Le premesse, come la vita, cominciano sempre con le madri, le giovani mamme “sociali” del quartiere Spirito Santo. Ma come può accadere, poi, che i genitori di una scuola di Cosenza – e gli abitanti d’un territorio eterogeneo, stimolante proprio perché così ricco di diversità – finiscano per sperimentare la straordinaria crescita di una nuova cultura politica che nega nei fatti un ruolo da “utenti” per assumere quello di cittadini che si sentono parte attiva e consapevole di una dimensione comunitaria a scuola, nel territorio, in città? “Leggera come un miracolo nacque la percezione che si poteva fare qualcosa tutti insieme”, in modo diretto, disinteressato. Il dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo che prende il nome dal quartiere cosentino che richiama il primo dono di ogni esistenza cristiana racconta un percorso laico di azioni comuni e autogovernate che costruisce il presente guardando il futuro. Un percorso che, sfuggendo alla consuetudine nefasta della delega, può rendere perfino più avvincente la lotta alle nuove povertà legate alla qualità della vita urbana e ambientale che i modelli di crescita quantitativa in cui siamo immersi inducono ogni giorno
Questo articolo fa parte dell’inchiesta
La Calabria che non torna alla normalità

All’inizio erano le “mamme sociali”, un gruppo di giovani madri di bambine e bambini frequentanti le scuole primarie del quartiere – storico e popolare – dello Spirito Santo a Cosenza, che per congiunture astrali e soprattutto per occasioni e strumenti forniti dalla scuola (albo dei volontari, festeggiamenti scolastici, continue interlocuzioni anche informali sull’andamento didattico ed educativo dei figli, assemblee sui servizi sociali di vicinanza e mancanti) decisero che era cosa buona e giusta essere disponibili al dialogo e migliorare i legami, personali e sociali.
Per loro, poi, era in qualche modo anche una questione di appartenenza: alla scuola, al quartiere, alla città. Leggera come un miracolo nacque la percezione che si poteva fare qualcosa tutti insieme, direttamente e disinteressatamente. L’emergenza COVID, poi, interruppe solo apparentemente il processo (se la presenza era preclusa per via della dittatura sanitaria, la leva partecipativa si tradusse in una splendida campagna – sostenuta dal Coordinamento Educativo di Cosenza – per il reperimento e l’affido di 100 pc ai bimbi delle famiglie più bisognose) ma nel frattempo la nostra scuola era entrata nelle rete delle scuole beneficiarie del progetto “Scuole Aperte e Partecipate”, per cui nuove risorse, nuovo entusiasmo e soprattutto l’arrivo di Ilaria, volontaria del MOVI. Ma andiamo in ordine: l’Istituto Comprensivo “Spirito Santo” si colloca in un territorio vario, spesso disomogeneo, sicuramente stimolante proprio per le profonde diversità che presenta. I nostri plessi ‘abitano’ le tante parti di una città in evoluzione e, insieme ad essa, percorrono la stessa strada. L’Istituto si snoda tra città vecchia e città nuova, quindi su un’area urbana e geografica estesa e differentemente stratificata dal punto di vista socio-economico.
I plessi sono ubicati in gran parte nel centro storico della città (quartieri Spirito Santo, Massa, Portapiana, Casali, a forte rischio devianza criminale) dove, nella migliore tradizione della composizione sociale meridionale, vi convivono straordinarie ricchezze e relitti architettonici provenienti da altre epoche e ora felicemente sedi di istituzioni culturali della città (il palazzo dei Vicerè ora Galleria Nazionale d’arte, l’ex convento agostiniano ora museo civico dei Bretti e degli Enotri, la cinquecentesca Accademia Cosentina, il Teatro di tradizione Rendano, la Biblioteca Nazionale, e poi il Museo del Fumetto, quello diocesano, l’emittente comunitaria Radio Ciroma e moltissimo altro) e collegi, case famiglia, istituti religiosi di accoglienza da cui provengono una parte degli alunni frequentanti.

