Un museo che racconta una storia comunitaria tutt’altro che imbalsamata in un quartiere, il più popoloso di Rio de Janeiro, cresciuto letteralmente sulle acque. Il Complexo da Maré comprende ben sedici favelas e il Museo che racconta la seconda puntata del reportage dalla Rio che resiste di Raúl Zibechi (la prima è qui) non è certo un luogo rivolto solo al passato. Protegge sì la memoria ma alimenta i conflitti, l’autostima, il dialogo tra gli abitanti. È uno degli spazi più importanti del movimento popolare nero brasiliano. Promuove la ricerca, sviluppa attività educative, seminari e laboratori per la produzione di materiale sulla storia delle favelas, ospita archivi e una biblioteca, realizza teatro e una rassegna cinematografica settimanale, attività a cui partecipano centinaia di giovani. Pubblica perfino un giornale. In un territorio completamente militarizzato, che sui giornali della Città Meravigliosa va quasi esclusivamente per il terrore che sviluppa il fuoco incrociato della polizia militare, dei paramilitari e del narco-traffico, non c’è altro modo di resistere: è solo creando e facendo insieme che si difende la vita

Foto: Tra Places Maré
La favela di Timbau, la sola delle sedici che compongono o Complexo da Maré che è situata sulla collina, il Morro, ndt), passa per essere una delle più tranquille della periferia urbana di Rio de Janeiro. La Maré è il maggior gruppo di favelas della Cidade maravilhosa, con oltre 140mila abitanti, una cifra valida a voler restare al censimento del 2010, perché durante la pandemia e la crisi la popolazione potrebbe essere cresciuta in modo significativo.
In questo viaggio ho visto per strada molte più armi che in tutti quelli precedenti. E sono armi più moderne, come i fucili d’assalto Beretta, per esempio. Sembrano star lì a indicare l’esistenza di territori contesi, di vite in pericolo. Nella zona pianeggiante della favela, vicino all’Avenida Brasil, dove in questi anni hanno cominciato a sorgere edifici alti, fino a quattro e cinque piani, si trova il Museo de la Maré, uno degli spazi più importanti del movimento popolare nero e delle favelas.
Il professor Luis, geografo ed ex guida del museo, accoglie un gruppo di 16 giovani e curiosi per fare un tour di un’ora dentro le installazioni. Siamo in qualcosa di completamente diverso da quello che generalmente conosciamo come museo. Situato all’interno di un’antica fabbrica di trasporti marittimi, il museo racconta con immagini e oggetti la storia comunitaria di un quartiere cresciuto, letteralmente, sulle acque.

“Tutto quello che vedi qui è stato costruito con uno sforzo comune”, dice Luis riferendosi ai lavori collettivi che hanno plasmato le favelas che compongono la Maré (marea, in portoghese), perché il quartiere non può essere compreso senza fare riferimento alle acque della baia di Guanabara su cui è cresciuto, con uno sforzo enorme e in assenza delle istituzioni statali.
Il museo è stato creato da un gruppo di giovani che vivono nel quartiere e sono membri del CEASM (Centro Studi e Azioni Solidarietà della Maré), per creare un’auto-rappresentazione della vita nelle favelas, rafforzando un’immagine positiva e l’autostima dei suoi abitanti. È stato inaugurato nel 2006 alla presenza dell’allora Ministro della Cultura Gilberto Gil.
Dispone di dodici moduli che recuperano la storia, indicata scadenzando “tempi”. Il Tempo Da Agua è il primo, composto da fotografie della metà del XX secolo, che mostrano la costruzione collettiva degli spazi, la lotta per l’acqua potabile che portavano da lontano, i dolori della povertà e la crescita esponenziale della città.
Il Tempo da Casa invita a salire su una palafitta dove viene riprodotto l’interno delle casette in legno, con una sola stanza e decine di oggetti donati dagli abitanti, perché il museo è stato creato da loro e per loro, essendo i giovani persone incaricate di prendersene cura.
Si susseguono i tempi della migrazione, della resistenza, del lavoro, della festa, delle fiere, della fede, della vita quotidiana e delle bambine e i bambini. Sempre caratterizzati dagli oggetti forniti dagli abitanti. Un lungo tunnel oscuro inizia il Tempo do Medo, della paura, dove repressione, morte e violenza diventano la nuova e terribile quotidianità della repressione statale. Il percorso si conclude con il Tempo do Futuro, quando il tunnel esce verso la luce del giorno nell’immenso patio centrale del museo.

