Nella caotica e sempre più veloce trasformazione della comunicazione globale, i media locali indipendenti assumono un ruolo tutt’altro che marginale. Un’informazione comunitaria “lenta e a filiera corta” può raccontare i territori meglio di tanto mainstream ed essere un faro per le reti di quartiere, lì dove prende forma la vita di ogni giorno delle persone comuni e dei più fragili
Questo articolo da parte dell’inchiesta Il rammendo dei quartieri
«Non odiare i media, diventa media». Jello Biafra, frontmen della band americana Dead Kennedys, alla fine degli anni Novanta sintetizzò in questo storico verso la scommessa dei media indipendenti nati dall’appropriazione da parte dei movimenti sociali delle nuove opportunità di comunicazione aperte da internet.
La “rete delle reti”, ancora lenta e parzialmente diffusa, aveva offerto ad attivisti e associazioni presenti nelle sale stampa dei grandi vertici internazionali della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale del commercio, la possibilità di raccontare, dal proprio punto di vista, negoziati e decisioni. Storie, analisi, interviste, ma anche istruzioni su come coordinare, dall’interno, nel modo simbolicamente e concretamente più efficace, le proteste che esplodevano in strada.
Il portale Indymedia, che in Italia conobbe in quegli anni una delle esperienze regionali più partecipate ed efficaci, riuscì a offrire letture della globalizzazione diverse ma autorevoli, facendo conoscere a un pubblico più ampio voci di docenti, esperti e scrittori non mainstream: da Noam Chomsky a Amartya Sen, da Susan George a Walden Bello, da Vandana Shiva a Naomi Klein. Indymedia consentiva, per di più, a chiunque si registrasse, con la sicurezza di server indipendenti, la possibilità di produrre e caricare contenuti audiovisivi da ovunque si trovasse nel mondo, anche in forma anonima.
Diventò, così, la prima opportunità nell’epoca digitale, per i portatori di proposte, pratiche, denunce e vertenze anche iperlocali, di presentarsi al mondo e far emergere la propria iniziativa in tempo praticamente reale. Molta stampa e tv internazionale cominciò, così, a “pescare” dai media indipendenti storie e notizie, ma anche conferme o approfondimenti rispetto alle narrazioni ufficiali.
Il ritorno dell’informazione locale
Con l’avvento dei social media, la lente attraverso cui osserviamo il mondo si è sempre più avvicinata al nostro naso: la maggioranza dei contenuti informativi che diffondono sono prodotti da abitanti delle piattaforme non professionali, che si contendono l’attenzione degli altri partecipanti anche a colpi di esagerazioni, titoli a effetto e fake news. Le piattaforme sono proprietà di grandi società digitali che monetizzano e indicizzano i contenuti non secondo trasparenti criteri di qualità o popolarità, ma grazie ad algoritmi e regole in gran parte riservati, perché parte integrante della costruzione della loro ricchezza.
I più giovani, inoltre, come spiegò ormai qualche anno fa l’allora responsabile della direzione “conoscenza e informazione” di Google, per aggiornarsi su quello che succede intorno a loro non interrogano motori e filtri di ricerca, ma si affidano a media prevalentemente visivi come Instagram e TikTok.
Aprono e scrollano, consegnandosi mani e piedi alla profilazione degli algoritmi che tendono a mettere in priorità i video e le informazioni in base alle tendenze, ma anche alla localizzazione di chi si connette.
Le dimensioni territoriale e locale sono, per questo, abbastanza presenti nell’offerta di informazione digitale attuale: attirano click, hanno riportato il centro del newsmaking nella cronaca, spesso anche spicciola e di gossip. Per l’Italia è una sorta di ritorno alle origini.
