«Cominciavamo con la primavera. Quando la luce si allunga e l’aria sa di mandorle. Come gli uccelli, qualcuno fischiava e gli altri arrivavano. Eravamo bambini e bambine e avevamo la strada tutta per noi. Vuota e libera, dove tutto poteva accadere. Sotto il segno del gioco si diventava abili a saltare, a correre, a nascondersi, a diventare amici, a fare i grandi. A costruire strani rifugi all’ombra di un orto. A salire sugli alberi per rubare le ciliegie. A farsi male e a sapersela vedere da soli. Con la polvere addosso, il sudore e il sangue e anche le lacrime… S’imparava col corpo. Coi graffi, le sbucciature, le agilità, le spinte, i calci, gli abbracci. Sotto e sopra la fune stringevamo legami. Apprendevamo nel libero stato del gioco i riti della felicità… Poi i bambini sono spariti. Li abbiamo chiusi per proteggerli…»

Questo articolo fa parte dell’inchiesta
Fammi giocare. La città e il gioco
Cominciavamo con la primavera. Quando la luce si allunga e l’aria sa di mandorle. Come gli uccelli, qualcuno fischiava e gli altri arrivavano. Eravamo bambini e bambine e avevamo la strada tutta per noi. Vuota e libera, dove tutto poteva accadere. Sotto il segno del gioco si diventava abili a saltare, a correre, a nascondersi, a diventare amici, a fare i grandi. A costruire strani rifugi all’ombra di un orto. A salire sugli alberi per rubare le ciliegie. A farsi male e a sapersela vedere da soli. Con la polvere addosso, il sudore e il sangue e anche le lacrime.
Noi bambine non eravamo da meno. Imparavamo a cadere e a perdere. La palla era un mondo che ci passavamo di mano in mano. Con strane cantilene, dove riprendevi da dove sbagliavi. Ed era così lungo che non finiva mai, nessuno vinceva e gli insicuri avevano tutto il tempo per migliorare. Giocavamo con i sassolini che stavano in una mano, conoscevamo le pietre per scrivere “ti amo”. Costruivamo case di cartone e ci sposavamo con l’abito della mamma che ce lo dava davvero. S’imparava col corpo. Coi graffi, le sbucciature, le agilità, le spinte, i calci, gli abbracci. Sotto e sopra la fune stringevamo legami. Apprendevamo nel libero stato del gioco i riti della felicità.
Nel mio paese hanno giocato intere generazioni. Le auto cambiavano strada per non interrompere i giochi e i raduni dei bambini. Che stavano da soli. Senza adulti. Che imparavano ad autoregolarsi, litigando e facendo la pace perché conviene. Perché se tornavi a casa piangendo poi non uscivi più. E allora toccava capirla l’arte di stare al mondo. Pedala pedala e attenta a non sfracellarti alla discesa. I più grandi ti spiegavano come fare.
Anche la pipì s’imparava a farla dove ci si trovava. Noi bambine ci sedevamo sul marciapiede tutte insieme e la vedevamo scorrere in un rigagnolo comune che ci faceva ridere. Che segnava il nostro territorio, proibito ai maschi.
Hanno giocato fino a un po’ di anni fa. Poi i bambini sono spariti. Li abbiamo chiusi per proteggerli. Nelle case, nelle palestre, nelle piscine, nei campi da tennis e da calcio, a lezioni di musica. Chiusi anche quando stanno all’aperto. Sempre con l’adulto che controlla, che stabilisce le regole, che chiede la prestazione del giorno, che organizza il modo e il tempo dello stare insieme, se si riesce a stare insieme. Se no si rimane soli col proprio tablet a giocare il gioco degli altri.
I bambini hanno perso la strada, maestra. E con lei la fiducia di poter star da soli in mezzo ai pari. Una scuola senza fissa dimora che insegna con i suoi riti e le sue iniziazioni a credere in se stessi, in quella strana dismisura del tempo gratuito e senza scopo, che modella il chi siamo nell’incontro scontro col mondo. Che ci abitua a creare e a guardare nel vuoto per tirarne fuori quel che ancora non c’è.
I bambini di oggi sono stati rapiti e legati a uno schermo col potere del clic. Sono più soli, spesso senza fratelli o sorelle. Sono più maldestri nei giochi di movimento e di gruppo. Vogliono vincere. Essere i primi, i più veloci e i più forti. Tutti campioni e principesse di mamma e papà. Ci restano male perché quasi mai nella vita è così, ma il videogiochi questo non glielo insegna. E la strada ora è cattiva. Fa paura. È piena di draghi da sconfiggere.
Quand’ero bambina, dall’angolo buio in fondo qualcuno prima o poi arrivava correndo, per dire: «Un due tre…, liberi tutti».
Domani glielo insegnerò che ci si salva insieme.
Questo articolo è stato scritto (nel 2014) da Rosaria Gasparro, per molti anni insegnante nella scuola primaria a San Michele Salentino (Brindisi), dove è anche tra le promotrici dell’associazione Attacco Poetico. Nell’archivio di Comune, numerosi articoli di Rosaria Gasparro sono leggibili qui.
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