Abbiamo inseguito il progresso ma abbiamo dimenticato di prenderci cura del pianeta e sempre più spesso intravediamo la scritta “game over”. Abbiamo detto che la scuola è importante, ma abbiamo scordato che si apprende con tutto il corpo, non solo con la testa. Abbiamo tirato su grattacieli e inventato auto supertecnologiche, ma abbiamo rinchiuso i bambini e le bambine nelle case e negli edifici scolastici. È tempo di liberare i nostri corpi, è tempo di liberare prima di tutto il gioco: possiamo cominciare dalle “strade scolastiche” o dalle esperienze delle scuole aperte partecipate, dice l’associazione Anita di Roma. Liberare il gioco anche per gli adulti, per imparare a cambiare ed evitare il game over. Scrive Valentina Pescetti dell’associazione Anita, formatrice in metodologie ludopedagogiche: «Dobbiamo soltanto darci il tempo per legittimare l’ozio e delegittimare il negozio… Il punto, o almeno “un” punto fondamentale, è che anche noi adulti dobbiamo giocare. Giocare di più e lavorare di meno, giocare di più e consumare meno… Giocare e sentirci, giocare e stare con gli altri»

Questo articolo fa parte dell’inchiesta
Fammi giocare. La città e il gioco
“La Chiesa dice: Il corpo è una colpa.
La scienza dice: Il corpo è una macchina.
La pubblicità dice: Il corpo è un business.
Il Corpo dice: Io sono una festa”
(“Il corpo”, Eduardo Galeano)
Non so se avete presente il video del dinosauro alle Nazioni Unite Don’t choose extintion. Ci restano meno di sei anni per arrivare a un punto di inquinamento di non ritorno, e come umanità, tra guerre e iper-consumismo, ci stiamo dando da fare per accelerare i tempi della sesta grande estinzione di massa. Le catastrofiche conseguenze dell’imperante sistema di sfruttamento degli esseri umani e della natura si fanno sentire, soprattutto sulla parte di mondo maggiormente impoverita dal colonialismo, vecchio e nuovo, ma anche qui, in “occidente”, nel “primo mondo”, iniziamo a patire le conseguenze. I giovani da anni protestano, in modo serio e competente, ma non vengono ascoltati…
Meno di sei anni… eppure continuiamo a “giocare” a essere immortali, proprio come faceva Willy il Coyote, che si buttava stupidamente nell’abisso ed esplodeva con ordigni sempre più grandi, tanto poi si ricomponeva sempre, e ricominciava la sua caccia allo struzzo irraggiungibile. Anche noi, presi dalle incombenze e dalle passioni quotidiane, ci illudiamo di poter trovare una qualche tecnologia utile ad acchiappare ciò che da secoli ci sfugge: il benessere intelligente. Il problema è che crediamo che il benessere sia assimilabile a qualcosa che corre veloce, come lo struzzo, ma a correre è solo il tempo che ci resta per fermarci, ed è già tardi.
“Giochiamo” a essere immortali, dicevo, “giochiamo” a fare i ricchi, a consumare come se avessimo cinque pianeti, come se fosse tutto nostro, come se si potessero comprare aria e acqua pure, e come se si potessero comprare all’infinito. Come se ci fossero altri adulti, più adulti di noi, capaci di rimediare ai pasticci che combiniamo. Giochiamo a non avere paura. Certo, perché la paura, si sa, tarpa le ali dell’immaginazione, della visione di come tutto, qui, da oggi, può essere diverso.
Un amico mi parla del potere dei neuroni specchio, di come cambierebbero in fretta alcuni comportamenti, se venissero raccontate e fatte vedere storie di buone pratiche, di lentezza, di gentilezza, di vita sobria e felice, senza bisogno di rubar nulla a nessuno, senza bisogno di rubare il futuro ai nostri figli.
I ladri del tempo
Il futuro? In realtà stiamo rubando loro anche il presente. Basta guardarci attorno. Hanno davvero tanto tempo per giocare, per godersi il presente? Voi vedete strade a misura di bambino? Scuole a misura di amicizia? Poco tempo fa ho visto il bellissimo film “Il cerchio”, sulla scuola Di Donato. Ho pianto di commozione, perché narra un raro esempio, una perla vera, di quelle che ci mettono anni a formarsi, e che sembrano dover per forza restare in una dimensione diversa, riservata a pochi. Ma perché? Perché invece non se ne può parlare in prima serata tv, perché non si può trovare il modo di incentivare queste esperienze, di investire in scuole di formazione per fare scuole di vera formazione umana?
Torno al nostro “giocare”, quell’irresponsabile “giocare con la vita” che ci permettiamo con tanta spavalderia noi adulti, noi che, allo stesso tempo, ci vietiamo di “giocare alla vita”. Vorrei soffermarmi su questo, perché credo che qui stia un nodo cruciale.