È la Treccani a ricordarci che il primo giornale italiano stampato è la Gazzetta di Mantova, uscita nel 1664. Il primo quotidiano è il Diario Veneto edito nel 1765 a Venezia, mentre quello più longevo è la Stampa, nato a Torino nel 1797 come Gazzetta Piemontese e ancora solidamente radicato nel capoluogo piemontese. La dimensione social/local, dunque, è solo un nuovo spazio in cui l’informazione può e deve imparare ad espandersi, in un corpo a corpo con le ragioni delle piattaforme.
L’osservatorio di Harvard dedicato alle “Predizioni” sulle tendenze dell’informazione a livello globale, per quanto riguarda il 2024, ha ricondotto a questa dimensione alcune delle novità più significative. Il “Laboratorio Nieman” indica nei media locali la fonte principale d’informazione per oltre l’80% degli statunitensi perché ritenuta più affidabile. In Italia il 74,1% degli italiani non rinuncia a informarsi con i media tradizionali – radio, tv e giornali, anche se oltre l’83% dichiara di farlo sul web, spiega il Censis. Sono circa 3 milioni e 300 mila (il 6,7% del totale) gli individui che hanno rinunciato ad avere un’informazione puntuale su ciò che accade, in gran parte per sfiducia rispetto all’attendibilità di tutte le fonti.
Negli Stati Uniti, come contromisura alla disaffezione, molte realtà filantropiche sostengono in modo permanente media locali storici, emergenti o nuove finestre social, per consentire un “ecosistema informativo sano”, lo definiscono, che alimenta la ricucitura sociale locale e l’attivazione di cittadini e realtà del territorio.
A Roma il podcast Sveja, sostenuto dal programma “Periferia capitale” della Fondazione Charlemagne, con la voce di alcuni dei giovani giornalisti più virali, presenta una rassegna stampa delle notizie più significative della cronaca e della politica cittadina con la chiave dell’innovazione sociale e ambientale. Con il sostegno della Tavola Valdese, Articolo 22 e la casa editrice gli Asini, danno vita a MIP, il Festival di giornalismo di esteri e di comunità “Mondo in periferia”6, anticipato da corsi di giornalismo e tele-radioreporting popolari, per sostenere nuove iniziative di reporting locale.
L’esperienza dei giornali di strada
Un’esperienza storica, solida in Italia, è quella dei cosiddetti “giornali di strada”. Piazza Grande a Bologna è il primo, inizialmente scritto e redatto interamente da persone senza fissa dimora, cui si affiancano, nel corso degli anni Novanta, tra gli altri, Scarp’ de tenis a Milano e Fuori binario a Firenze.
La vendita delle copie, affidata alle stesse persone in difficoltà, consente loro una piccola entrata, ma soprattutto la possibilità di dire la propria e di costruire un legame stabile e potenzialmente risocializzante con le realtà comunitarie che li editano. Tra le loro pagine si trovano storie
minime di resistenza quotidiana, ma anche analisi sui sistemi sociali e amministrativi cittadini e nazionali, letti con una prospettiva dal basso verso l’alto. La loro più recente iniziativa comune, tenutasi a Firenze, ha ragionato sul “giornalismo riditributivo”, per l’autorappresentazione dei più poveri.
La sfida, a confronto con le “realtà alternative”, potenzialmente infinite, accelerate dall’introduzione nell’infosfera dell’intelligenza artificiale, è, a giudizio di chi scrive, quella. dell’informazione “lenta e a filiera corta”: radicata, reattiva e ricostituente. Contro la passivizzazione indotta dalla produzione/fruizione compulsiva e solitaria al cellulare, l’informazione di comunità crea le premesse analitiche, narrative e materiali dell’attivazione sociale.
Con l’usabilità attiva delle “pagine di quartiere”, quelle che ti fanno recuperare la chiave perduta e denunciare violazioni e abusi, ma con quella professionalità e profondità che proteggono lettori e utenti da voyerismo e gogna mediatica stile “diretta dalle favelas”. Una lezione di stile e mestiere che farebbe bene anche a tanto mainstream.
Pubblicato anche su Agenzia Stampa Cult