Da Villa Giaquinto a Caserta alla portineria comunitaria di Porta Palazzo a Torino, passando per Parco Buscicchio a Brindisi. Sono ormai circa un migliaio i patti di collaborazione stipulati in duecento comuni italiani tra cittadini e amministrazioni locali. Si tratta di iniziative dal basso che attuano il principio di sussidiarietà in chiave collaborativa e rendono meno retorica la parola partecipazione
Questo articolo fa parte dell’inchiesta Brindisi alla scuola aperta
Parco Buscicchio, Brindisi
“La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto, un’invenzione.
La libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione”
(G. Gaber, 1972)
A Caserta, l’associazione “Comitato per Villa Giaquinto” gestisce uno dei parchi pubblici della città e, attraverso un patto di collaborazione, oltre alla cura del verde e alla manutenzione ordinaria degli spazi, realizza attività culturali coinvolgendo abitanti e associazioni del territorio. A Torino, piazza di Porta Palazzo viene custodita, presidiata e animata grazie a un patto di collaborazione tra il Comune e la portineria “Spaccio Cultura”, uno dei numerosi progetti della Rete di Cultura Popolare. A Brindisi, invece, la cooperativa “Legami di comunità” ha stipulato un patto di collaborazione con il Comune per la gestione partecipata di Parco Buscicchio, un luogo dove lo sport diventa il mezzo per azioni di attivazione della comunità e di inclusione sociale. Sono alcuni dei numerosi esempi di patti di collaborazione che in molte città stanno coinvolgendo più soggetti per mettere dei luoghi simbolici al centro di interventi di rigenerazione urbana e sociale (Sacchetti, Borzaga, 2018).
In Italia i patti di collaborazione sono gli strumenti riconosciuti giuridicamente attraverso i quali è possibile formalizzare l’impegno tra una pubblica amministrazione e un gruppo di abitanti, singoli o associati, per la realizzazione di azioni attorno a beni che, per le caratteristiche e per la valenza simbolica che si attribuisce loro, si configurano come “comuni”. I beni comuni sono quelli che, grazie ai benefici diffusi che le azioni attorno ad essi generano, sono funzionali al miglioramento della qualità della vita dei membri di una comunità, nonché all’esercizio dei diritti fondamentali (Capone, 2019). Per questi beni la funzione sociale della proprietà prevale sui diritti di proprietà pubblica o privata in capo ad essi; al di là dell’appartenenza del bene comune, infatti, attorno ad esso possono essere realizzate attività anche da chi non ne è formalmente proprietario perché si presume che quelle azioni vadano a beneficio della collettività e non solo del singolo.
Attraverso i patti di collaborazione, che possono essere stipulati a seguito dell’adozione da parte dell’ente pubblico del Regolamento per l’amministrazione condivisa, i firmatari hanno la possibilità di concordare e di co-progettare alcuni interventi da realizzare attorno ad un bene comune al quale vengono attribuiti simboli e valori identitari di quella comunità.
I patti di collaborazione sono uno degli strumenti attraverso i quali è possibile attuare azioni di «partecipazione al fare» (Valastro, 2016), ovvero attività che consentono di concretizzare la relazione tra istituzioni pubbliche e abitanti (Allegretti, 2010) in chiave collaborativa attuando il principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 Cost.), poiché offrono la possibilità agli enti pubblici di disporre di un mezzo per supportare le iniziative della società civile che intende prendersi cura di beni la cui funzione d’uso contribuisce ad accrescere il benessere collettivo (Arena, 1997).
A seconda degli obiettivi che intendono perseguire, i patti di collaborazione possono essere “ordinari” o “complessi”. I primi si riferiscono a interventi di modesta entità (ad esempio quelli che hanno come obiettivo la cura di parchi pubblici o la manutenzione del verde delle aiuole) le cui procedure di collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione sono più standardizzate e le attività non richiedono l’impiego di particolari attrezzature e competenze tecniche. I patti “complessi”, invece, vengono stipulati con l’obiettivo di prendersi cura di edifici sotto-utilizzati, inutilizzati o in stato di abbandono. La complessità, in questo caso, rispetto ai patti ordinari, risiede nel potenziale numero di interessi coinvolti e di vincoli (ad esempio di tipo paesaggistico) cui fare riferimento nella realizzazione di attività di diversa natura all’interno di questi immobili (Arena, 2020; Giglioni, 2020).
