Nelle famiglie immigrate accade spesso che bambine e bambini, per la plasticità del loro cervello e la capacità di stabilire relazioni vivaci e aperte con i coetanei a scuola e nel gioco, apprendano la lingua più rapidamente e meglio dei loro genitori. Questa frequentazione e immersione totale e precoce in una seconda lingua, che per la maggioranza dei figli di immigrati si trasforma presto in prima lingua privilegiata, li porta sovente a fare da interpreti ai propri genitori, arrivando a comportarsi, in casa, come veri e propri ambasciatori del nuovo paese di residenza. Abbiamo bisogno di scuole e quartieri sempre più aperti, partecipati e a misura di bambini e bambine. Una nuova legge sulla cittadinanza è giusta e necessaria anche per queste ragioni
Si torna a parlare dell’urgenza di approvare una legge che dia piena cittadinanza al milione di bambine e bambini, ragazze e ragazzi nati qui o arrivati qui da piccoli. Tra le tante ragioni che motivano l’urgenza di una nuova legge ce ne è uno che credo vada sottolineato per il particolare significato culturale e sociale che riveste. Nelle famiglie immigrate accade spesso che bambine e bambini, per la plasticità del loro cervello e la capacità di stabilire relazioni vivaci e aperte con i coetanei a scuola e nel gioco, apprendano la lingua più rapidamente e meglio dei loro genitori. Nell’imparare a parlare una lingua diversa da quella materna, superando difficoltà iniziali, entrano talvolta in alcune sfumature di significato della lingua italiana o dei dialetti parlati nelle città in cui abitano, con sottigliezza sorprendente e inventiva inusuale, dovuta alla ricchezza di sguardo sulla realtà offerta da un bilinguismo potenzialmente perfetto.
Questa frequentazione e immersione totale e precoce in una seconda lingua, che per la maggioranza dei figli di immigrati si trasforma rapidamente in prima lingua privilegiata, li porta sovente a fare da interpreti ai propri genitori, arrivando a comportarsi, in casa, come veri e propri ambasciatori del nuovo paese di residenza.
Alla lingua, com’è naturale, segue il rapido apprendimento dei costumi e dei modi di leggere e vivere la realtà propria dei nativi, con i pregi e difetti del caso. Per alcuni, trovarsi a vivere in mezzo al guado, tra culture e comportamenti sociali talvolta distanti, spiazza e avvilisce. Nella maggioranza dei casi aumenta la determinazione a essere, vestirsi e comportarsi come i loro coetanei, perché avvertono, con quella particolare apprensione e sensibilità che hanno i bambini e gli adolescenti, quanto il confine tra l’essere percepiti come diversi e il venire discriminati sia pericolosamente sottile. Ora, una società che abbia il desiderio di costruire un futuro di convivenza non distruttiva tra persone provenienti da diverse culture, dovrebbe avere a cuore il pieno riconoscimento del ruolo essenziale incarnato dalle ragazze e ragazzi in quel contraddittorio e dunque delicato processo di integrazione, che non può non essere reciproco.
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Dare priorità al diritto di cittadinanza ai minori assume dunque un significato politico e culturale particolarmente rilevante oggi perché scommette sulla pacificazione e incentiva il dialogo sociale tra culture, riconoscendo il grande sforzo di traduzione, mediazione e necessario adattamento compiuto dal milione di bambini e ragazzi che, pur abitando le nostre città, avvertono più o meno consapevolmente di essere relegati in un limbo, con uno “statuto giuridico da fantasmi”, come denunciato più volte dal movimento degli “Italiani senza cittadinanza”.
L’Italia, paese in cui l’immigrazione è fenomeno recente, in trent’anni non ha ancora saputo costruire un’elaborazione culturale e un immaginario sociale relativo alla trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città. Potrebbe essere un vantaggio, visti gli evidenti limiti dell’assimilazionismo francese e del multicuturalismo inglese, ma dobbiamo creare le condizioni perché a dettare legge non siano gli umori più neri che circolano insistentemente in mezza Europa
Silenziosamente e spesso solitariamente da anni nidi, scuole dell’infanzia e primarie sono sempre più un laboratorio di convivenza che ha dato, pur tra luci e ombre, risultati importanti, visto che gli alunni stranieri che accolgono superano il 10 per cento e sono riuscite a mantenere fino agli 11 anni buoni livelli di apprendimento, stando alle comparazioni statistiche internazionali.
Nonostante questo, il fenomeno della fuga bianca dalle scuole ad alta percentuale di figli di immigrati continua ad accrescersi e non si riesce ad arginare la deprecabile e anticostituzionale pratica delle classi ghetto e delle scuole ghetto dove le percentuali di figlie e figli di famiglie immigrati superano il 70, 80 per cento.
Penso che nessun italiano dotato di buon senso possa augurarsi lo sviluppo di una sorta di apartheid educativo nelle nostre città, con bambine e bambini che frequentano scuole separate per etnia e per censo. Al contrario, dobbiamo investire di più e meglio perché si riduca la dispersione scolastica che, nelle scuole secondarie, vede il 35% dei figli di immigrati abbandonare precocemente l’istruzione, in una percentuale doppia rispetto ai figli di famiglie italiane.
Il motivo per cui tante e tanti insegnanti sono così sensibili alla questione della cittadinanza deriva dal fatto che constatano ogni giorno quanto il vivere in una situazione di precarietà riguardo al proprio futuro ostacoli l’apprendimento.
Una nuova legge sulla cittadinanza è necessaria e urgente perché, garantendo piena cittadinanza a chi ha terminato un ciclo di studi, attenua l’incertezza di vite legate a permessi di soggiorno altalenanti. Tutti sappiamo quanto serenità e fiducia nel futuro migliorino le condizioni per andare bene a scuola e noi dell’intelligenza, energia e preparazione delle ragazze e ragazzi italiani senza cittadinanza abbiamo vitale bisogno, per arricchire il nostro paese di punti di vista diversi, necessari a capire qualcosa di più della società in cui vivremo.