Le idee di scuola aperta e partecipata e di educazione diffusa, ma anche le esperienze di cura di beni comuni da parte di cittadini e realtà sociali non possono essere più bizzarrie di pochi. Tuttavia, la ricomposizione e il ripensamento della relazione scuola/territorio non nasce per fare in modo che la scuola risponda alle esigenze del territorio: si tratta di creare rapporti di reciprocità per scoprire il valore di bene comune dell’educazione pubblica. Lo spiega Giancarlo Cerini in Atlante delle riforme (im)possibili (edito da tecnodid e di cui pubblichiamo ampi stralci del capitolo dedicato ai patti educativi): un’articolata proposta di venti riforme necessarie alla scuola (autonomia, patti territoriali, educazione civica, tempo pieno, inclusione, valutazione, reclutamento e formazione degli insegnanti…), frutto di una lunga ricerca collettiva, a cui l’autore ha dedicato gli ultimi mesi della sua vita. Scrive, tra l’altro, Cerini: “Quando si costruisce un Patto educativo (tanto più necessario in questi tempi di emergenza e di fragilità) si chiamano in causa non solo gli enti territoriali… Può essere promettente l’idea di affiancare la scuola con una rete di opportunità di approfondimento collocate nelle strutture culturali del territorio (musei, teatri, cineteche, biblioteche, ludoteche, scuole di musica, ecc.) che non si limiterebbero a fornire spazi purchessia per ospitare classi o gruppi di allievi… Non si tratta di delegare ad altri parti significative del curricolo scolastico (potremmo esemplificare anche per le discipline artistiche, musicali, sportive, ecc.), ma di ampliare il cerchio delle esperienze non formali e informali dei ragazzi, riconducendole poi ad una regia educativa della scuola…”
Firenze, 21 novembre: “Abbiamo onorato, celebrato, cantato e raccontato gli alberi dell’Isolotto”, associazione La Città bambina (leggi anche 50 sfumature del verbo aprire)
Qui una pagina speciale dedicata ai Patti educativi territoriali
con diversi esempi di Patti da leggere e scaricare
La scuola italiana ha sempre espresso una vocazione al dialogo sociale, all’inclusione, al rapporto intenso con il territorio, fin dalla stagione della partecipazione espressa nei decreti delegati degli anni ‘70. E forse ancor prima. Basti pensare al tradizionale legame tra la scuola elementare e i Comuni previsto fin dalla legge Casati (1859): sono stati i Comuni ad occuparsi della prima alfabetizzazione dei cittadini della nuova nazione, per almeno i primi 50 di storia unitaria, fino alle leggi che hanno statalizzato la pubblica istruzione (1911 e 1934). […]

La ventata della partecipazione
La scuola italiana è fondamentalmente una scuola dello Stato e il suo sviluppo è avvenuto grazie all’impulso delle amministrazioni pubbliche (si pensi alla nascita ed alla espansione della scuola materna “statale”, a far tempo dal 1968). Ma già nell’impostazione della Carta Costituzionale del 1948 si intravvede l’idea di una istituzione inclusiva (“La scuola è aperta a tutti”, art. 34). Tra gli articoli fanno capolino l’attenzione al ruolo attivo dei territori, la scoperta del concetto di sussidiarietà, il richiamo al protagonismo di Regioni ed Enti locali. La Repubblica non coincide con il solo Stato centrale.
Un passaggio significativo di tipo partecipativo si ebbe negli anni ‘70 del secolo scorso, che investì molte istituzioni, ma in particolare proprio la scuola, con la nascita degli organi collegiali, la spinta alla partecipazione sociale, l’idea di una educazione non racchiusa solo all’interno delle aule scolastiche. La scuola viene vissuta (anche nelle affermazioni giuridiche) come una comunità che “interagisce” con la più ampia comunità sociale (DPR 416/1974). […]
La bandiera pedagogica del territorio
La storia della nostra scuola ci ricorda però che molte innovazioni pedagogiche sono sorte attraverso lo stimolo che i problemi e le condizioni territoriali ponevano al “fare scuola”. Pensiamo, ad esempio, alla nascita delle scuole dell’infanzia (e degli asili nido) o del tempo pieno nella scuola elementare: dietro c’era (e c’è ancora) una forte domanda sociale, in questo caso le esigenze dei genitori impegnati nel lavoro abbinata alla condizione urbana e alla famiglia nucleare. Questi bisogni sono stati filtrati e tradotti in una risposta pedagogica “sensata”, ad esempio dando un valore educativo al tempo scolastico, con la possibilità di differenziare i metodi, di offrire opportunità culturali in contesti deprivati, di contrastare l’insuccesso educativo. Molto spesso ciò è avvenuto quando il pensiero pedagogico si è incontrato con la sensibilità etico‐politica di chi rappresentava “pro‐tempore” le istituzioni del territorio.