È vero, i nostri figli non hanno strisce pedonali sicure per cui muoversi da soli in città, per andare a trovare un amico, per andare a giocare. I loro spazi per giocare sono relegati a un piccolo parco giochi che somiglia molto a una gabbia per criceti, dove possono sfogarsi ripetendo all’infinito lo stesso percorso intorno allo scivolo. E noi? Con chi giochiamo noi adulti? Da qualche parte ci sono ancora “Bar sport” in cui si gioca a carte, centri anziani in cui si gioca a bocce, campetti in cui si gioca a calcio (notate che sono attività prevalentemente maschili), ma cosa potrebbe succedere se noi adulti – e adulte – liberassimo le potenzialità del piacere, del divertimento, del benessere, dello scherzo, dell’ironia, del nascondino, del travestimento?
Tempo fa mia figlia è stata male, e io sono andata in crisi: completamente persa, non sapevo più che fare. Poi in ospedale mi hanno ricordato ciò che dicono le hostess prima del decollo dell’aereo: in caso di guai, “ricordatevi di mettere la maschera di ossigeno sul vostro naso prima che su quello dei vostri figli”. L’ho fatto, mi sono dedicata a fare cose che mi restituivano ossigeno, e anche mia figlia ha iniziato a guarire. È così, ne sono convinta: abbiamo bisogno di ossigenarci noi persone adulte per prime. Abbiamo bisogno di più tempo libero, di spazi di incontro, di spazio per il corpo, per la fantasia, per l’immaginazione, per il gioco.
Il diritto al gioco non deve essere indispensabile solo per i bambini e le bambine, ma anche per gli adulti e le adulte. Il problema è che più o meno da quando, a sei anni di età, ci hanno fatto sedere dietro a un banco, siamo stati nutriti con l’insana idea che la conoscenza passi per la testa, attraverso gli occhi e le orecchie, e che solo così si viene presi sul serio. Così abbiamo messo in un cassetto il resto del nostro corpo, il senso del tatto, dell’olfatto, del gusto, della pressione, della propriocezione (i sensi di prossimità con l’altro e con il mondo, in poche parole). È così che abbiamo imparato a confondere l’assunzione di responsabilità con la serietà. Da allora, tutto è diventato pesante, e ci siamo abituati a pensare che le responsabilità ci affaticano. Ad affaticarci inutilmente, in realtà, sono la serietà e la solitudine. Sì, perché spero che almeno ogni persona adulta abbia conosciuto almeno una volta nella vita quella fatica bella che è il far fatica insieme ad almeno un’altra persona, l’amico o la maestra che ti accompagna, o che ti dà la spinta iniziale, o che ti aspetta al traguardo o – anche solo – che ti guarda. La fatica bella di assumersi la responsabilità di risolvere un problema, grande o piccolo, fisico o teorico, purché ci sia almeno uno dei due ingredienti, meglio se entrambi: la compagnia e la leggerezza, ovvero la possibilità di poter sbagliare, provare e riprovare, fino a quando non si risolve la sfida, sentendo che non si è soli.

Giocare per cambiare
Cosa c’entra tutto questo con il “game over”? Greta ci ricorda che siamo sull’orlo del precipizio. Sono tantissimi i ragazzi e le ragazze che protestano, usando modalità comunicative che riescono a rompere il muro del silenzio, ma non quello del consumismo, non quello della falsa serietà, non quello per cui vige, imperante, il negozio. Negozio, la negazione dell’ozio. La negazione del prendersi un tempo per fermarsi, scendere da quel tir che corre all’impazzata verso il precipizio, prendersi il tempo per trovare altri modi per godersi la vita, diversi dalla depredazione di altre terre e altre genti, altri mari e altri esseri viventi.
Attenzione, non dico che il problema sia facilmente risolvibile. Ovviamente serve trovare al più presto energie alternative ai fossili, ma serve anche spostare la bilancia del potere, togliere valore al lavoro che si mangia la vita pur di generare soldi con cui comprare altre vite. Ricordate la frase: “Una risata vi seppellirà”? Ecco, serve re-imparare a divertirsi, anche nel senso etimologico del termine: re-imparare che si può essere diversi da come ci hanno insegnato a essere, da come ci hanno bollato, da come siamo abituati a essere. A volte, nella nostra vita, lo abbiamo imparato facendo un viaggio, in un paese povero, quando per esempio abbiamo misurato le nostre insoddisfazioni con le fatiche del dover sopravvivere, del dover sfamare la propria famiglia, del dover accettare qualsiasi lavoro. Attenzione però, non lo abbiamo imparato dal vedere la miseria; abbiamo capito che possiamo essere diversi, che possiamo e che dovremmo cambiare, quando da queste stesse persone siamo stati accolti e ascoltati, quando ci hanno invitato a ballare, quando hanno riso con noi e, da quel riso, si è illuminato un altro modo – diverso – di stare al mondo, dove il sogno è possibile, dove il sogno non è quello di fare soldi, e nemmeno quello di salire in cima alla piramide.
