
Dieci anni fa moriva Vittorio De Seta e la Feltrinelli pubblicava un capolavoro del cinema, il suo Diario di un maestro. Un cinema necessario, partigiano. Un modello. Vorrei scrivere tre cose su Vittorio De Seta. In un’intervista del 2006 il regista parla di come ha scoperto le classi subalterne e dice che
“è un mito personale, è proprio dovuto alla mia formazione alle mie origini e poi c’è anche il fatto che sono stato prigioniero di guerra due anni dei tedeschi. Io venivo da una famiglia aristocratica quindi non sapevo niente del popolo, come si diceva allora. In prigionia ci hanno messo insieme ai soldati, noi eravamo allievi ufficiali. E così ho conosciuto, che ne so.., i pescatori, i contadini, del nord e del sud. È stata un’esperienza decisiva. Ho contratto un debito di gratitudine. Così quando ho fatto i documentari mi sono occupato di loro”*.
Non credo sia una dichiarazione politica o etica anche se lo sembra. Potrebbe essere scambiato per impegno politico. Forse si tratta anche di questo, ma è soprattutto una questione di poetica. Certo, il fatto che De Seta parli di “debito contratto” sembra portare la scelta di occuparsi delle classi subalterne su un piano meno artistico, ma la parola chiave la pronuncia un attimo prima quando parla di “esperienza decisiva”. Dunque la prima cosa che vorrei scrivere su questo grande regista è che, se la vicinanza con pescatori e contadini è stata un’esperienza decisiva: nella sua poetica è fondamentale non la documentazione, ma l’esperienza.
C’è una seconda cosa che vorrei scrivere. Cioè che nel suo cinema e in particolare in Diario di un maestro si ha la sensazione che l’opera d’arte non possa abbandonare il proprio diretto legame con la realtà. O forse qualcosa di più. È come se il documentario non documentasse la realtà, ma la utilizzasse per entrarci dentro, per assaggiarla, toccarla, esperirla e modificarla. Non un cinema narrativo, ma un cinema ponte o soglia tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo, tra il sopra e il sotto, tra la vita e il suo racconto. E soprattutto un movimento che attraversa le classi andando a raccogliere segni e significati in un tessuto subalterno per ricontestualizzarli in quella forma d’arte e fenomeno culturale che più di molti altri è espressione delle classi egemoni. Lo è per ragioni di costi di realizzazione e distribuzione, per il suo essere illusorio e ludico oltre che fondamentalmente commerciale (quello che costa deve avere mercato) e quantomeno seduttivo se non addirittura propagandistico. In questo contesto produttivo De Seta va a prendere (dopo altri lavori e in particolare Banditi a Orgosolo) la storia di un maestro di borgata appartenente ad una famiglia contadina che cerca non solo di recuperare bambini che l’istituzione scolastica ha abbandonato e considera irrecuperabili, ma addirittura smonta la classe facendone un luogo di sperimentazione didattica e relazionale (“Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli (…) fra chi ha il potere e chi non ne ha” scrive Basaglia nel ’69 e la posizione classica della cattedra nei confronti dei banchi indica immediatamente questa relazione squilibrata) sfasciando il pregiudizio educativo che vede l’alunno come un vaso vuoto che l’insegnante deve provvedere a riempire. Dunque a livello tecnico realizza un film che è anche documentario e che riesce a mettere insieme il meglio di questi due modi di fare il cinema. E a livello contenutistico racconta la storia di un’istituzione che funziona soltanto quando la si smonta. Questa è la seconda cosa che vorrei scrivere: sia il maestro interpretato da Bruno Cirino** che De Seta si presentano (uno dentro e uno fuori dal film) come “intellettuali rovesciati” che invece di considerare le classi subalterne un insieme di ignoranti da educare, cercano di partecipare e di entrare nel loro tessuto culturale per apprendere da esse, per difenderle e legittimarle in quanto tali.
La terza cosa che vorrei scrivere riparte dalla prima e ripesco una citazione che somiglia a quella con cui ho aperto questo breve intervento. È di Mario Fiorentini che nel 1944-’45 è stato un capo partigiano.
“mi sembrava che… che ci guardassero come se dicessero: ma che ci fanno questi signorini tra di noi? Questi signorini! Perché noi eravamo gente che parlava bene. Conoscevamo Proust, conoscevamo Thorton-Wilder conoscevamo la letteratura. Eravamo gente già di una certa… e questi: e che ci fanno tra di noi? Eppure loro sapevano che noi eravamo stati dei gappisti, che avevamo combattuto i tedeschi (…) Queste donnette che dovevano pensare ai figli e si mobilitavano per noi per i loro compagni”***.
Ecco un altro intellettuale che scopre il popolo. Ma in più, rispetto alla dichiarazione di De Seta aggiunge che “queste donnette” delle periferie romane “si mobilitavano per noi”. Per un regista non è facile capire quale sia la risposta del proprio pubblico e in particolare quale sia quella dello spettatore che appartiene a una classe sociale specifica. Tanto meno per quello spettatore risulta semplice mobilitarsi per il regista che ha girato il film. Ma forse non è del tutto vero. Perché un cinema “rovesciato” è anche un cinema partigiano. Un cinema che mobilita, che smuove, che smonta, che combatte. Anzi, io penso che il cinema debba essere proprio questo. Non può essere disarmato perché non può essere soltanto bello. Nulla vieta di andare in battaglia con la messa in piega, ma il fucile tocca portarselo per forza. In una società conflittuale è impossibile non partecipare al conflitto. È come camminare sotto la pioggia. Puoi fare a meno dell’ombrello, ma non riesci ad evitare di bagnarti.
Queste sono le tre cose che volevo scrivere su Vittorio De Seta. Volevo dire che il suo lavoro è la dimostrazione che l’arte non può prescindere dall’esperienza, che non può permettersi di essere aristocratica e che sarebbe vergognoso che fosse omogenea al potere e alle classi dominanti, e che se un artista non è partigiano, finisce per essere inutile e qualunquista.
Note
* Intervista del Giugno 2007 a Vittorio De Seta a cura di Giuliano Capani. Brani Tratti dalla Rivista “ETHNOPOLIS” quaderni di antropologia e sociologia visuale. Durata dell’originale: 15 minuti. www.bseditori.comhttp://www.youtube.com/watch?v=J2rmvgXFVlg
** Diario di un maestro è uno dei pochi film interpretati da Bruno Cirino che un paio di anni dopo sarà anche in Allonsanfan dei fratelli Taviani. Morirà giovane all’inizio degli anni ’80. Un attore e partigiano anche lui.
*** dal radiodocumentario “guerra e pace” di Ascanio Celestini andato in onda nel marzo del 2001 nella trasmissione radiofonica Centolire a cura di Lorenzo Pavolini e Anna Antonelli#VittorioDeSetahttps://www.youtube.com/watch?v=nqCsEwuguvQ
Articolo scritto nel 2011 per un libro che ha accompagnato l’uscita di due dvd dedicati a Diari di un maestro (Feltrinelli).