tratta da pixabay.com

In molti abbiamo presente l’immagine delle storie di Zerocalcare dove il giovane Michele/Zero se ne parte dal quartiere popolare di Rebibbia per andare a lavorare nelle case di altra gente, ad aiutare i loro figli e figlie nello studio pomeridiano, per tirare su una bozza di salario. Un lavoretto informale, come tanti altri che l’artista racconta, con la sua lucidità nella lettura dei fenomeni, esser parte di un’intera rappresentazione della vita delle generazioni nate dopo la sbornia degli anni ottanta, cresciute con le ferite di Genova 2001, che si ritrovano a condividere il peso non solo della sottoccupazione e della precarietà, ma anche dell’invisibilità lavorativa. Quella delle “ripetizioni” è una storia del nostro tempo. Una storia fatta di annunci autoprodotti appesi sulla vetrina di un supermarket o condivisi sui social network, fatta di ritagli di tempo dallo studio e da altri lavoretti, un’ora prima del turno in pizzeria o un’ora dopo la lezione in facoltà. Ma è una storia fatta anche di lavoratori più adulti, tagliati fuori dal mercato del lavoro formale e indotti a reinventarsi una professione con i propri strumenti intellettuali, prodotti di un’epoca di scolarizzazione di massa che oggi sembra virare pericolosamente contromano.

Il rapporto PISA aveva rivelato già nel 2013 come l’Italia fosse il paese dove gli studenti e le studentesse trascorrevano il maggior numero di ore settimanali a studiare in casa. Nell’ambito di tutti i paesi Ocse eravamo secondi solo ai russi, con 8,7 ore di studio a settimana in casa, rispetto ad esempio a coreani e finlandesi che studiano a casa meno di 3 ore, confermandosi però ai primi posti in quanto a competenze acquisite. Questo fenomeno, come conferma lo stesso rapporto PISA, accresce le diseguaglianze e aumenta il solco tra chi ha più opportunità e chi ne ha di meno. In Italia, uno studente o una studentessa che vive in condizioni di precarietà abitativa o con genitori che lavorano molte ore, a fronte di un carico maggiore di studio domestico, avrà meno opportunità di riuscire nel suo percorso scolastico.

Secondo il rapporto UNESCO del 2021 sul monitoraggio dell’educazione globale, il 71% dei genitori italiani trascorreva una media di 7 ore settimanali nel supporto allo studio di figli e figlie. Ancora una volta, il maggior numero di ore in Europa. Questo fenomeno ha avuto un incremento con la pandemia, di pari passo con l’aumento delle disuguaglianze: INVALSI ha rilevato come la quota di studenti delle scuole superiori in calo al di sotto della competenza minima sia cresciuta, nel 2021, di 9 punti percentuali. Il dato è peggiore tra gli studenti socialmente più svantaggiati e, all’interno di questo gruppo, soprattutto tra coloro che inizialmente avevano un livello più alto! La situazione pandemica, come spesso ci troviamo a dire negli ultimi anni, ha fatto emergere i peggiori effetti della scarsa pianificazione educativa pubblica. Con l’arrivo di lockdown, digitalizzazione del setting educativo, chiusura totale o parziale delle scuole, i paesi che meno avevano investito nella scuola pubblica sono quelli che hanno riportato più danni al sistema educativo a causa della crisi socio-sanitaria globale: soprattutto nei tantissimi contesti di difficile accesso alla didattica a distanza, dove il possesso di device informatici non è scontato. Solo in Italia il 27% delle famiglie dichiarava di non aver potuto “fare la DAD” nel corso del primo lockdown del 2020 per mancanza di dispositivi o connessione a internet.

Ma non è tutto. Secondo i dati Eurostat, il 53% dei docenti delle scuole primarie e secondarie in Italia ha più di cinquant’anni, contro una media UE del 36%. Mentre, secondo l’Ocse, gli stipendi dei docenti italiani sono in assoluto i più bassi del Continente. Un professore di scuola media o di scuola superiore in Italia guadagna la metà di un collega tedesco o olandese, un po’ meno di uno francese o spagnolo, ma comunque in fondo alla classifica. Questo comporta una più alta probabilità di generare un corpo docente poco motivato, perché mal pagato, fiaccato da un lavoro al limite dell’usurante, in classi numerose, con contratti spesso inadeguati.

Il mercato delle ripetizioni private

In questo panorama di forti disuguaglianze, con una serie di problematiche che la scuola pubblica vive oltre a quelle citate, diventa comprensibile capire perché molte famiglie, di quelle che possono permetterselo, si rivolgono a ripetizioni e tutoraggio privati. Secondo il Codacons, ogni anno, il mercato delle ripetizioni private in Italia vale un giro che sfiora il milione di euro, di cui quasi il 90% sono a nero. Tuttavia, in questi numeri ci sono diverse categorie di lavoratori e lavoratrici. Ci sono insegnanti di ruolo che arrotondano lo stipendio (sui quali si concentrano normative e interventi da parte dello Stato), ci sono insegnanti precari, studenti e studentesse all’università, nonché lavoratori e lavoratrici di altri ambiti e con specifiche competenze. È un settore di economia informale gigantesco, sul quale le famiglie italiane contano per permettere agli alunni e alle alunne delle scuole di ogni ordine e grado di affrontare l’anno scolastico o recuperare debiti e lacune.

