Qualche giorno fa ho avuto modo di fare alcune riflessioni attorno all’adolescenza. Come spesso accade, le riflessioni sono nate a partire da situazioni molto concrete. Meglio ancora, da conflitti concreti.
Spesso le risposte non sono altro che il risultato del tentativo di comprendere unito al tentativo di risolvere. Almeno in educazione, la diagnosi parla e comunica con la prognosi, la foto con la regia, l’analisi con l’azione, la comprensione col desiderio.
Il fatto
Due “nonne” mi vengono a comunicare in due momenti diversi che due ragazzi, vestiti di nero, hanno ripetutamente bestemmiato davanti a loro. Non solo: nel momento in cui sono intervenute i ragazzi le hanno prese in giro, facendo pernacchie o bestemmiando nuovamente.
Che fare? Lasciar correre e farci una risata? Inseguirli e perseguirli? Punire e reprimere? Segnalarli alle autorità?
Come hanno agito le nonne
Le nonne hanno fatto la cosa più normale e giusta che ci sia, a mio parere: hanno aperto una comunicazione, non si sono disinteressate, hanno detto la loro. L’hanno detta nel modo e con le parole che hanno ritenuto opportune, anche dure e nette, persino insultanti a loro volta. Si sono trovate una nuova risposta, una bestemmia, una presa in giro. Hanno cominciato a battibeccare. Hanno tenuto il punto. Sono andate allo scontro verbale. Una delle due, addirittura, ha cominciato a parlare con le ragazze che accompagnavano questi due ragazzi: ha articolato una riflessione, ha costruito alleanze dentro lo scontro verbale, sempre con le sue parole e i suoi giudizi (giusti o sbagliati che fossero). Poi hanno fatto una seconda cosa bella: sono venute a parlare con chi quei ragazzi li poteva conoscere personalmente. “Vanno puniti, cacciati, allontanati” “Sono irrispettosi” “Non bisogna lasciargli fare quello che vogliono” “Sono gente che non ha i genitori”… tante affermazioni che raccontano pezzi di verità, come anche pregiudizi e posture autoritarie.
Eppure son venute a parlare con noi: per aprire un canale, per ragionare di una soluzione, per confrontarsi.
Lo sguardo strabico
Chiamo “sguardo strabico” l’approccio, o la postura, con cui è possibile andare incontro a queste situazioni. Una postura educativa o esistenziale, di certo relazionale. Una postura che rifugge il disinteresse, il menefreghismo e la violenza, problematiche che precedono anche l’offesa.
1. Il diritto al conflitto: ogni situazione che viviamo come irrispettosa per noi o per gli altri, in grado di fare attrito e produrre dolore, ci chiama in causa e richiede il nostro intervento. I valori, il senso della convivenza, le norme di comportamento, le pratiche di vita si determinano in un perenne conflitto: rimuovere il conflitto è impossibile. E se la nostra società ci invita a non confliggere e non intervenire nelle situazioni (in nome di un falso principio di non violenza che nulla c’entra con questo) non significa che il conflitto scompaia: significa solo che lo stiamo perdendo. E che ci sono altre forze che confliggono con noi che ci stanno schiacciando. Ma torniamo alle nostre nonne: bene hanno fatto a mettere in campo il loro malcontento: che fosse per difendere un principio o solo perché infastidite, poco importa. Noi possiamo e dobbiamo mettere a terra le nostre idee e i nostri pensieri, con tutti e tutte: è il primo esempio positivo che diamo. Tu mi interessi, il mondo mi interessa, il benessere mio e altrui mi interessa.
2. Comprendere l’altro, la fase: un vero sguardo educativo deve nutrirsi della consapevolezza dei periodi, delle dinamiche. Non può assolutizzare le azioni, ma agisce sempre per contestualizzarle dentro le fasi di vita, i bisogni di sviluppo, la logica di alcuni comportamenti. Non è un caso, nell’esempio delle nostre nonne, che i ragazzi abbiano undici-dodici anni: una fase della vita di costruzione del Sé sociale, una fase in cui la separazione dal mondo adulto è necessaria per potervi pienamente accedere; una fase in cui proprio il distanziamento dalle norme comuni e l’esercizio della propria forza sono strumenti che si mettono in campo: per testare sé, ma anche per raccogliere il consenso e l’approvazione dei pari. Dico di più: questa fase di rottura e distanziamento non è solo naturale, ma è necessaria per sviluppare a pieno le risorse interiori, per testarsi e stimolare aspetti della personalità (il coraggio e l’autostima, per esempio).
Orizzonti nuovi di vita in comune
Avere questa serena consapevolezza non inficia il diritto di chiunque, della buona educatrice come del passante, di mettere in campo la propria voce e praticare un conflitto sui modi del vivere insieme. Non delegittima l’indignazione. Anzi, ancor più la legittima. I/le giovani di oggi, come ognunə di noi, hanno bisogno tanto di un’accettazione incondizionata quanto di proposte di senso e proposte di convivenza che sappiano sfidare e confliggere con le quotidiane pratiche di violenza abuso e sfruttamento nel quale siamo immersi: solo così può aprirsi un orizzonte di vita in comune che davvero rappresenti motivo di speranza e fiducia.
Per la cronaca: se il primo occhio dello sguardo strabico, quello del conflitto, era così ben riuscito alle nonne… diciamo che sul secondo occhio abbiamo dovuto lavorarci un po’, e non sono sembrate molto molto convinte. Ma anche quello, a suo modo, è conflitto.
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