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C’è, dunque, un aspetto pedagogico nel richiamo al territorio, che si innesta sull’idea di una educazione “diffusa”, che trae nuove suggestioni dal recupero dei saperi presenti in ogni realtà ambientale (dal suo paesaggio antropico ai beni culturali, dalle imprese produttive al variegato mondo del terzo settore e del volontariato). Non si tratta solo di un mero “arricchimento” o “ampliamento” dell’offerta formativa, ma di un modo diverso di pensare alla conoscenza, valorizzando le dimensioni non formali e informali dell’apprendimento, facendo affiorare i valori culturali presenti in ogni territorio, proprio attraverso l’azione di scavo, di recupero e di risistemazione delle competenze che solo la scuola può realizzare.
In questa prospettiva, promuovere le competenze non rimane un superficiale gioco di parole, ma rimanda alla rielaborazione strutturata della conoscenza che la scuola può operare con appropriate metodologie didattiche, ampliando il perimetro della propria azione al di là delle mura delle aule scolastiche. Franco Frabboni, uno dei massimi studiosi del sistema formativo integrato, aveva coniato la metafora delle “aule didattiche decentrate” ove i ragazzi sarebbero venuti a contatto con la “cultura fresca di giornata”. Insomma, si delinea l’immagine di una scuola a chilometro zero. Ora, noi sappiamo che è opportuno anche un doveroso distanziamento dagli stimoli del proprio ambiente, attraverso un “debriefing” necessario per riflettere, concettualizzare, trasferire conoscenze. Ma sappiamo anche che una conoscenza è utile se è guidata (si innesta, è mossa) dai problemi e dall’esperienza diretta del mondo.
Il ritorno di fiamma, con l’autonomia scolastica
Questa idea di una scuola aperta e partecipata sta alla base dei principi dell’autonomia scolastica, non solo per lo scontato omaggio ai “bisogni del territorio” (che potrebbero anche trasformarsi in una trappola) ma per lo “stile” partecipativo che ispira il disegno autonomistico, che investe decisamente la capacità di autogoverno delle organizzazioni scolastiche. “Fare comunità”, uscire dall’individualismo delle singole prestazioni di insegnamento, valorizzare il lavoro collaborativo tra i ragazzi e gli insegnanti (propedeutico al dialogo tra i saperi) rappresenta il modo di essere della scuola dell’autonomia […]. A tal fine il regolamento dell’autonomia (DPR 275/1999) suggerisce la formula delle reti di scuole (come originale modalità di aggregarsi per realizzare insieme obiettivi formativi, gestionali, professionali), ma anche alle altre forme di collaborazione (attraverso convenzioni, consorzi, contratti, ecc.) con enti territoriali, università, enti di ricerca, mondo del lavoro.
Luci ed ombre delle reti di scuola
Potremmo fare un bilancio critico di 20 anni di autonomia, della curvatura prevalentemente competitiva ed autarchica1. Lo stesso fenomeno della rete di scuole va letto nelle sue luci ed ombre, ma è rimasto un movimento marginale nella vita delle scuole, capace di far fronte a qualche progetto innovativo o di formazione, piuttosto che rappresentare la nuova architettura della governance delle scuole. Anche la scelta più recente della legge 107/2015, che ha affiancato alle reti di scopo tipiche dell’autonomia negoziale della scuola autonomia, le reti di ambito come modello organizzativo‐gestionale obbligato, non ha stimolato la crescita della capacità di fare rete, per la preoccupazione dell’amministrazione di ingessare e “controllare” il fenomeno e per i fraintendimenti che ne sono derivati2. […]
Il “talento” di ogni territorio
Spesso quando si ragiona di rapporti con il territorio sembra che la scuola debba assumere una funzione ancillare, di subordinazione a ragioni esterne e strumentali, magari alle leggi del mercato o comunque a quelle dell’apparire. Certo, in alcuni casi, anche certi modi di essere della scuola (pensiamo ai molti progetti, al RAV, al PTOF, ecc.) sembrano quasi diventare “vetrinette” dove ogni scuola espone la propria mercanzia, per attirare una clientela sempre più disorientata. In un rapporto di reciprocità non si tratta solo di rispondere funzionalmente alle “esigenze” del territorio, ma di costruire una vera e propria alleanza per riscoprire insieme (la scuola e la comunità) il valore di bene comune dell’educazione pubblica. […]
Il capitale sociale
Alcune ricerche sulla qualità della vita dei territori3 mettono in evidenza il concetto di capitale sociale che caratterizza ogni contesto, con diversi gradienti di dotazione. Per capitale sociale possiamo intendere quell’insieme di legami, relazioni, scambi, che si basano sulla gratuità, la reciprocità, la fiducia, la sicurezza, e che contribuiscono alla qualità della vita degli abitanti4 di un territorio. Una sorta di benessere sociale, ora messo a punto anche dagli studiosi dell’ISTAT con il concetto di BIL (benessere interno lordo) o BES (benessere equo e sostenibile)5 che rappresenta una risposta a chi misura solo gli aumenti quantitativi della produzione o del consumo. I dati su istruzione e formazione, come quelli su innovazione, ricerca e creatività, sono quelli che possono fare la differenza.
