Sull’onda lunga del ’68 la scuola ha vissuto diversi cambiamenti importanti, da cui oggi prendere spunto. Spesso ad anticiparli è stata l’iniziativa in basso di gruppi di insegnanti, a cominciare da quelli del Movimento di cooperazione educativa. Le esperienze e le elaborazioni teoriche dei gruppi territoriali, la critica al ruolo istituzionale antipopolare della scuola, il sostegno e il confronto con gli operai e le loro lotte, la battaglia per il tempo pieno, l’idea della classe come comunità sono stati alcuni passaggi della ricca storia dell’Mce (in parte emersa con testi come quelli di Mario Lodi o con film come Diario di un maestro). Un nucleo fondante di quel processo, ricorda il libro di Rinaldo Rizzi La cooperazione educativa per una pedagogia popolare (ed. junior), è stata l’apertura della scuola ai problemi della realtà sociale con il coinvolgimento dei genitori nel promuovere iniziative nei territori. Ampi stralci del capitolo Scuola, territorio e società, un nesso inscindibile (1969-73)
Tratta da MCE Cantieri per la formazione

Nel 1968, a seguito della modificazione socio-strutturale in atto del Paese, con una trasformazione della sua fisionomia produttiva, da agricola a industriale, e per la conseguente espansione della domanda sociale delle madri lavoratrici, era stata approvata la legge n. 444 del 18 marzo, con la quale veniva istituita la scuola materna statale. L’anno successivo, con il d.p.r. 10 settembre 1969, n. 647, venivano emanati i nuovi Orientamenti dell’età educativa nelle scuole materne statali. Poi, nel 1971, seguiva la prima legge strutturale sugli asili nido (legge 6 dicembre, n. 1044) e reso possibile, con la legge 30 marzo, n. 118, il primo inserimento nel servizio scolastico ordinario di invalidi, minori e disabili con l’avvio graduale dello svuotamenento delle “classi differenziali” e delle “scuole speciali”. Tale fatto avrebbe aperto una nuova prospettiva con cui guardare al problema della formazione di base. Ma ci sarebbero voluti anni perché da questa nuova realtà legislativa scaturisse per la base docente della scuola materna la opportunità di confrontarsi con i colleghi della scuola elementare. All’interno del Movimento cresceva intanto un bisogno d’incontro che non si riusciva a concretizzare e che solo verso la seconda metà degli anni Settanta avrebbe portato a registrare nel mce presenze d’insegnanti di tale grado di scuola; si sarebbe dovuto attendere l’assemblea nazionale del 1982 per giungere alla costituzione del “Gruppo nazionale infanzia”.
Il Movimento, che in passato aveva privilegiato il muoversi in base alle esperienze maturate nelle pratiche didattico-educative, iniziò a preferire procedimenti per ipotesi, per obiettivi d’impegno sociale e politico. […] Nel Movimento diventarono centrali i gruppi territoriali, il che determinò un frammentarsi e un differenziarsi delle esperienze. Ad esempio, ritroviamo posizioni più sociopolitiche e movimentiste, impegnate nel rapporto scuola-territorio-società e ideologiche, che proclamavano il “superamento del settorialismo” della ricerca disciplinare, o ancora opzioni politico-didattiche quale
l’indagine d’ambiente, [che] apparve una buona soluzione al difficile problema della conciliazione fra ricerca pedagico-didattica con la politica. Di ciascuna materia si sarebbero approfonditi solo quegli aspetti che si fossero dimostrati capaci di fornire strumenti validi per lo studio e la trasformazione della realtà.
Posizione, quest’ultima, che via via prese sempre più piede nel Movimento. […]
Nel 1969, all’assemblea nazionale (così venne definito dal nuovo Statuto il tradizionale “congresso-convegno” nazionale annuale del Movimento), svolta a Lizzano (Fo), la discussione s’incentrò sulla funzione selettiva in senso “classista” della scuola italiana. Partendo dalle diverse esperienze condotte in classe si cercò di precisare innanzitutto i termini attraverso i quali si esplicitava la selezione sociale, il reiterarsi del suo ruolo istituzionale antipopolare. Vennero innanzitutto individuati e denunciati gli strumenti di valutazione tradizionale: la divisione dei bambini nell’aula secondo il profitto e il comportamento, il voto decimale, il registro classificatorio, l’interrogazione cattedratica, la ripetenza quali espressioni esteriori della selezione di classe. Pur essendo consapevoli che ben altri erano i meccanismi culturali discriminatori, assai più efficaci e occulti, che portavano a tale esito, si ritenne che fosse importante e significativo proprio denunciare tali strumenti espliciti che facilmente testimoniavano ed evidenziavano anche a un largo pubblico la connessione fra insuccesso scolastico e condizione e origine socioculturale familiare.