Il punto – o almeno “un” punto fondamentale – è che anche noi adulti dobbiamo giocare, non solo i bambini e le bambine. Giocare di più e lavorare di meno, giocare di più e consumare meno. Giocare e dare spazio al corpo, alle emozioni, ai sensi. Giocare e sentirci, giocare e stare con gli altri, giocare e recuperare energie, giocare e stare bene, giocare e capire, capire e cambiare il nostro modo di agire, di essere, di stare in questo mondo.

Ludopedagogia
Da quando, nel 2005, ho incontrato la Ludopedagogia, ho facilitato centinaia di spazi e laboratori di gioco, per persone adulte. Nei contesti più diversi: con Imam e donne di comunità isolate, con contadini e sindaci, con polizia e giovani di bande urbane, con studenti universitari ed anziani, con giovani con e senza disabilità, con insegnanti ed educatori professionali. Vi assicuro che anche le persone adulte trovano nel gioco un bisogno essenziale, oltre che una strada per capire, e poi magari per cambiare strada. Dobbiamo soltanto darci il tempo per legittimare l’ozio e delegittimare il negozio.
Il gioco ci permette di sperimentare che si possono affrontare in modo diverso le paure, le imposizioni e le proibizioni sociali, culturali, religiose, amministrative, politiche.
Ernesto de Martino, del resto, ci ha spiegato che il gioco ci permette anche di guarire, a livello comunitario. Sì, bastava che una donna “giocasse” – convinta – a essere morsa da una tarantola e a dover ballare per non morire di lavoro, che tutta la comunità si fermava: il barbiere prendeva il violino, altri imbracciavano strumenti di vita, si formava un capannello di persone attente al problema… la comunità aveva il diritto di fermarsi, di mettere in un angolo, almeno per qualche giorno, i sacrifici e lo sfruttamento.
E noi, non potremmo fare lo stesso?
Perché si continua a pensare che il gioco debba essere lasciato al mondo infantile e – purtroppo – nemmeno qui è considerato sempre di vitale importanza? Quanto spazio c’è per esempio per il gioco libero nella quotidianità della vita di un bambino? Eppure il gioco libero fa bene al corpo, all’anima, alle relazioni. Ci consente di immaginare l’impossibile, di mettere in dubbio le condizioni imposte, di sperimentare che è possibile cambiare gli equilibri, che l’indiano può vincere la battaglia con il cow boy, che un po’ di fango e due foglie possono rappresentare un pranzo succulento, che ci basta una tenda colorata per provare l’ebrezza della felicità.
Mai come ora il mondo ha patito un’ingiustizia redistributiva così grande. Mai come ora è urgente e imprescindibile promuovere un’educazione che permetta di porre domande al sistema, che provi a immaginare e applicare alternative, trovando il modo di poter pretendere e ottenere un cambiamento. Ma non abbiamo tempo di aspettare che i bambini crescano, né è giusto e strategico lasciare sole le varie Grete che ogni tanto riescono a strappare uno spazio nella confusione dei media.
Ecco, se siamo così convinti del potere sanante del gioco, del suo valore essenziale e della sua capacità di far imparare, capire, amare la vita, dì relazionarsi a se stessi e agli altri in modo più attento, perché ci ostiniamo a pensare al gioco come strumento – e diritto – solo per i bambini e le bambine? Perché non può esserlo anche per noi, che siamo cresciuti? Scusate, ma è illogico, anche dal punto di vista pedagogico, pensare e dire che solo loro debbano giocare. È come se io dicessi a mio figlio che ha diritto a leggere un bel libro, e intanto io guardassi una serie tv davanti a lui. I bambini e le bambine vogliono essere presi sul serio, anche e soprattutto quando giocano. E hanno ragione. E noi, cosa gli restituiamo? Dimostriamo loro, con l’esempio, che giocare è una cosa seria? Riteniamo davvero che sia imprescindibile fermarci, per non arrivare al “game over”? Ci crediamo o no che leggere un libro è meglio che seguire strafarci di una serie tv? Ci crediamo o no che prenderci uno spazio per giocare sia essenziale?
Facciamo fatica, vero? Certo, viviamo immersi in un contesto di valori e di pratiche che non ci aiuta, che non ci legittima. Il gioco per noi adulti è consentito solo in spazi e in tempi ristretti: la tombola a Natale, l’assunzione di una diversa identità solo a carnevale, il pallone solo in un campetto da calcio. In realtà poi, non è proprio così, il bisogno di giocare si insinua – per fortuna – nella nostra vita in tanti piccoli modi. Si insinua, appunto, un po’ come un ladro, un ladro che porta via tempo al negozio.