Spazi di vita comunitaria
Studenti e giovani delle favelas si incontrano in questo spazio per conoscere qualcosa in più sulle proprie radici. Avanzando passo dopo passo con Luis, l’insegnante-guida, abbiamo raggiunto un altro capannone dove con un centinaio di persone abbiamo parlato per un paio d’ore della realtà dell’organizzazione popolare nelle favelas, un tema che desta molta preoccupazione a causa della difficoltà di resistere in mezzo al fuoco incrociato della polizia militare, dei paramilitari o miliziani e del narco-traffico.
La proposta, nelle parole di Luis, afferma che “il museo non è un luogo per conservare oggetti o adorare il passato”. Al contrario, «è un luogo di vita, di conflitti e di dialogo». C’è un dialogo evidente tra il movimento sociale delle favelas e questo museo, un dialogo che alimentano a vicenda.
Perché oltre all’esposizione permanente, il Museo de la Maré svolge attività di ricerca, sviluppa attività educative, seminari e laboratori per la produzione di materiale sulla storia delle favelas. Ospita anche archivi, una biblioteca e realizza una rassegna cinematografica settimanale, attività a cui partecipano centinaia di giovani interessati a recuperare la memoria del popolo nero. Pubblicano anche un giornale, Jornal O Cidadão, e fanno attività teatrali e dibattiti ogni settimana.
Quando l’assemblea si scioglie, Luis ci invita nella sua aula al CEASM, dove chi vuole sostenere l’esame di ammissione all’università può studiare di notte. È stato creato da laureati de la Maré, che cercavano di democratizzare l’accesso all’educazione, una cosa quasi impossibile per le famiglie che non possono contare su un certo sostegno.

Il CEASM è stato creato alla fine degli anni 90. Nella costruzione degli edifici della proprietà, studenti e insegnanti hanno lavorato in forma mutua, riuscendo così non solo a costruire aule e spazi comuni ma anche a imprimere un senso di comunità che conserva ancora.
Una delle attività principali del CEASM è il Corso Pre-universitario o Vestibolare, dove centinaia di persone si preparano all’esame di ammissione all’università, che di solito lascia per strada la stragrande maggioranza della popolazione povera. In 22 anni sono riusciti a far entrare più di 1.500 residenti della Maré nelle università pubbliche dello Stato di Rio de Janeiro.
Memorie costruite dal basso
L’aula è gremita di giovani uomini e donne che vanno dai 18 ai 23 anni. Non è facile creare un clima di dialogo e partecipazione. Abbiamo iniziato cambiando la distribuzione delle sedie, che erano allineate come in chiesa, mettendole in cerchio dopo una breve discussione in cui si è concluso che il formato tradizionale è sia coloniale che patriarcale.
Non è facile neppure far fluire la parola, quando ci sono differenze così evidenti nel colore della pelle, tra quelli di noi che vengono dall’estero e i ragazzi e le ragazze dai capelli scuri della favela. Nel dibattito, che inizia con una domanda provocatoria, assicurano che “tra 20 anni il Brasile starà peggio di adesso”, che le loro vite personali “non miglioreranno neanche se ci sforzeremo” e che la possibilità di studiare è più una questione di dignità e autostima che qualcosa che si basi sui risultati che si sperano di ottenere.

Se osserviamo i processi dal basso, vedremo che dal CEASM al Museo de la Maré, dalla scuola quilombista di Alemao a Roça (microimpresa produttiva collettiva a Timbau), tutti si propongono le stesse cose degli studenti che vogliono entrare all’università: recuperare l’autostima distrutta per secoli dalla schiavitù, dalla repressione e dall’impoverimento. Nel farlo, si recuperano modalità di lavoro come il mutirão, il mutuo soccorso, che è un segno distintivo dei popoli neri e nativi di questo continente.
Ciò che si constata, ogni volta che si torna nelle favelas, è la crescita dell’autostima collettiva che passa attraverso innumerevoli pratiche spesso invisibili o quasi impercettibili agli occhi esterni. Quasi dieci anni fa, la prima volta che Timo mi ha invitato a Timbau, accanto al local della Roça (dove fanno le birre artigianali) c’era un parrucchiere che stirava i capelli. Una lunga fila si era formata un sabato sera in attesa del proprio turno.
Quell’attività ha chiuso già da diversi anni. Adesso i capelli sono di tutti i colori, si portano trecce e capelli ricci al vento, mostrando l’orgoglio di un popolo che a poco a poco sta trasformando i dolori dell’oppressione in una volontà di cambiamento.
versione in spagnolo: Desinformémonos
Traduzione per Comune-info / Territori Educativi: marco calabria