Oggi, alla luce di quanto emerge dal Rapporto di Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà) del 2020, in Italia sono 199 i Comuni che hanno adottato il Regolamento per l’amministrazione condivisa, con un numero di patti attivati e/o conclusi (entro la metà del 2019) pari a 830, la maggior parte dei quali si concentra nel Nord del Paese, ma si osserva anche un consistente incremento del numero di esperienze di amministrazione condivisa rispetto al passato al Sud (Labsus, 2020).
Grazie ai patti di collaborazione, luoghi significativi per gli abitanti possono diventare oggetto di una trasformazione nella quale gli abitanti stessi percepiscono la possibilità di agire concretamente per co-produrre attività che vadano a beneficio dell’intera comunità. È in questo contesto che si collocano numerose esperienze di riappropriazione da parte della popolazione di luoghi simbolici che diventano teatro di azioni collettive, in alcuni casi di vere e proprie mobilitazioni, affinché si renda visibile la volontà di un gruppo di abitanti che vogliono fare qualcosa insieme nell’interesse anche di coloro che non si attivano e non hanno interesse nel farlo.
La cura di un bene, la gestione inclusiva e co-progettata dei suoi spazi, l’apertura all’azione collettiva da parte di tutti i soggetti interessati, che si concretizza con la stipula del patto di collaborazione, consente un’evoluzione dei processi di mobilitazione sociale e la realizzazione di un «impegno congiunto» (Gilbert, 2009, 1) tra i soggetti di una comunità: quando si stipula il patto di collaborazione, infatti, si dichiara una predisposizione alla comunicazione, al dialogo, al fare insieme tra abitanti e istituzioni pubbliche locali stabilendo anche regole e vincoli a questo impegno. In quel momento la distanza tra due mondi diminuisce drasticamente e diventa relazione, ascolto, non senza conflitto, ma apertura alla co-gestione di beni comuni che diventano teatro di azioni di partecipazione, luoghi del fare dove la democrazia assume una veste concreta e tangibile, dove la Costituzione vive nelle pratiche di coloro che si impegnano nell’interesse generale e per lo sviluppo del proprio territorio (Arena, 2020).
Riferimenti bibliografici
Allegretti U. (2010), Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, in Allegretti U. (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze University Press, Firenze, pp. 5-47.
Arena G. (1997), Introduzione all’amministrazione condivisa, in «Studi parlamentari e di politica costituzionale», 117-118, XXX, pp. 29-65.
Arena G. (2020), I custodi della bellezza. Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e istituzioni, Touring Club Italiano, Milano.
Capone N. (2019), La relazione che abbiamo perso, About A City, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 3 luglio 2019, disponibile qui:
Giglioni F. (2020), Patti complessi, su beni immobili, in Labsus, Rapporto 2019 sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, Roma, p. 42.
Gilbert M. (2009), Il noi collettivo. Impegno congiunto e mondo sociale, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Labsus (2020), Rapporto 2019 sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, Roma.
Sacchetti S., Borzaga C. (2018), “Social Regeneration and Cooperative Institutions”, in Sacchetti, S., Christoforou, A., Mosca, M. (eds.), Social Regeneration and Local Development. Cooperation, Social Economy, and Public Participation, Routledge, London and New York, pp. 21-43.
Valastro A. (2016), “La democrazia partecipativa alla prova dei territori: il ruolo delle amministrazioni locali nell’epoca delle fragilità”, in Valasro A.(a cura di) Le regole locali della democrazia partecipativa. Tendenze e prospettive dei regolamenti comunali, Jovene Editore, Napoli, pp. 3-66.
Cristina Burini, dottoranda in Legalità, Culture politiche e Democrazia presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia, collabora con l’istituto Euricse di Trento nell’area di ricerca sullo sviluppo locale.