Cronaca di una resistenza che vince rompendo i luoghi comuni dell’ottimizzazione delle risorse e della “tolleranza” tra diversità immobili ed eterne. La Comunidad de Madrid (ex Provincia) aveva proposto di chiudere la sola scuola pubblica di Lavapiés, il quartiere madrileno che da secoli attrae persone provenienti da lontane aree geografiche e con diverse radici culturali, perché la struttura del vecchio edificio non pare adeguata alle attuali necessità. Dalla Moreno Rosales, però, nessuno vuole andarsene, così il quartiere – cioè i molti micro-quartieri che lo compongono – ha detto No e ha riscoperto la scuola, un suo pezzo essenziale e un po’ in ombra. Lo stesso è accaduto agli insegnanti, ai genitori e ai ragazzi che hanno visto con occhi diversi la comunità in cui vivono. Un padre racconta: hanno firmato l’elettricista, l’idraulico… e poi il barbiere, il negozio di frutta secca. La Moreno Rosales è una scuola di prossimità che, nel resistere a un presunto utilizzo razionale delle risorse, aiuta il quartiere a superare i limiti della multiculturalità, l’affermazione statica delle differenze, non solo per convivere in maniera più dinamica, interculturale, ma per cooperare nella soluzione di un problema comune inventando e costruendo una soluzione collettiva. Ognuno ha fatto quel che poteva fare e insieme si salva la scuola e si comincia a cambiare il territorio
Questo articolo da parte dell’inchiesta Il rammendo dei quartieri
“Non spezzateci il cuore”: se nella settimana del 5-6 marzo qualcuno è passato da via Olmo nel quartiere madrileno di Lavapiés, avrà forse potuto leggere questa frase scritta con calligrafia infantile su uno striscione collocato a una finestra del vecchio edificio che ospita la scuola primaria Antonio Moreno Rosales. Di quale storia ci parla questo striscione?
La notizia della chiusura
Venerdì 4 marzo. Agitazione e subbuglio alla Moreno Rosales, l’unica scuola pubblica di Lavapiés. Nell’ultima riunione dei genitori, giorni prima del periodo di iscrizione per il prossimo anno scolastico, la Comunidad di Madrid, attraverso la direzione della scuola, propone come punto di discussione uno “studio di fattibilità del centro”.
Nella riunione si comunica che le strutture della scuola non sono adeguate, si dice che i bambini meritano qualcosa di meglio e si propone la fusione, da settembre, con la scuola Menéndez Pelayo. In realtà, non c’è informazione. Non viene presentato alcuno studio di fattibilità. Non c’è spazio per alcun dibattito. La decisione sembra presa. Quello che si fa è aprire un sondaggio d’opinione in merito alla fusione: “Con il Menéndez Pelayo? E se no, dove?”
La notizia cade come una bomba tra le famiglie presenti (che non sono tutte), ma la reazione è immediata e unanime: nessuno vuole andarsene dal quartiere, tutti voglio rimanere alla Antonio Moreno Rosales. Ristrutturazione sì, chiusura no.
In movimento
Conosco Ana Useros e Gema Sanz da molti anni. So che hanno girato parecchio per trovare una buona scuola per la loro figlia Juana. All’inizio, ne cercavano una più alternativa e che offrisse un’educazione meno tradizionale, dove l’alunno non fosse considerato come un vaso vuoto nel quale versare conoscenza. Alla fine, hanno optato per la Antonio Moreno Rosales: una scuola pubblica, a cinque minuti da casa, con una percentuale molto alta di famiglie di origine straniera. Juana avrà così le stesse opzioni e gli stessi problemi di qualsiasi bambino del suo ambiente.
Entrambe sono decise a lottare per la scuola e, assieme ad altri padri e madri, cominciano immediatamente a muoversi. Il venerdì stesso si dedicano a informare i parenti che non erano a conoscenza della decisione. Alle 12 del mattino, alle 4 del pomeriggio, davanti al cancello della scuola parlano con tutti quelli che possono: ad alcuni non è arrivata la notifica con l’informazione e ci sono anche quelli che non si destreggiano facilmente con il castigliano. Il sabato redigono una petizione su change.org e iniziano a raccogliere firme.
