Per indagare il concetto di territorio non bastano la chiave urbanistica e l’approccio ecologista. Nel libro Il principio territoriale Alberto Magnaghi suggerisce di mettere al centro il fare territorio degli abitanti: come le società umane con le loro relazioni e le loro scelte politiche ed economiche trasformano un luogo. Un ritorno al territorio come speranza
Spero molto nella generazione dei “senza libro”. Non vorrei essere frainteso. Nessun riferimento ai giovani che non studiano, né all’orgia delle parole che volano con la didattica a distanza senza confronto di prossimità. Anzi. Già prima della cesura da Covid-19, tra noi del Novecento, quelli del romanzo di formazione, e i millennial smanettoni intravedevo tracce di speranza nel loro articolare una nuova grammatica che si faceva linguaggio per portare “il libro della storia” nell’ipermodernità. Che rimanda all’antropocene, al destino squilibrato tra uomo e natura nel nuovo secolo, e al tecnocene, il che rimanda, come sostiene Aldo Schiavone, interrogandosi sull’idea di progresso, all’«equazione tra potenza trasformatrice e suo controllo razionale» e sociale. La soluzione dell’equazione nel vaccino anti pandemia ne è un esempio. E se vogliamo sperare nell’andare oltre, occorre guardare ai luoghi di trasmissione dei saperi e delle competenze, alla scuola, alle università e alle generazioni cui toccherà risolvere l’equazione tra Terra-Tecnica per fare Territorio.
Come inizio della soluzione del problema, consiglio la lettura del libro di Alberto Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri). Dove, lui del Novecento come me, invita i millennial alla conversione ecologica per fare territorio degli abitanti, chiedendosi, a proposito di progresso, se questo avvenga soggiogando la terra o avendone cura per un futuro eco-territorialista. Non è il solito approccio da “ecologista radicale”, ma nel fare territorio degli abitanti, «pone il concetto di terra trasformata in territorio dalle società umane» come costruzione sociale nelle lunghe derive delle co-evoluzioni fra insediamento umano e natura delle molte civilizzazioni, interrogandosi e interrogando su quella che verrà. Raccontando le derive del fordismo e della città-fabbrica con Alquati, il postfordismo dei distretti con Becattini sino alla citta digitale e alle mega city e alle reti di «città stato» di Parag Khanna, Alberto Magnaghi incunea il principio territoriale dentro l’idea di progresso. Auspicando un ritorno al territorio come speranza. Tratteggia un affresco, a proposito di lunghe derive dai muretti a secco del paesaggio della sua Alta Langa agli algoritmi dell’iperspazio digitale e ritorno. Mettendo in mezzo il territorio tra i flussi e i luoghi. Scavando nei conflitti dell’abitare e delle forme del produrre, racconta del volgo disperso contadino inurbato come operaio massa nella città-fabbrica e della coscienza di classe che incontra la «coscienza di luogo». Che definisce
«come la consapevolezza, acquisita attraverso un percorso di trasformazione culturale degli abitanti/produttori, del valore patrimoniale dei beni comuni territoriali materiali e relazionali…».
Non tratteggia un ritorno dolce al territorio. Anzi, partendo dai saperi e dalla fatica del costruire muretti a secco ci par voler dire che ciò non avverrà senza conflitto tra i flussi e i luoghi.
Le quattro mosse che suggerisce sono incuneate tra economia e politica: la sperimentazione a livello regionale nello spazio europeo e regioni-mondo di nuovi patti città-campagna per acqua, cibo, salute, servizi ecosistemici… ipotizzando la bioregione urbana, costruendo aggregati socio-economici tra cittadini-produttori, microimprese, artigianato, banche locali… rafforzando filiere che attivino e valorizzino beni patrimoniali locali come beni comuni, promuovendo scambi nel mondo di tipo cooperativo.
Basta guardare al dibattito tra Europa, Stati e Regioni o leggere del risiko bancario, per capire dove si mettono in mezzo la quattro mosse appena elencate e per leggerne le implicazioni rispetto al Recovery Fund. Sarà destino di una nuova generazione, quella della nuova grammatica, a cui Alberto si rivolge con «le prime voci di un dizionario territorialista», sperando di sollecitare un lavoro collettivo di più ampio respiro. Già in atto da tempo nelle tante esperienze come “I quaderni del territorio”, la Rete del Nuovo Municipio, e da microcosmi territorialisti praticati da quando nel fine secolo prende forma la questione ambientale, accelerata dalla pandemia che ha imposto la faglia tra metropolizzazione-digitalizzazione-territorializzazione. Discontinuità e salti d’epoca raccontati dalla Società dei territorialisti promossa in una rete empatica tra università e ricerca-azione territoriale a cui Magnaghi fa riferimento, auspicando che la proliferazione di «soggettività collettive» trovino condensa «verso l’autogoverno comunitario».
E qui Magnaghi, riprende L’ordine politico delle Comunità di Adriano Olivetti che vede nella «comunità concreta» territoriale il primo livello fondativo dello Stato federale. Un riferimento forte a quell’esperienza politica poco raccontata nei libri del Novecento a cui Olivetti aggiungeva che per raggiungerla, era necessario innervare il territorio con un agire da operatori di comunità. Mi pare un buon punto di incontro nel salto d’epoca con la next generation. Speriamo.
Pubblicato il 15 dicembre 2000 su ilsole24ore.com (con il titolo completo Next generation alla riscoperta dei territori) e su Comune con il consenso dell’autore