La scuola interviene, perciò, oltre che da un punto di vista educativo e pedagogico, anche da un punto di vista culturale e di presidio democratico territoriale. L’IC, è evidente, agisce in un contesto sociale quanto mai variegato che, negli ultimi anni, ha anche registrato un aumento della popolazione straniera: cinesi, rom, albanesi, romeni, filippini, ucraini, fanno parte della nostra colorata popolazione scolastica. Con alle spalle una tradizione, e una reputazione, di scuola attenta oltre che ai bisogni formativi degli alunni anche agli interventi tipici di “scuola democratica e popolare”, il Collegio dei docenti nel corso di questi due ultimi anni ha più volte riflettuto e segnalato alla città le fragilità e le inadeguatezze del sistema sia scolastico che di welfare cittadino che l’emergenza sanitaria ha solamente reso esplicito insieme alla drammatica assenza di una rete scuola-famiglia-territorio che dovrebbe esistere a prescindere in modo strutturato e permanente, per garantire una presa in carico globale di qualsiasi difficoltà legata al processo di insegnamento-apprendimento-cittadinanza. Ed ha anche svelato le nostre, di inadeguatezze: tutti gli sforzi e i tentativi – di innovazione didattica, metodologica, relazionale – per così dire “interni” alla scuola, derivanti dalle scelte organizzative, strategiche, e soprattutto politiche del collegio dei docenti, venivano neutralizzati, inficiati, dalla mancanza della loro implementazione educativa e socio-affettiva all’interno della scuola e oltre l’orario scolastico, e del territorio intorno ad essa.
La scuola, le scuole, da sola non può far fronte a tutti i bisogni e nemmeno si tratta di “fare progetti” e salvarsi l’anima: è la partecipazione, la messa in discussione di sé e dell’istituzione, la scelta politica, che rianima e produce significati. Così come scelta politica è stata aver continuato durante la pandemia a tenere fisicamente aperta la scuola, con i suoi riti e le sue opportunità; aver tenacemente continuato ad offrire al quartiere e ai bambini momenti comuni di socialità e felicità pubblica. Aver poi deciso di promuovere l’aspetto politico del “fare scuola” ha favorito un clima di fiducia e di riconoscimento reciproco con la comunità e ha promosso un ambiente di corresponsabilità grazie al quale genitori degli alunni e abitanti del quartiere dal ruolo di utenti (al cui destino sembra vogliano indirizzarli i solerti funzionari del nostro ministero) hanno sperimentato per la prima volta, per poco e forse ancora in maniera insoddisfacente, quello di cittadini attivi e consapevoli: se non fosse troppo direi, alla maniera del Barbuto, “individui sociali”. In un quartiere come il nostro c’era bisogno di dare risposta a bisogni individuali (sostegno, valorizzazione, identità, socialità) e a bisogni sociali (spazi, cura, difesa di interessi).