“[Questa decisione] è un grave danno, non solo per le famiglie attuali, ma anche per le centinaia di famiglie che vivranno nel quartiere nei prossimi anni e per il tessuto sociale ed economico di Lavapiés, una zona ad alta densità di popolazione e, in particolare, di popolazione infantile, con scuole già sature (…). L’abbassamento nella qualità di vita per questi bambini e per le famiglie sarà grave (un’ora di cammino a piedi ogni giorno o la necessità di pagare tutti i giorni i mezzi di trasporto) ma, per di più, la chiusura di un centro educativo è una perdita per il quartiere e per l’intera istruzione pubblica (…). La scuola è vita, la vita è quartiere!”.
Nel quartiere si attivano i collegamenti. Vecchi alunni firmano la petizione su change.org e si recano personalmente nella scuola per chiedere cosa possono fare. Gli abitanti prendono i fogli-firma e li distribuiscono. Altre scuole si mettono in contatto con la Antonio Moreno Rosales e si interessano della sua situazione. I numerosi collettivi e associazioni di Lavapiés diffondono e collaborano. La minaccia risveglia ciò che è comune.
Lunedì 7 tutti sono informati della decisione. Le Comisiones Obreras la pubblicano sul loro sito web, così come Madridiario. Si inviano un documento e le firme alla Comunidad di Madrid. Hanno firmato più di 35 gruppi e organizzazioni tra le più diverse: la squadra di calcio i Dragones di Lavapiés, il PSOE Madrid, la Bangladesh Association, le parrocchie del quartiere, ecc. La Comunidad risponde: “Non c’è una comunicazione ufficiale di chiusura”. In effetti, non c’è: ma la fusione comporta la chiusura.
Il modello di scuola di prossimità
L’edificio della scuola Antonio Moreno Rosales è vecchio e ha molti problemi. Forse i bambini potrebbero andare in un’altra scuola con strutture migliori. Cos’è che si perde se si chiude la Moreno? “Innanzitutto, si perdono 200 posti pubblici” mi risponde Ana. “Non ci sono più scuole con posti nella zona. Sono sature”.
Infatti, la Antonio Moreno Rosales è l’unica scuola pubblica del distretto 28012, il triangolo che forma il quartiere Lavapiés. La scuola Emilia Pardo Bazán, la più vicina, fa già parte del distretto Embajadores. “Se si chiude la scuola, ci portano fuori dal quartiere”, ribadisce Ana.
Perdita di posti pubblici nel quartiere. “Questo per cominciare”, continua Gema, “ma non è solo questo. È come se si chiude un negozio di quartiere o un centro medico. Quello che si perde sono tutti gli elementi positivi che il modello delle scuole di prossimità comportano nella vita individuale e collettiva”. E quali sono questi elementi positivi?
Il negozio di quartiere e il centro commerciale
“Una scuola di prossimità deve essere piccola”, spiega Ana. “Non per 1000 persone, ma necessariamente piccola. Ci sono pochi bambini, si conoscono tutti, il direttore e gli educatori conoscono il nome di tutti i bambini e di molti dei loro genitori. Così si crea uno spazio sicuro”.
“Bisogna tener conto che sono bambini piccoli”, prosegue Gema, “hanno 4, 5 o 6 anni. Sono bambini piccoli e hanno bisogno di un ambiente che dia sicurezza e fiducia. Non di arrivare il primo giorno e perdersi in uno spazio con 1000 persone, come se stessero in un centro commerciale”.
Il negozio di quartiere e il centro medico. Il centro commerciale. Immagini di quello che qui è in gioco. La fiducia e la vicinanza, l’ostilità e l’estraneità di uno spazio poco vivibile.
La scuola come rete
La prossimità non implica necessariamente un metodo pedagogico particolare, ma favorisce il rispetto, l’apertura verso l’altro e alcuni legami. Alle 12 del mattino, al cancello della scuola, parlo con altri padri e madri che aspettano l’uscita dei loro bambini. Mohammed, Sevil, Maherun…tutti loro insistono sul fatto che la scuola è “molto familiare”. La scuola dà loro una fiducia che non sanno se potrebbero avere con altre scuole della zona. E’ una scuola che accoglie. La preoccupazione per il benessere fisico dei bambini raggiunge il massimo. Le famiglie che hanno difficoltà a cavarsela -per la lingua, per la cultura- trovano molto sostegno nella scuola: aiuto nelle questioni burocratiche, consigli sui servizi sociali di base, mediazione con le amministrazioni, ecc. La scuola fa un po’ da rete per la gente che è arrivata da poco e che ancora necessita di sostegno.
