Il legame tra scuola e logiche del mercato è sempre più forte ed evidente, ma in realtà anche gli spazi dell’educazione informale sono ormai assediati. Tuttavia ovunque educatori, educatrici e comunità educanti non solo si interrogano su cosa significa educare in questo tempo di smarrimento, ma cercano anche di camminare su strade diverse. “Crediamo che occorra andare alle radici del problema, uscendo dalla società della crescita e costruire un mondo della decrescita – scrivono Simone Lanza e Luca Lazzarato sull’ultimo numero di Quaderni della decrescita – Stiamo preparando il domani, stiamo nutrendo la speranza nei tempi bui, nella consapevolezza che il neoliberismo non è la fine della storia e che ci siano alternative. Stiamo nutrendo la speranza, che si basa anche sulla costruzione e condizione del senso critico…”

Viviamo in un periodo buio, in cui l’incertezza verso il futuro si mescola a una sensazione diffusa di smarrimento dei valori. Educare, in questo contesto di apparente deserto valoriale, diventa un compito sempre più arduo. Come si può trasmettere speranza e fiducia in un domani migliore, quando i segnali indicano direzioni preoccupanti? Oggi, i valori dominanti sembrano ridotti a interesse individuale e supremazia del denaro.
La politica attuale, in Italia come nel resto del pianeta, è sempre più allineata agli interessi della finanza internazionale, tralasciando ogni ideale di solidarietà sociale. Da una parte, troviamo una corrente nazionalista che spesso richiama, in modo esplicito o implicito, simboli e retoriche autoritarie e nazional popolari strumentalizzando anche concetti che da un punto di vista educativo hanno un valore profondo: radici, identità, comunità. Dall’altra, una versione neoliberista globalista, formalmente multiculturale, ma nella mera logica di consumo “alla Benetton” perché per quanto riguarda le politiche migratorie è sostanzialmente votata a difendere i paesi benestanti con mezzi quasi esclusivamente militari (difesi con il gergo dell’ideologia della sicurezza). In ambito economico entrambi gli schieramenti politici sono meri esecutori di politiche “bancarie”, per riprendere il termine di diversamente usato da Freire, in una logica finanziaria, che continua a togliere ai molti per arricchire pochi, aumentando le differenze economiche tra pochi super-ricchi e fasce della popolazione immiserite che vivono ai margini, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.
Con la repressione dei movimenti sociali, che storicamente avevano bilanciato le dinamiche capitalistiche, costringendo le classi abbienti quanto meno a fare compromessi e condividere le risorse in una logica di Welfare, lo spazio di azione dell’attivismo politico oggi sembra ridursi a meri gesti simbolici. In particolare, negli ultimi vent’anni, dopo la svolta repressiva bipartisan di Genova 2001, l’attivismo viene sempre più criminalizzato, vedi da ultimo il DDL 6160. Queste misure hanno un carattere sicuramente “educante” con l’obiettivo intimidatorio di colpirne uno per educarne cento: tramite l’inasprimento delle pene per reati di violenza durante manifestazioni pubbliche e misure contro il blocco stradale, colpendo movimenti ambientalisti o di protesta civica e introducendo persino il reato di resistenza passiva pacifista. Il dissenso stesso è criminalizzato e l’estrema destra sta puntando a criminalizzare anche l’espressione verbale del dissenso con il reato di opinione, impensabile poco tempo fa. Benché si proclami l’educazione civica nell’agenda scolastica, con i programmi volti a formare “competenze di cittadinanza”, in pratica stiamo assistendo per lo più alla repressione delle forme di cittadinanza attiva. Questa dimensione educante repressiva è il contrario di ciò che auspichiamo con l’educazione, quale processo avente il fine di promuovere libertà, autonomia, capacità di scelta e la piena espressione della persona e delle sue capacità, come singolo e in quanto parte di un tutto sociale, al quale è chiamata a partecipare attivamente.