La ricerca di un equilibrio fra questi poli (particolarismo e universalismo, bisogni personali e bisogni di tutti) portata avanti da Ilaria (dalle associazioni) e dalla scuola è stata la chiave di volta che ha obbligato tutti, compresi noi, a mettere a confronto le diverse visioni del mondo e ad assumersi la responsabilità delle scelte individuali e di gruppo, arrivando a produrre benessere comune, a liberare creatività, a dare senso alle azioni. In una parola: a produrre ricchezza ed eccedenza. Aver semplicemente aperto le porte della palestra alle mamme e alle donne del quartiere per un corso di autodifesa personale (e con l’occasione discutere e interrogarsi su violenza di genere e pari opportunità) è bastato per verificare quanto, muovendo da una prospettiva di relazione (abbiamo fatto riunioni anche nel bar del quartiere, davanti una gassosa al caffè), si possano contrastare i processi di anomia del vivere e aprire le porte alle azioni comuni e dirette, le uniche significative e anche divertenti. In questo senso determinante, per i risultati e per la differenza rispetto al periodo pre-pandemia, quello delle “mamme sociali” di cui all’inizio per intenderci, è stato il sovrapporsi al senso di appartenenza e di identità già presenti, l’azione e la spinta intenzionale sostenuta da Ilaria e dal MOVI che ha permesso, attraverso azioni sociali e collettive lo svilupparsi del senso dei legami fra le persone, attingendo alle feconde falde del riconoscimento, della connessione e dell’autorganizzazione. Come direbbe Gianluca Cantisani, da scuola con esperienza di cittadinanza tentiamo di diventare una “Scuola Aperta e Partecipata” tanto da poter dire che certamente siamo migliorati, sono migliorate le persone che hanno partecipato e anche quelle che ancora non lo fanno perché il processo è stato riconosciuto dalla comunità e perché è partito dai problemi e dalle condizioni reali di vita dentro un contesto noto (il quartiere, la scuola) ai residenti. Aprire la palestra, renderla accogliente, svolgervi attività con persone responsabili, è diventato chiaro a tutti, può risolvere o almeno affrontare i problemi, ed è plasticamente un collegamento, una scelta condivisa, una possibile soluzione, comunque un’opzione concreta e riconosciuta: tanti hanno capito che superando il proprio egoismo si ottengono risultati che migliorano la vita collettiva. O almeno è un tentativo e c’è una speranza. Così è nato il “martedì in palestra” fino alle 20 per un corso di autodifesa preceduto da caffè nel giardino di scuola con altre mamme durante il quale si è potuto incontrare le attiviste del Centro Antiviolenza e anche qualche docente dei loro figli che aveva saputo cogliere l’opportunità. Così è nata l’idea di fare una passeggiata con oltre 100 bambini nei vicoli del quartiere, e insieme scoprire che no, Cosenza Vecchia (dove abitiamo) non è brutta come ci hanno fatto credere, ma è bella, bellissima, per tutto quello che ha o che c’è. Ed è tanto. Così abbiamo deciso di andare tutti insieme alla Marcia della Pace Perugia-Assisi, per sentire parole diverse e a osservare paesaggi sconosciuti.
Cosa abbiamo imparato, cosa abbiamo guadagnato come scuola? Che c’è bisogno di un approccio culturale, cioè la scoperta che la potenza dei cittadini e delle famiglie (la loro partecipazione diretta) può dare luogo ad istituzioni non formali ma riconosciute dal quartiere e dalla città; che attraverso un approccio politico (ancora la partecipazione diretta intesa come azione comune) impariamo a non delegare più. Che con questi approcci a guadagnarci è la formazione dei bambini, poiché la scuola, tutta intera, diventa luogo comune e vivibile dove si possano costruire relazioni, fare ricerca, riflettere e imparare e, soprattutto, stare bene, generando equilibrio e interrelazioni tra insegnanti e bambini, bambini e famiglie, famiglie e insegnanti, associazioni, cittadini e scuola.

L’esperienza di “scuole aperte e partecipate” , mantenendo il suo carattere di insieme di azioni comuni e autogovernate, può diventare un significativo contributo alla lotta alle nuove povertà, quelle legate alla qualità della vita urbana e ambientale che i modelli di crescita quantitativa nei quali siamo immersi inducono quotidianamente. I nostri buoni propositi sono indirizzati non solo alla continuazione di un’esperienza che ha già prodotto un’eccedenza di ricchezza sociale ma anche alla messa in campo di strumenti che diano un’effettiva forza ai soggetti che vivono e producono saperi e conoscenze nel territorio. Sarà un programma intenso ma a scuola, nel quartiere e in città abbiamo un multiverso di energie e un universo di attori che già praticano nuove relazioni di cura dell’ambiente e dei beni comuni, nuove forme di comunità, di economia solidale, di ricostruzione dello spazio pubblico, di scuole accoglienti e di qualità. In fondo, come diceva qualcuno, L’utopia del futuro costruisce il presente.
Il professor Massimo Ciglio è dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “Via Roma – Spirito Santo” di Cosenza