Una marea di bambini
Una scuola costruisce un mondo, ma può essere un mondo sconosciuto per quelli che non lo vivono da dentro. Nella conversazione, Ana e Gema svelano dimensioni molto belle e preziose di questo mondo e che di sicuro passano inosservate. Per esempio, mi descrivono le scene quotidiane di questo fiume di bambini in cammino verso la scuola, che ogni mattina si forma a Lavapiés. “Nulla di questo è banale: i bambini imparano così a conoscere il quartiere ma anche i genitori. Questo è socializzare. Questo è qualità della vita. Tutto questo si perde se obblighiamo i bambini ad andare a scuola, stipati sui mezzi di trasporto, in un luogo lontano”, afferma Gema.
Mi chiedo se dagli uffici dove si progettano le “politiche strategiche” sull’educazione si accorgono e si fanno carico di cosa significa tagliare tutti questi legami così importanti: tra le famiglie e la scuola vicina, tra la scuola e il quartiere, tra un bambino e il suo miglior amico che all’improvviso vive lontanissimo. “Non ci spezzate il cuore”. Tutte queste dimensioni dell’esperienza quotidiana, vengono guardate e valutate o, viste dall’alto e da lontano, sono dettagli insignificanti? Si ascoltano o si sorvolano i territori della vita sui quali si decide? Il carattere di un’amministrazione dipende interamente da questa sensibilità.
Convivenza tra diversi
Al cancello della scuola parlo con famiglie cinesi, turche, curde, marocchine, bengalesi, ecc. Cosa comporta questa alta percentuale di migrazione? “Ci sono un rispetto e una comprensione enormi”, mi spiega Gema. “Per esempio, la questione del cibo non è affatto irrilevante: costruisce o erode la convivenza tra diversi. Qui [alla Antonio Moreno Rosales] c’è l’opzione di non mangiare maiale. Sarà lo stesso se ci portano in un altro luogo? Molte famiglie se lo chiedono. La convivenza si gioca nei piccoli dettagli, dove veramente si mette alla prova il rispetto. Questa è una scuola dove non chiedono né segnano assenza se non si va a scuola il giorno della festa del Sacrificio”
“Però, non solo questo”, adesso è Ana che parla. “Si parla di ‘migrazione’ come se questo definisse di per sé l’identità di una scuola. Ma ci sono molti aspetti dell’immigrazione. La differenza non è solo nella nazionalità. È anche tra il nuovo arrivato e chi si è già inserito, è tra le diverse classi sociali, tra quelli che hanno già una rete sociale e quelli che iniziano a tesserne una”.
Alla Antonio Moreno sono presenti tutti gli strati sociali e questo costruisce società. A Lavapiés, una scuola in maggioranza spagnola-spagnola, avrebbe un profilo molto più parziale, non solo perché avrebbe un’unica nazionalità, ma perché, attualmente, la maggioranza delle coppie spagnole con figli che vivono in centro hanno un certo livello economico e sociale molto omogeneo. Le famiglie di origine straniera apportano maggiore varietà e quindi, realtà. Tra gli immigrati di Lavapiés, antichi o recenti, c’è di tutto: persone che hanno un’attività commerciale o un negozio e alle quali le cose vanno molto bene, persone che si stanno regolarizzando e in situazione precaria, donne che non lavorano e si occupano della casa, ecc.
Buone notizie?
Proprio il giorno in cui mi fermo a parlare con Ana e Gema, giungono buone notizie. Il direttore della Antonio Moreno Rosales comunica che la campagna a favore del centro ha sensibilizzato l’amministrazione sulla peculiarità e il valore della scuola. Non si chiude. “Abbiamo appreso che non si manda la gente in una scuola al di là di una barriera urbanistica come la stazione di Atocha”, sembra che qualcuno dell’amministrazione abbia detto in questa riunione. In effetti, un chilometro nel quartiere di Lavapiés non è la stessa cosa che un chilometro in un altro quartiere con configurazione spaziale e sociale diversa: sentire queste differenze distingue un’amministrazione che governa ascoltando i territori della vita sui quali decide da un’altra che governa a partire da calcoli esterni e astratti.