È emblematico che alcuni indicatori di calcolo del “capitale” sociale, mettano in risalto i livelli di cittadinanza attiva (la partecipazione elettorale), l’informazione critica (lettura di giornali e libri), la solidarietà (il numero dei donatori di sangue), la cura della persona (l’attività sportiva non agonistica). È il concetto di gratuità e di reciprocità che qualifica le relazioni tra i membri di una comunità. Ne consegue una stretta corrispondenza tra la qualità sociale della vita (capitale sociale) e i livelli di scolarizzazione. Se un territorio è povero, può condizionare negativamente i risultati degli apprendimenti degli allievi. Una strategia contro la povertà educativa e l’impoverimento culturale richiede di attivare energie locali, protagonismo dal basso, ma anche attirare risorse straordinarie ed interventi strutturali (non sempre la logica dei bandi consente di dare continuità alle iniziative sul territorio).
Comunque, l’intervento istituzionale viene ormai affiancato da numerose iniziative promosse dal sociale, da fondazioni, da organismi del terzo settore. Come non ricordare i programmi della Fondazione “Per i bambini” (sostenuta dal mondo bancario) e di “Save the Children”. In questa ottica, il concetto di patto di comunità va oltre il mero dato giuridico ed istituzionale, perché esprime piuttosto un elemento attrattore di fiducia di tutti i soggetti di un territorio a favore dei beni che possono essere considerati di interesse comune.
E poi vennero i beni comuni
C’è un filone di ricerca abbastanza recente, che viene opportunamente ricordato da Stefano Versari nella nota rivolta, a suo tempo, alle scuole dell’Emilia‐Romagna6, che fa riferimento ad un rinnovato interesse della comunità̀, intesa anche come libera espressione di cittadini organizzati e non, verso determinati beni di proprietà collettiva. Pensiamo ad un parco, ad un bene culturale, una piazza, un centro civico, una biblioteca, l’argine di un fiume, e potremmo anche parlare di una scuola o di un servizio educativo per l’infanzia.
Quante volte ci siamo lamentati della trascuratezza in cui versano luoghi pubblici apparentemente minori, ad esempio un sottopassaggio pedonale, una aiuola, un marciapiede. Però non siamo riusciti ad immaginare la possibilità di una iniziativa concreta, se non a reclamare un necessario intervento della pubblica autorità. Il riferimento ai beni di comunità di cui prendersi cura attraverso l’iniziativa spontanea o guidata di persone, associazioni, gruppi può certamente rappresentare un nuovo modo di ricostruire il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione. In questo caso il pubblico (prendiamo un Comune) regolamenta le modalità in cui i cittadini possono esprimere la loro volontà di apportare un contributo alla manutenzione, alla cura di un bene comune, o all’invenzione stessa di una attività di interesse pubblico7.
È quasi una rivincita della “società civile” che si dimostra all’altezza di occuparsi di interessi non solo “particulari”. La “terza missione” (cioè l’impegnarsi in progetti di forte impatto sociale) è una strategia che l’Università sta perseguendo e sono sempre di più le aziende che perseguono un filone “sociale” di intervento (senza dover ritornare al mitico ricordo di un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti). La stessa tematica della rendicontazione sociale nella scuola, si può ascrivere a questo filone di ricerca8.