É su questo asse nazionalista solo formalmente localista, che si muove un ampio ed eterogeneo fronte, che include leader come Giorgia Meloni (Italia), Marine Le Pen (Francia), Viktor Orbán (Ungheria), Recep Tayyip Erdoğan (Turchia), Donald Trump (Stati Uniti), Narendra Damodardas Modi (India), Jair Bolsonaro (Brasile) e Javier Milei (Argentina). Un fronte anch’esso neoliberista, ma più propenso a una educazione esplicitamente razzista, fascista, misogina, che fa leva su valori tradizionali ma che promuove comunque le politiche economiche neoliberiste.
Tuttavia già nei decenni che hanno preceduto l’ascesa degli attuali governi di destra (o affini) si assisteva a quel fenomeno che Edgar Morin definisce “crisi cognitiva” cioè una incapacità culturale delle élite al potere di comprendere le cose nella loro complessità a causa di quel «nostro modo di conoscenza parcellizzato che produce ignoranze globali» (Morin 2011, p.133).
L’ideologia e l’organizzazione sociale neoliberista, come ha spiegato mirabilmente David Harvey (Breve storia del neoliberismo) ha radici antiche e spesso ha avuto tra i suoi fautori personalità di sinistra con la retorica delle “riforme”. Questa ideologia ha implicazioni educanti forti: la prima l’idea insegnata e inculcata con ogni mezzo è che “non ci sono alternative” (TINA). La forma globalista e quella nazionalista sono apparenti alternative. Il passaggio da un sistema educativo incentrato sulla formazione del cittadino a uno basato su logiche di mercato segna una frattura epocale, iniziata simbolicamente nel 1989, ma nei fatti con Augusto Pinochet (1973-1990), poi con Margaret Thatcher (1979-1990) e infine con Ronald Reagan (1981-1989) il cui obiettivo dichiarato era di distruggere non solo socialismo e Welfare State ma proprio la società: “non esiste la società”. I due secoli rivoluzionari (1789-1989) sembrano essere oggi alle spalle e la classe borghese e quella proletaria, che benché in una logica patriarcale auspicavano l’uguaglianza sociale, sembrano avere lasciato il posto a un dominio dell’aristocrazia finanziaria globale, la cui caratteristica antropologica nuova è che non riconosce antagonisti, pretendendo tutta la ricchezza comune senza limiti. Uno degli elementi che caratterizza questa antropologia neoliberista è il concepire l’essere umano esclusivamente come consumatore individuale privo di relazioni sociali. Ogni elemento sociale è visto come impedimento della realizzazione della libertà individuale, dove la libertà è solo quella di scegliere il tipo di consumo. È da questa antropologia che discendono le pratiche educanti e poco educative.
Lasciato alle spalle lo stato sociale, la scuola, un tempo luogo di crescita collettiva e sviluppo di una coscienza sociale, è stata ridimensionata, diventando un campo di lotta ideologica anziché il luogo di formazione ai valori comuni e trasformata infine in fucina di competenze funzionali al mercato. Con il termine competenza si intende infatti una sorta di software che una supposta mente macchina dovrebbe scaricare e aggiornare per fronteggiare il mercato del lavoro all life long. Le riforme, apparentemente volte a modernizzare il sistema scolastico in termini di autonomia locale, hanno favorito una competitività a tutti i livelli, in primo luogo per le risorse economiche elargite non più da uno stato centrale sulla base dei bisogni reali ma di finanziamenti (pubblici e privati) in base alla rendicontazione economica e alle capacità di “progettare”. Inoltre la digitalizzazione senza freni, promuovendo acriticamente l’uso di tecnologie informatiche, lungi dal favorire una didattica inclusiva, sembra solo alimentare l’alienazione e l’isolamento delle nuove generazioni. La logica delle “competenze” tecniche ha progressivamente sostituito i percorsi formativi che miravano a educare cittadini consapevoli e partecipi della vita democratica.