Si poneva così in evidenza l’incapacità della scuola di far fronte e di superare i limiti formativi posti dalle differenze sociali e dagli squilibri di partenza. Ne conseguì la denuncia della mancanza di una scuola dell’infanzia generalizzata, gli orari dimezzati nelle città e specie al Sud con i doppi e talora addirittura tripli turni, l’insufficienza e l’inadeguatezza dei locali, la carenza di attrezzature didattiche più evidenti proprio là dove già sussisteva un disagio sociale. A questa denuncia si accompagnò quella rivolta ai contenuti e ai metodi di un insegnamento puramente trasmissivo, ripetitivo e passivizzante, disarticolato per materie, fondato su un acritico ed esasperato nozionismo, uniforme verso tutti i bambini, fondato essenzialmente sui libri di testo. Un’azione docente completamente estranea al mondo del bambino, praticata attraverso la lezione cattedratica, l’esaustività del libro di testo unico, l’interrogazione basata sulla pura memorizzazione, il giudizio quantitativo e sommativo. Veniva denunciato il loro ruolo finalizzato a misurare sostanzialmente il grado d’inserimento passivo d’ogni allievo in una struttura sociale rigida e in totale sintonia con una società tradizionalista e autoritaria. […]
Ne conseguì quindi la presa di coscienza del fatto che una battaglia per la riforma della scuola non poteva che essere condotta insieme alla classe operaia, quale componente sociale storicamente discriminata ma ormai in grado di organizzarsi.
La presenza e l’impegno degli insegnanti mce nelle varie situazioni e nei conflitti sociali nonché nelle scuole di periferia urbana diventò un diktat. Ciò comportava aprire la scuola ai problemi della realtà sociale circostante e anzi fare della scuola un fulcro di mobilitazione educativa, coinvolgendo nelle rivendicazioni innanzitutto i genitori, assieme alle iniziative e forze sociali presenti sul territorio.
Nel Congresso straordinario tenutosi a Lucca (aprile 1970) ci si sforzò di definire i termini fondamentali di tale prospettiva. Si ribadì l’importanza di superare il settorialismo degli strumenti didattico-culturali che si stavano elaborando in maniera parallela (matematica e scienze, linguistica, educazione visiva, storia e ricerca d’ambiente) e inoltre di contrastare una gestione corporativa (cioè gelosamente svolta solo dai singoli insegnanti) intorno al discorso sulla scuola. […]
L’assemblea di Castelsanpietro (Bo) nel 1970 licenziò un documento dal titolo molto esplicito, “Il ruolo dell’insegnante e i rapporti con la classe operaia”. Vennero individuati tutti i modi possibili d’intervento mobilitativi all’interno dell’istituzione scolastica: le assemblee sindacali a scuola (fatto storicamente allora estraneo), le riunioni didattiche con i colleghi, gli incontri con tutti i genitori della classe in assemblea. In questo modo s’intese sviluppare un’azione tendente a porre in crisi la visione separata della scuola e la dimensione corporativa della categoria docente, mettendo in evidenza la sua funzione storica di “vestale della classe media”, tesa solo ad autoconservarsi.
L’individuazione di una strategia unitaria col mondo del lavoro diventò a questo punto il problema centrale del dibattito all’interno del Movimento. Un confronto di esperienze in merito si ebbe particolarmente all’Assemblea nazionale di Rimini (2-5 gennaio 1971) nel tentativo di superare la disparità e la disorganicità dell’iniziativa dei diversi gruppi emersa nel precedente appuntamento di Lucca. Si ribadì quindi che i nuclei principali attorno ai quali svolgere l’impegno professionale fossero: il voto unico, la valutazione alternativa, la denuncia dei libri di testo tradizionali, l’opposizione alla selezione e l’impegno per affermare il tempo prolungato e pieno. […]
All’assemblea nazionale straordinaria di Firenze di fine ’71 si generò una situazione di contrapposizione fra le tesi emerse al corso “Scuola e sistema” (svoltosi in estate a Cison di Valmarino, in provincia di Treviso) e quelle del corso di coordinamento (tenuto in agosto a Champorcher, in provincia di Aosta), dove si era affrontato l’andamento dell’iniziativa della “sperimentazione didattica” intorno ai temi della libera espressione, dell’educazione sessuale, dell’urbanistica scolastica e vari altri, nonché con il Gruppo ricerca d’ambiente, che aveva organizzato delle giornate di studio sul marxismo. Vennero dunque esaminati: il problema del “tempo pieno”, sia dal punto di vista della sua diffusione che della sua impostazione e gestione didattica; il rifiuto dei libri di testo, ritenendolo «strumento autoritario di trasmissione prefabbricata, resa anche con un libro non stupido»; il tema dell’“emarginazione”, per l’esistenza di una selezione addizionale, di un’esclusione che colpiva i cosiddetti “bambini difficili” oppure quelli con difficoltà di altro genere, o motorie o neurologiche. […]