Lo vediamo ogni giorno nei nostri quartieri, nei territori dove facciamo educazione con le classi popolari: molte famiglie lavoratrici fanno grandi sacrifici per permettersi un servizio così diffuso e imprescindibile, mentre tutta una fascia sociale esclusa, che fatica anche solo a mettere in fila un pranzo e una cena, non può neanche pensare di ricorrere alle ripetizioni scolastiche a pagamento. Spesso, nei contesti di maggior esclusione, le ripetizioni nemmeno bastano. Il bisogno è più complesso e si intreccia con questioni sociali, con esigenze ambientali, igieniche, alimentari. In questi contesti sono le organizzazioni sociali di ogni tipo che sopperiscono alle assenze e ai ritardi dello Stato. È un universo complesso, i cui confini spaziano dagli enti filantropici all’organizzazione popolare dal basso, alcune volte con la collaborazione degli attori istituzionali, altre volte senza.

Nel frattempo, come dicevamo, ci sono i lavoratori e le lavoratrici di questo vasto settore informale del lavoro educativo in Italia, il più delle volte provenienti anch’essi dalle classi popolari. Studenti e studentesse, a loro volta figli di famiglie lavoratrici al tempo del lavoro povero, che si pagano gli studi o l’affitto con le ripetizioni. Precari e precarie della scuola e di altri settori, con titoli di studio specialistici o anche solo competenze professionali richieste per un lavoro di tutoring. Docenti disoccupati o esclusi dal mercato lavorativo, molto spesso donne vincolate al lavoro di cura domestico. Un esercito di riserva del settore educativo. Lumpen con la laurea (o il libretto universitario) in tasca, che ciò nonostante si barcamenano giornalmente tra ripetizioni e lavoro nero, occasionale, part-time, a chiamata, partita iva, sostegni al reddito, sussidi.

Modello Airbnb

Alcuni di loro si strutturano in associazioni, gruppi e reti informali per provare a organizzare la propria forza lavoro o metterla al servizio di progettualità sociali, spesso mal retribuite, dovendo affrontare la difficoltà – e la frustrazione – nel reperire finanziamenti privati. Molti altri, la maggior parte, affrontano questo lavoro da soli o si affidano alle piattaforme online della gig-economy, che monetizzano il lavoro educativo informale dentro un sistema di mercato “modello Airbnb”. Scuole private, centri studi ed altre agenzie educative privatistiche mettono le mani in questo vasto mondo approfittando dell’invisibilità del settore, per offrire impieghi sottopagati e senza diritti. Soprattutto i più adulti, e soprattutto a seguito della pandemia, cadono nelle complesse reti dell’homeschooling, ennesimo strumento neoliberista di deflagrazione dell’educazione pubblica che, per usare le parole di Franco Lorenzoni, “è agli antipodi di ciò che con fatica, da decenni, la gran parte di maestre e maestri tentano di costruire giorno per giorno: una scuola della Costituzione aperta a tutte e tutti”. Eppure lo Stato consente e facilita la privatizzazione di un ennesimo blocco del mondo educativo, ma lo fa con un metodo singolare: lo ignora. Lo Stato non si cura di questi lavoratori e lavoratrici invisibili, se non quando si ricorda che rappresentano una fetta di evasione fiscale.

Costoro effettuano un lavoro di riproduzione sociale, per questo non vengono intercettati né dallo Stato né dalle strutture sindacali tradizionali che riconoscono, salvo poche eccezioni, il lavoro esclusivamente nella sua dimensione produttiva. Il lavoro educativo informale sopperisce alle mancanze della scuola italiana, ai suoi ritardi storici e alle storture degli impianti didattici e relazionali del neoliberismo. Anzi, come tutti i lavori riproduttivi, il lavoro educativo informale si contrappone all’individualismo e all’autosufficienza propri dell’impianto neoliberista: ci mostra la cura come necessaria, la dipendenza come fattore umano indispensabile. È lo scarto di un sistema educativo sempre più regolato dal mercato. Lo Stato si rifiuta di vederli anche a causa della transitorietà della loro condizione: i più giovani entreranno presto nel “normale” mercato del lavoro precario, i più adulti ne sono usciti prima del previsto, altri restano ai margini a svolgere un lavoro di riproduzione sociale cui il mercato, scartandoli, li ha destinati. Infondo è più conveniente lasciare cristallizzata una situazione di ingiustizia dove l’emersione non conviene né al lavoratore, che verrebbe penalizzato da tasse sproporzionate, né allo Stato, proprio perché la perdita fiscale vale di meno del gigantesco lavoro suppletivo con cui questo esercito informale alleggerisce il sistema educativo nazionale. Questi lavoratori e queste lavoratrici sono indispensabili a tenere a galla una barca malconcia, poiché senza di loro sarebbe ben più grave e più visibile il fallimento di un modello socialmente discriminante ma venduto come insostituibile.