Un piano territoriale dell’offerta formativa
Quando si costruisce un Patto educativo (tanto più necessario in questi tempi di emergenza e di fragilità) si chiamano in causa non solo gli enti territoriali, per i bisogni immediati di spazi, arredi, servizi, figure educative, ma si chiede a tutti i soggetti (terzo settore, agenzie culturali, associazionismo e volontariato, beni culturali) di arricchire l’offerta formativa e di offrire occasioni di apprendimento sia all’interno delle aule sia nel territorio.
La scuola ha bisogno di aule didattiche decentrate e non solo di spazi aggiuntivi per l’emergenza “distanziamento”. […] Può essere promettente l’idea di affiancare la scuola con una rete di opportunità di approfondimento collocate nelle strutture culturali del territorio (musei, teatri, cineteche, biblioteche, ludoteche, scuole di musica, ecc.) che non si limiterebbero a fornire spazi purchessia per ospitare classi o gruppi di allievi. Per far fronte a questa esigenza, tanto vale riassettare spazi inutilizzati, funzionalizzare padiglioni ed aree espositive (si cita la Fiera di Bologna), ricorrere al “prestito” del patrimonio a volte sottoutilizzato delle scuole paritarie.
Un esempio: l’educazione civica
Sarebbe utile invece immaginare di completare il curricolo della scuola attingendo direttamente alle sedi e alle fonti depositarie di conoscenza. Ci spieghiamo con un esempio. L’anno scolastico 2020‐2021 è stato caratterizzato dall’introduzione dell’educazione civica trasversale (Legge 92/2019)9. Il rischio è stato quello di ridursi ad una inserzione di 33 ore di insegnamenti nelle normali prassi scolastiche. Ben altro sarebbe invece dirottare gli approfondimenti di educazione civica, secondo i tre assi fondamentali previsti dalle recenti Linee Guida (2020)10, su piste di ricerca extrascolastiche:
- la conoscenza “viva” della Costituzione, attraverso contatti diretti con le istituzioni politiche, le sedi amministrative, le strutture con funzioni pubbliche (forze dell’ordine, aziende sanitarie, ecc.);
- gli approfondimenti sulla Agenda 2030 e lo sviluppo sostenibile, attraverso le tante occasioni di educazione ambientale, ma anche lo studio dei risvolti sociali, economici, giuridici, scientifici e tecnologici della sostenibilità (si pensi alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, vista dietro le quinte);
- la pratica della cittadinanza digitale, con la frequentazione delle sedi dell’informazione, della comunicazione pubblicitaria, della produzione multimediale e digitale, ecc.
Non si tratta di delegare ad altri parti significative del curricolo scolastico (potremmo esemplificare anche per le discipline artistiche, musicali, sportive, ecc.), ma di ampliare il cerchio delle esperienze non formali e informali dei ragazzi, riconducendole poi ad una regia educativa della scuola. […]
Note
1 M. Campione, E. Contu, Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome, Il Mulino, Bologna, 2020.
2 Nota MIUR 7 giugno 2016, n. 2151: Costituzione reti scolastiche di cui all’art. 1, comma 70 e ss. della legge 13 luglio 2015, n. 107. Vedi un commento in: L. Paolucci, Scuole in rete nella legge 13 luglio 2015, n. 107 in “Rivista dell’istruzione”, n. 3, maggio‐giugno 2016, Maggioli.
3 R. Cartocci, Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia, Il Mulino, Bologna, 2007
4 Il BES è costituito da un repertorio di 130 indicatori (articolati in 12 domini rilevanti) aggiornato e commentato nel Rapporto annuale BES dell’ISTAT. www.istat.it/files//2019/12/bes/2019.pdf
5 Nota USR Emilia‐Romagna 19 agosto 2020, n. 12920.
6 Nota USR Emilia‐Romagna 19 agosto 2020, n. 12920.
7 G. Arena, C. Iaione, L’Italia dei beni comuni, Carocci editore, Roma, 2012.
8 M. Logozzo, D. Previtali, M.T. Stancarone, La rendicontazione sociale. Come rendere pubblico il valore della scuola, Tecnodid, Napoli, 2019.
9 G. Cerini (a cura di), Competenza è cittadinanza, Maggioli, Rimini, 2019.
10 D.M. 22 giugno 2020, n. 35: Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica.
APPUNTAMENTI: 1 DICEMBRE 2021
Patti Educativi Territoriali e percorsi abilitanti. Un’Indagine Esplorativa