Abbiamo inventato giochi pericolosi
Ecco, in questo contesto, da un po’ di tempo, con l’associazione genitori A.N.I.T.A. Garibaldi di Roma (Associazione Nuove Idee per un Territorio Aperto, nata da un gruppo di genitori della scuola Garibaldi dell’IC Via Ceneda, zona San Giovanni), stiamo provando a legittimare uno spazio di incontro e di gioco, non solo per i piccoli, ma anche per i grandi. Uno spazio in cui ci travestiamo anche noi, uno spazio in cui dipingiamo e scriviamo sui muri anche noi, uno spazio in cui se viene il servizio giardini e taglia la nostra acacia, quella che faceva fiori stupendi che ci consentivano di studiare il volo delle api, prima ci arrabbiamo, poi giochiamo a fare i super eroi, e salviamo almeno il tronco, prima che lo portino via, e lo trasformiamo nel pezzo centrale di un grande percorso di equilibrio, con cui giochiamo tutti.
Abbiamo anche inventato giochi pericolosi, ovviamente, altrimenti dove sta il divertimento? Per esempio ci siamo messi a esplorare i seminterrati della scuola, li abbiamo ripuliti, pitturati, trasformati. Abbiamo dato spazio all’immaginazione, quella sovversiva. Quella per cui 1.800 metri quadrati inutilizzati possono diventare una palestra di cittadinanza, una biblioteca di quartiere, uno spazio in cui ballare, suonare, arrampicarsi, ritrovarsi. Ci hanno detto che non si fa così, che ci vogliono anni per avere i permessi e che probabilmente noi giochiamo troppo e siamo troppo poco seri, e il permesso di giocare là sotto non ce lo daranno mai. Forse, se pagassimo…
Comunque non ci siamo arresi, e ci siamo inventati – anzi, inventate, perché siamo quasi tutte donne – che si può giocare anche in strada, quella davanti a scuola. La burocrazia non aiuta, perché bisogna chiedere il permesso di giocare in strada almeno trenta giorni prima, ma ci siamo riuscite, e da un po’ di tempo facciamo una festa al mese, in strada, per giocare insieme, persone grandi e in crescita, insieme. Abbiamo invitato musicisti, madonnari, giocatori di ruolo professionali, scienziati pazzi, clown dottoresse, zampognari, artiste. Abbiamo invitato il Ludobus, che ha letteralmente riempito la strada di giochi giganti, creativi. Abbiamo fatto danze popolari, abbiamo colorato la strada di sogni, con semplici gessetti.
Per fare questo abbiamo chiuso il traffico, sospeso il parcheggio, liberato la strada per il gioco, per tre ore al mese. Sembra poco, ma per noi è stato vitale. Per alcuni abitanti del quartiere è invece sembrato un affronto terribile, togliere la supremazia dell’auto per tre ore al mese. Figuriamoci avere una strada scolastica! Ecco, chiediamo che la strada della nostra scuola diventi così, chiusa al traffico per sempre. Anche per questo facciamo festa, per sperimentare la differenza che può fare avere una strada ombreggiata e con aria pulita in cui ritrovarsi e giocare. A Londra che ne sono cinquecento. A Roma 17. Nel nostro Municipio, che ha più di trecentomila abitanti, nessuna. Ancora per poco. Siamo risolutamente determinate a continuare a giocare, e non solo nella “nostra” piccola strada. Cosa succederebbe, immaginiamo, se ci trovassimo in tante strade, in tutta Italia, in tutta Europa, per esempio per due giorni intensi e consecutivi di gioco e creatività, nel bel mezzo della settimana lavorativa? I telegiornali riuscirebbero anche in questo caso a non parlare di noi, della possibilità e della necessità di fermarsi, di dare spazio a ciò che conta, alla salute, al benessere, alla comunità, al gioco, all’ozio? Possiamo giocare a svegliare tutti? Possiamo evitare il game over?
Valentina Pescetti, formatrice in metodologie di promozione della partecipazione e in metodologie ludopedagogiche ed esperta in politiche dell’immigrazione e politiche giovanili, è stata cooperante in diversi paesi del sud del mondo. Ha collaborato con ong, associazioni, scuole, centri antiviolenza e amministrazioni locali. Con l’associazione Anita fa parte della rete romana Sap (Scuole Aperte Partecipate). Per Errandonea Edizioni ha curato Eppur si gioca! Scritti scelti di approfondimento per chi vuole usare la ludopedagogia come strategia di costruzione di autonomia e inclusione sociale.