Il piano delle “competenze” non rappresenta solo un cambiamento terminologico, ma introduce un’educazione orientata dall’economia in un’ottica di efficienza, di risultati attesi, di “meriti”, che svaluta la cultura come strumento di emancipazione e crescita personale, privilegiando solo la formazione di skills utili all’individuo spendibili cioè al Mercato. Il percorso scolastico diventa un percorso aziendale costituito da subito da debiti, crediti e portfolio. In questa visione, gli studenti sono ridotti a “clienti” o “risorse umane” da “ottimizzare” in vista del Mercato quale unico Fine della propria esistenza, piuttosto che giovani cittadini da educare nel senso critico e nella responsabilità sociale. Su questo Boarelli (L’ideologia del merito) ha compendiato brillantemente la realtà scolastica odierna come frutto del progetto egemonico neoliberista. Di fatto, ciò significa formare individui in grado di adattarsi a un mondo già plasmato dalle esigenze di un’economia globalizzata, piuttosto che educare futuri adulti capaci di plasmare essi stessi la società, di darsi leggi, di affrontare le catastrofi ecologiche che questo feroce capitalismo sta generando.
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Negli ultimi trent’anni, molte delle forze politiche un tempo associate a ideali progressisti hanno contribuito alla “riforma” della scuola secondo un orientamento neoliberista dove l’autonomia è servita solo a insegnare ovunque la positività della competizione. Quell’autonomia scolastica nata con l’intento di favorire un radicamento nei territori, nel far sì che la scuola diventasse un nodo cruciale di una rete ampia e radicata in una dimensione di comunità educante, si è concretizzata in ben altro modo ampliando le disuguaglianze territoriali. Le riforme hanno trasformato l’educazione dalla formazione del cittadino e della cittadina alla formazione del consumatore/trice, riducendo il ruolo della scuola pubblica e favorendo scuole paritarie e private, per le classi sociali più abbienti. In effetti il neoliberismo non è mai stato una pratica di riduzione del potere dello stato verso il cittadino, come pur esso si presenta ideologicamente, ma al contrario l’appropriazione dei beni comuni a fini privati e il dirottamento dei flussi di denaro pubblico verso strutture private, a partire dagli armamenti, ma senza affatto disdegnare le scuole private. La spesa pubblica per la scuola in questi ultimi trent’anni non è diminuita ma è stata riconfigurata nella divisione tra pubblico e privato: sempre più risorse in tutto il mondo vengono date dagli stati alle scuole private perché l’obiettivo è da tempo quello di creare un enorme Mercato dell’Istruzione. L’aziendalizzazione di tutte le istituzioni pubbliche del welfare è funzionale, in campo scolastico, non solo a economizzare ogni aspetto didattico anche minuto (come l’esame) o esistenziale (il Denaro come valore supremo, il Mercato come fine dell’istruzione) ma soprattutto a rendere omogenei e confrontabili, cioè oggetti di scambi commerciali, le università e le scuole superiori per metterle sul Mercato. Prima si abbandonano e degradano le strutture pubbliche fino a renderle inefficienti, poi le si accusa di inefficienza per svenderle.
Se alla sinistra neoliberista spetta il compito di riformare, alla destra neoliberista spetta quello di distruggere. A livello più profondo, le idee della frangia nazionalista di chi è salito al potere non celano una tendenza a recuperare il concetto gramsciano di egemonia: in vari paesi, come in Italia, l’educazione civica si sta trasformando in un’esaltazione della nazione e della tradizione: “la conoscenza dell’Inno e della Bandiera nazionale, come forme di appartenenza ad una Nazione” spiega il documento delle Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica del MIM (2024). Il medesimo Ministro sostiene che «l’incremento di fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da un’immigrazione illegale» (18/11/2024). Milioni di bambini/e crescono per anni in Italia con questa stigmate istituzionale, con l’obbligo di cantare davanti alla bandiera ma senza avere alcuna garanzia di avere la cittadinanza italiana. Proprio quelle discriminazioni che un’educazione civica propriamente intesa dovrebbe identificare e decostruire, per poi debellarle. In ogni caso sia per i progressisti liberal democratici sia per i fascisti si tratta di rimuovere la storia, la filosofia e la letteratura come strumento di comprensione critica del presente, rimuovere le materie umanistiche a scuola per promuovere maggiormente l’economia aziendale fin dalla scuola primaria dove alla fine dei cinque anni, da direttiva europea, è richiesta una valutazione delle “capacità imprenditoriali”. L’articolo 3 della Costituzione sembra dimenticato: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. É compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. la Costituzione nelle medesime Linee guida è così compendiata: «la scuola costituzionale [sic!] è quella che stimola e valorizza ogni talento”.