La risposta naturale è spesso l’autorganizzazione, dalle forme più basilari a quelle più strutturate. Esistono molti esempi in tutta Italia che hanno lo scopo di organizzare queste figure educative o mettere in piedi progetti mutualistici, più o meno politicamente coscienti. Associazioni, collettivi, scuole popolari, raramente anche piccole cooperative. Ancor più rare sono le risposte delle istituzioni che, in modo discontinuo e geopardizzato, comunque esistono. Ogni possibile alternativa, allo stato attuale dei fatti e con gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi in Italia, passa per il ruolo centrale della scuola pubblica e per l’impegno economico dello Stato. I lavoratori e le lavoratrici informali non sempre hanno le competenze pedagogiche per garantirsi un approdo nel mondo della didattica o dell’educativa professionale, dove occorrono percorsi di studio specifici. Proprio per questo nessuna proposta alternativa potrà essere avanzata se non si parte dal presupposto che occorre muoversi verso un fronte comune, solidale, per la dignità e i diritti sociali di docenti, educatrici/ori, operatrici/ori, personale scolastico di ogni categoria e mansione.

Qualcosa si muove

Esistono tuttavia esempi che riconoscono il lavoro del supporto allo studio non professionale e cercano di incrociare l’offerta informale con la domanda delle famiglie economicamente svantaggiate, facendolo dentro la scuola pubblica. L’Università di Torino ha messo in piedi il progetto Compiti@Casa insieme a una nota fondazione privata, per mettere in contatto studenti/esse universitari/e con le scuole medie della periferia torinese, per azioni di tutoring scolastico. Il progetto ha molti limiti, primo tra tutti l’affidamento totale su fondi privati, ma ha almeno il merito di riconoscere che esiste una fascia di lavoratori e lavoratrici di questo settore che studia all’università. Più ampio il progetto “Roma Scuola Aperta” ideato dall’assessorato alla scuola di Roma Capitale, al cui interno si inseriscono opportunità di “supporto scolastico, percorsi didattici personalizzati o per piccoli gruppi, azioni volte a supportare gli studenti e le studentesse a rischio dispersione e le loro famiglie”. Con l’obiettivo dichiarato di rendere le scuole pubbliche romane dei veri e propri Poli civici e culturali, viene incoraggiata la collaborazione con figure professionali, associazioni, gruppi territoriali di varia natura. Non sappiamo ancora se e come il progetto avrà successo nel suo insieme, e di certo questo non punta specificatamente al lavoro educativo informale, ma ci sono buone premesse per leggere al suo interno una comunità educante vasta, che comprenda ogni attore, anche quelli esclusi dal mercato formale.


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Non sarà nemmeno questa la soluzione, ma percorsi simili rappresentano un primo passo avanti perché incubano il seme della relazione possibile tra autorganizzazione educativa e scuola pubblica, a servizio di un progetto di territorio educante, inclusivo e popolare. E, perché no, territorio di conflitto. Una scuola aperta dove sia possibile contendere spazi e pratiche al modello educativo neoliberista. La soluzione, tuttavia, non potrà che passare per il reale riconoscimento del lavoro educativo informale, non come fatto illegale da contrastare né come bacino fiscale su cui fare cassa, ma come fenomeno naturale di scarto del sistema capitalista che compartecipa all’educazione pubblica italiana. Siamo lontani anche dalle lezioni private descritte da Don Milani nel 1967, perché oggi il supporto scolastico nelle sue diverse forme è un fenomeno di massa. Non sono più solo i professori dopolavoristi ad erogare il servizio e non sono più solo le famiglie ricche ad usufruirne. Per questo è necessario riconoscere tutti i soggetti coinvolti oggi nel lavoro educativo informale, a differenza ad esempio di strumenti come i bonus ripetizioni riservati ai docenti di cattedra.

Chi svolge questo lavoro in una specifica fase della propria vita e chi ne ha fatto la propria occupazione principale, hanno lo stesso diritto di uscire dall’invisibilità. Un riconoscimento che deve partire dagli stessi lavoratori e lavoratrici del settore, le cui forme organizzate sono oggi in una fase mutualistica piuttosto che rivendicativa. La soluzione allora dovrà passare anche per l’incontro, il dialogo e il confronto tra esperienze diverse in questo stesso settore, per la costruzione di piattaforme comuni, la messa a sistema delle esperienze e l’intersezione con le altre lotte degli e delle invisibili di questo paese.


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Telefono: 06 6538261
Indirizzo: Via Del Casaletto 400, ROMA

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Un progetto selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Il progetto è coordinato da Mo.V.I. - Movimento di Volontariato Italiano
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