Va ricordato che il mce costituiva in quegli anni – almeno in alcune realtà industriali e urbane – la punta pedagogica di un iceberg della platea sociale. Questa “scuola militante” riuscì non solo a integrarsi con il movimento esterno, ma spesso lo suscitò e l’orientò senza nessuna spocchia specialistica ma in ragione della condivisione dei grandi obiettivi educativi e politici che l’intero movimento andava maturando. È il caso esemplare del gruppo del mce torinese, che all’inizio subì anche una forte repressione ministeriale. Ed è in particolare sulla spinta di quest’azione sociopedagogica che si pervenne alla approvazione della legge 24 settembre 1971, n. 820, d’istituzione della scuola elementare a “tempo pieno” e al successivo d.m. 28 gennaio 1972 della sua regolamentazione. […]
All’assemblea del 1972, svoltasi ad Alba (Cn), l’apporto dei gruppi territoriali venne articolato in filoni diversi e i documenti scaturiti dalle commissioni ripetevano le contraddizioni dell’anno precedente. […]. Alla successiva assemblea di Cesenatico (Fo), nel 1973, emerse da un lato un crescente impegno dei gruppi territoriali per ritrovare quel terreno unitario che sembrava si fosse smarrito. Ma il lavoro assembleare e delle commissioni riproponeva la difficoltà di riconoscersi in una linea politico-pedagogica comune e capace d’indicare obiettivi sociopedagogici e didattici omogenei a tutto il Movimento. […] Intanto nel Paese si sviluppava l’azione unitaria del sindacalismo confederale verso una gestione sociale della scuola, che approdò a un accordo con il governo nel maggio del 1973. Contestualmente accadde che la rai portò nelle case degli italiani il film in quattro puntate Diario di un maestro, tratto da Il maestro di Pietralata, la storia del maestro freinetiano Albino Bernardini e della sua classe in una scuola della borgata romana. L’immagine della “scuola attiva e popolare” usciva così dalla condizione minoritaria e marginale per diventare immagine popolare ed esempio educativo proposto dalla tv di Stato. Se i libri di Ciari e Lodi, con la loro diffusione, avevano dato dignità pedagogica al lavoro silenzioso di tanti maestri e maestre freinetiani, la serie televisiva aveva mostrato agli occhi degli italiani un altro modo di intendere e gestire il rapporto educativo dentro la scuola, rompendo l’immagine universale del docente in cattedra sistemato sulla pedana di fronte ai banchi rigidi e allineati. Si apriva quindi una nuova stagione per l’immagine della scuola e della cultura scolastica.
Annota nel 1970 sempre il giornalista Rodari:
Nella mia classe – dice una brava maestra – se c’è qualcosa che non va, facciamo l’assemblea e ne parliamo. Ci facciamo insieme delle regole, delle leggi, e le rispettiamo. I ragazzi obbediscono volentieri alle leggi che capiscono, che essi stessi hanno suggerito […] Per me – dice un giovane insegnante della prima media – lo studente migliore è quello che dà il meglio che può, aiuta gli altri quanto può, non disturba nessuno ed è contento quando tutti lavorano e sono contenti.
E poi commenta partendo dalle sue visite e interviste:
Quando una classe diventa una comunità, tutto va per il meglio: o almeno non ci sono guai irreparabili, problemi insolubili. Costruire questa comunità tocca, insieme, all’insegnante e ai ragazzi: sono interessati allo stesso modo, alla pari.
Sono gli anni in cui si sviluppa la “critica ideologica e culturale” al libro di testo, indagine avviata innanzitutto da un gruppo di maestri genovesi nel ‘69 e poi allargatasi nell’analisi e nel confronto intorno e contro l’uso del libro di testo (tesi abolizionista e tesi realista). In questo contesto uscì pure l’iniziativa del piccolo editore Luciano Manzuoli – in stretta collaborazione con Mario Lodi (coordinatore) e l’mce – con la collana dei quaderni “Biblioteca di Lavoro”: piccole guide monografiche didatticamente collaudate, tese a valorizzare le capacità espressive e a valorizzare l’azione e la pratica della ricerca didattica e culturale sia da parte degli insegnanti che degli alunni, in esplicita alternativa alla centralità ed esclusività del libro unico di testo (il sussidiario e il libro di lettura di classe). Esperienza che durò alcuni anni, per poi entrare economicamente in crisi con gli anni Ottanta, per la contrazione degli abbonati. [….]
Tratto da La cooperazione educativa per una pedagogia popolare (ed. junior)