Oltre al piano formale e istituzionale, l’educazione si pratica anche nell’informalità dove mercato e media stanno però occupando un posto sempre maggiore. In particolare attraverso la digitalizzazione e il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, il “tempo schermo” si sta sostituendo al tempo di gioco libero, al tempo di sonno, al tempo all’aria aperta, al tempo di lettura, al tempo di sonno. Esso sta rapidamente trasformando le capacità attentive, linguistiche e mnemoniche dei bambini per renderle funzionali a ricordare quanti più loghi possibili trasformandoli in consumatori compulsivi anziché esseri umani riflessivi. Sul piano dell’educazione informale siamo di fronte a una vera e propria deregulation educativa, che anticipa pedagogicamente ciò che rivendica il programma politico planetario neoliberista ovvero la Deregulation economica, l’abolizione di ogni regola che non sia quella del libero commercio su scala globale: distruggere ogni comunità umana per lasciare spazio solo alle pulsioni degli individui, alle loro passioni più nascoste e triviali, all’egoismo. Come afferma Ranema. «La nuova economia produttivistica ha inventato due miti, la scarsità e l’abbondanza, per mobilitare ricchi e poveri in un’avventura senza precedenti: la creazione di una società in cui più nessuno avesse a conoscere dei bisogni insoddisfatti» (Ranema 2005, p.131).
Il valore del “divertimento” come intuirono già nel secolo scorso alcuni critici dei mass-media è ciò che caratterizza l’educazione informale di oggi: divertirsi è l’obiettivo del consumatore. Neil Postman (1985) ha ben descritto come il gioco collettivo si sia trasformato in divertimento individuale davanti allo schermo. L’educazione informale agisce oggi come laissez faire educativo, che, come l’ideologia neoliberista che lo alimenta, assume sembianze libertarie, e consiste nel trasmettere l’idea che qualunque tipo di regole costituisca un impedimento al libero sviluppo della personalità. Nella letteratura psico-pedagogia come nella pratica educativa è invece evidente quanto il limite sia una risorsa per la crescita umana, specialmente nella fase dell’adolescenza. Al contrario la promessa di una felicità perseguita grazie alla rimozione del limite favorisce la costruzione di un strada privilegiata alla persuasione comunicativa del sistema capitalistico attuale. La pubblicità non solo promuove stili di vita come aveva notato oltre vent’anni fa Naomi Klein, ma promuove dei valori: “l’unica regola è che non ci sono più regole”, recitava una pubblicità di una nota marca automobilistica. Assistiamo quindi al declino di quella che alcuni critici hanno definito la funzione paterna, che in qualsiasi processo psico-educativo e sociale aiuta a favorire il limite come regolatore di quei processi di crescita delle personalità che proiettano verso la vita adulta.
Nella pratica l’educazione informale oggi insegna che esiste solo l’individuo e che le regole non sono un patto sempre rinnovabile di convivenza tra esseri umani in un mondo comune. Questa pedagogia corrente forma a sua volta formatori/trici, insegna agli adulti che le relazioni educative tra esseri umani devono svolgersi come nelle pubblicità, sotto il segno della seduzione, in una modalità definita in modo calzante da Daniel Marcelli come seducazione. Genitori e insegnanti si trovano così sempre all’inseguimento, devono guadagnarsi l’attenzione di bambini/e e adolescenti sul piano seduttivo con un puerocentrismo tanto esasperato quanto sterile perché funzionale solo a crescere piccoli esseri narcisistici.