Pertanto, le ultime notizie per la Antonio Moreno sono positive: si aprono le iscrizioni, si apre la scuola, verranno effettuati i lavori necessari, però senza chiusura né trasferimento (o, in ogni caso, un trasferimento temporaneo). L’Ayuntamiento [il Municipio ndt], che è stato molto attento in merito al provvedimento e ha sempre guardato a favore della Antonio Moreno Rosales, accetta di finanziare una parte dei lavori. La Comunidad di Madrid è disposta a firmare una convenzione.
Una riscoperta
E adesso? Nel migliore dei casi, se l’amministrazione mantiene la sua parola, si ritorna alla normalità, però si ritorna in maniera diversa. “Tutto questo processo, ha implicato una riscoperta meravigliosa della scuola, una scuola che è mezzo nascosta nel quartiere e da una sfilza di anni, dove hanno studiato già quattro generazioni di vicini” mi dice Ana.
Una riscoperta della scuola anzitutto per le famiglie. “In genere ci siamo mossi con poco tempo da dedicare alla scuola e con la sensazione di non essere molto ascoltati. E questo è stato una bella sferzata di energia”, dice Gema. Per gli stessi insegnanti, la reazione dei genitori è stata una grande e lieta sorpresa.
Gema adesso è presidente dell’AMPA della scuola e mi spiega che con questa “sferzata di energia” hanno pubblicato il primo giornalino informativo (sulla chiusura) e adesso stanno preparando il numero 1. Bisogna diffondere la notizia che la scuola non si chiude, caso mai si fosse diffusa la voce che dice il contrario e la gente non si iscrive. Per il futuro, l’idea è che siano gli stessi padri, madri e bambini a scrivere il giornalino. Dare più voce a padri e madri. Forse fare una radio.
“Questa vicenda è stata anche un’esperienza di quelle che permettono di superare i limiti della multiculturalità [stagnante esistenza delle differenze]. Non è solo un’esperienza di interculturalità [convivenza senza scontri tra diversità], bensì di “co-culturalità”, vale a dire di cooperazione intorno ad un problema comune, creando e contribuendo in vista di una soluzione collettiva. Ognuno ha fatto quello che poteva fare. Tutti erano disponibili.”
Però ha anche comportato una riscoperta della scuola da parte del quartiere e tra la scuola e il quartiere si sono attivate sinergie molto forti. “Tutto il quartiere si è mobilitato” racconta Ana. “Quando qualcuno si riferisce a ‘tutto il quartiere’, di solito si riferisce al suo quartiere: vale a dire alle persone con le quali condivide la sua fascia di età, la sua classe sociale, i suoi gusti culturali ecc. La cosa curiosa di quello che è successo qui è che ogni famiglia diceva ‘tutto il quartiere si è mobilitato’. Ossia: sono stati tutti i diversi quartieri che si sono fatti avanti. Tutti questi piccoli quartieri all’interno del quartiere. Un padre mi dice: ‘ha firmato l’elettricista, l’idraulico, quello dei rottami, tutti quanti’. Una donna mi dice: ‘ci dà il suo sostegno quello del negozio di frutta secca e il barbiere’ o chiunque sia. Nessuno ha chiesto la firma alle medesime persone, ma ognuno parlava di ‘tutto il quartiere’. È stato davvero qualcosa di trasversale e di comune”.
Oggi Ana e Gema stanno festeggiando, ma pensano a star ben attente che la convenzione venga firmata e che si pianifichino i lavori con la partecipazione delle famiglie. Noi passiamo per le scuole, ma le scuole rimangono. La Antonio Moreno Rosales non è una scuola qualunque. Incarna questo modello di insegnamento di prossimità. È possibile, auspicabile e necessario che continui a farlo a lungo.
Grazie a Marta, Miriam y Susana per l’aiuto in questa cronaca.
Articolo pubblicato su El Diario con il titolo El cole es vida y la vida es barrio”: el colegio Antonio Moreno Rosales se queda en Lavapiés e su Comune, per scelta di Marco Calabria, il 24 aprile 2016 (traduzione di Daniela Cavallo). Senza Marco Calabria e Daniela Cavallo, di cui sentiamo tanto la mancanza, Comune e Territori Educativi sarebbero più poveri