Già dai primi anni, l’esposizione al tempo schermo, sempre più precoce e prolungato, altera la mente infantile, inducendo abitudini che spesso impediscono lo sviluppo di capacità fondamentali per la vita sociale e la crescita personale, come la capacità relazionale e conflittuale. Di conseguenza, sempre più giovani manifestano difficoltà a concentrarsi, a compiere attività fisiche di base o a interagire con il mondo reale. Molti desiderano solo stare incollati a uno schermo, in attesa di nuove gratificazioni immediate: un nuovo prodotto da ordinare, un contenuto da consumare passivamente. Questa “regolazione educativa” informale oggi egemone, rischia di compromettere le capacità cognitive e relazionali su cui dovrebbe poggiare una società umana, democratica e consapevole. Bambine/i di oggi sono poco propensi a correre, a camminare, a sdraiarsi sui prati, sono spesso incapaci di sedersi per terra, di dormire il giusto; hanno problemi crescenti di concentrazione e di linguaggio; una volta diventati adolescenti vedono sempre meno i coetanei, guardano a età sempre minori film porno, sono sempre più spesso assuefatti da videogiochi e intrappolati nei social network. Ansia, iperattivismo, depressione, autolesionismo, disturbi dell’alimentazione e propensione al suicidio sembrano caratterizzare in ogni parte del mondo i nuovi adolescenti. Il tempo schermo promuove l’alfabetizzazione di massa al consumo, rimuovendo ogni aspetto culturale e di senso, che viene visto come ostacolo al libero sviluppo dell’individuo, ai suoi supposti talenti e alle sue risorse. Il passo verso la disumanizzazione è parallelo alla distruzione ambientale a livello planetario.
A fronte di tutto ciò milioni di educatori ed educatrici nel mondo continuano spesso nell’ombra, nella catacombe ma talvolta anche alla luce del sole a portare avanti ideali di convivialità, ideali di società umane basate ancora sull’idea che fraternità, uguaglianza e libertà siano parole che si addicano alla società umana del futuro, parole d’ordine migliori delle idee di Progresso tecnico e individualismo esasperato finora sbandierate. Milioni di educatori lavorano ancora oggi in associazioni e organizzazioni educando le nuove generazioni con idee di speranza, di giustizia e di pace, auspicando la decrescita, l’uscita dall’economicismo che pervade ogni dimensione sociale o quanto meno da questo folle sistema neoliberista.
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Siamo molti di più di quanti ci vogliano far credere, in Italia, in Europa, nel mondo a credere che l’educazione oggi deve avere ancora dei riferimenti mondiali e universali, non eurocentrici, deve essere umana e non patriarcale, deve tutelare le diversità non conformarle. Con Scholem si potrebbe dire: “L’insegnante deve scegliere all’interno dei fatti storici quanto è più significativo per chiarire il passato ed evidenziarne la forza vitale. (…) forza vitale che io chiamo, appunto, aspetti utopici”. Ogni giorno sappiamo che stiamo educando nel deserto neoliberista, ma che questo sistema non è che un mero incidente della storia, che ci auguriamo sia destinato presto alla scomparsa. Crediamo che occorra andare alle radici del problema, uscendo dalla società della Crescita e costruire un mondo della Decrescita. Stiamo preparando il domani, stiamo nutrendo la speranza nei tempi bui, nella consapevolezza che il neoliberismo non è la fine della storia e che ci siano alternative. Stiamo nutrendo la speranza, che si basa anche sulla costruzione e condizione del senso critico. Si tratta di conservare, nello spazio di oasi nel deserto, la possibilità di pensare nuovi fini, nuovi limiti, nuovi orizzonti di senso, che torneranno molto utili quando, tra non molto tempo, i pochi miliardari di questo pianeta potrebbero andare nuovamente incontro all’esito a cui andò l’aristocrazia francese nel 1789.
Riferimenti bibliografici
Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, Bari-Roma 2019.
David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007.
Daniel Marcelli, Il bambino sovrano. Un nuovo capo in famiglia?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.
Edgar Morin, La via, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011.
Neil Postman, Divertirsi da morire, il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, Roma 2023.
Majid Ranema M., Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005.
Gershom Scholem, Educazione e giudaismo, Morcelliana, Brescia 2007.
Pubblicato su Quaderni della decrescita (n°4 Anno 2, 2025), con il titolo L’educazione nell’era neoliberista verso nuovi fini e nuovi limiti
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