Non bastano le pur importanti discussioni sull’apertura delle scuole. Abbiamo bisogno di sospendere definizioni e giudizi, di smontare le illusioni dell’era del marketing che precipitano su bambini e ragazzi per lasciarli in balia delle loro solitudini, di contrastare la povertà di relazioni, aggravata dal virus. Per questo non possiamo rinchiudere bambini e bambine, ragazzi e ragazze in stanze che, oltre alla mobilità fisica, soffocano – come ricorda Giovanni Papini in Chiudiamo le scuole (1918!) – quello «spirito di ricerca e di apprendimento che può venire solo da un contatto umano più diretto che nelle aule di una scuola». Scrive Ambra Pastore: «La politica istituzionale, quella che non nomina mai le parole “bambini e ragazzi” riesce ad avere una percezione dei giovani?… Abbiamo sempre un tempo per stare dalla parte dei bambini e dei giovani»

Ragazzi senza è il titolo di un libro scritto nei primi anni 2000 da Melita Cavallo, insegnante di storia e filosofia, ex presidente del Tribunale dei minorenni di Roma. Un libro che rivela la sua storia professionale, la storia di chi per quarant’anni è stata vicino ai ragazzi in situazioni di forte disagio, devianza e criminalità. Non lo fa con uno sguardo solo professionale o con un’analisi sociologica o giuridica. Lo fa, invece, attraverso le storie stesse dei giovani in un racconto di vita che non contiene espressioni pregiudiziali o soluzioni già pronte e confezionate, proprio perché a parlare sono le stesse voci pulite, immediate, sensibilmente aperte e reali dei ragazzi. Alcune volte la sospensione delle definizioni, dei giudizi, delle soluzioni strumentali e delle ricette a portata di mano, sono come delle “uscite” di sicurezza: sgombrano il campo e ti portano fuori dall’emergenza. Ragazzi senza rimane ancora oggi un libro sul quale depositare il nostro ascolto.
In genere ragioniamo e ci confrontiamo sui temi della scuola e non solo, lungo le parallele delle strettoie. Inseguendo delle declinazioni che si contrappongono (scuola si, scuola no, scuola aperta, scuola chiusa, dad si, dad no), restringendo e impoverendo i luoghi di una topografia dinamica e sociale, luoghi dove ogni bambino e ragazzo sperimenta il proprio mondo di significati e di appartenenza, il proprio modo di esistere. Le strettoie contrapposte rischiano sempre di lasciarci nelle “mancanze” per consegnarci alla necessità della scelta o meglio per dare spazio all’illusione delle soluzioni perfette, strutturate, efficaci, perché fondate sulla ragione o sul buon senso.
Ma fuori, oltre le strettoie, come tutti i luoghi, geografici o simbolici, troviamo variabili di realtà tutte da individuare ed esplorare, da conoscere nella loro dialettica – presupposto della conoscenza – tra interno/esterno, dentro/fuori, in una reciprocità relazionale continua che è ciò che si fa poi storia e racconto.

Inciampare
Dentro la storia e dentro il racconto, ci sono sempre i bambini e i giovani con le loro esistenze in divenire.
Questo di oggi è un tempo di deprivazione per loro, un tempo problematico, quasi punitivo per chi sta cercando di esprimersi e di identificarsi come soggetto, individuo, unico e diverso dagli altri, ma che con gli altri disegna e dà forma al suo mondo, interno ed esterno a sé.

Insieme al libro Ragazzi senza, intercetto anche un film, C’era una volta l’America di Sergio Leone, film che con superba raffinatezza esplora tutte le età della vita attraverso le storie personali di un gruppo di gangster negli Stati Uniti. Del film ricordo una scena, potente, forte, accompagnata dalla musica di Ennio Morricone, e una frase, che mi risuona ancora dentro, come contrasto forte e violento di un mondo adulto aggressivo e criminale che contagia, contamina e condanna l’immortalità della purezza nell’infanzia. Quando il piccolo Dominik viene colpito a morte con una pallottola, guardando il suo amico di strada e di vita, Noodels, morendo, gli dice: “ Noodels… sono inciampato”.
Se già ogni tempo storico è in qualche modo punitivo per l’infanzia e l’adolescenza, questo tempo di oggi, sempre più instabile, incerto, irrequieto, difficile, aggravato dallo stato di un virus che non vuole allontanarsi da noi, li esclude, li lascia “senza”, li lascia stranieri, in balia delle loro solitudini e delle monopolizzanti esperienze media/visive, catturati dall’esplosione diffusa e strategica di spot motivazionali di marketing che carpendo emozioni, sensibilità, pensieri, visioni del mondo come storie in cui riconoscersi, contribuiscono a mescolare e confondere il reale con il virtuale, “inciampando” nell’illusorietà di una vita vincente: loro rimangono lì, ai bordi, fuori la porta della scuola (senza), della socialità (senza), del desiderio, dell’entusiasmo, del sogno, dell’attesa, della confidenza amicale, delle intimità (senza), delle complicità…. e così il libro Ragazzi senza che rappresenta anche oggi, nelle sue storie, un inizio e una fine di qualcosa, può recuperare, invece, ciò che gli appartiene in ogni epoca, recupera una storia, le loro storie, fatte di esperienze belle e brutte, anche di inciampi sicuramente, ma esperienze che andrebbero vissute dentro quella rete di relazioni, quella rete di contesti e di ambienti, che potrebbero salvare le loro vite, anche quando uno dei nodi della rete si rompe… perché la rete rimane comunque salda e gli permette di non cadere.
Poco si parla, se non nelle sedi e nelle aree interessate e preposte al fenomeno, delle tendenze suicide degli adolescenti e del loro disagio, eppure anche solo citando l’allarme dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù, settembre 2019, emergeva che le richieste urgenti in pronto soccorso per ideazione e comportamento suicidario negli ultimi otto anni erano aumentate di ben venti volte. Altri studi rivelano che un adolescente su sei pensa al suicidio, tendenza che sale proprio nei paesi a reddito medio/alto. Non mi soffermo su questa realtà e condizione dei giovani perché richiederebbe molta attenzione sensibile e molta accuratezza nei dati e nell’esplicitazione, soprattutto considerando le ricerche e gli studi avviati in questo periodo di Covid. Ma forse uno dei problemi da considerare è che i dati su queste realtà non vengono diffusi, sono sottostimati, non studiati e affrontati, anche a causa di tabù religiosi e culturali che non ne consentono l’emergere e la dovuta attenzione politica, sociale, istituzionale. Tradotto rimangono sempre sotto traccia.
Siamo consapevoli e testimoni di una povertà strutturale di relazioni sociali e ludiche tra adulto/bambino, adulto/adulto e bambino/bambino, correlate sia alla composizione mononucleare delle famiglie odierne, sempre più composte da un solo genitore, sia ai tempi contratti e stressanti del vivere, a una concezione organizzativa sociale che separa per età e per modi e tempi, per categorie o ceto sociale, impoverendo di esperienze sia l’adulto, sia il bambino che l’adolescente, impedendo il superamento di ciò che va oltre il conosciuto e l’esperienza di ciò che può essere, al contrario, imprevisto.
Quando il nostro discutere cammina sui binari delle contrapposizioni, come in questo periodo su scuola in presenza e scuola in dad, in realtà ci confonde, ci fuorvia, ci porta molto lontano da loro, potremmo dire anche parafrasando che “allunga il brodo”, crea più territorio, più confusione, ci aggroviglia, lasciandoci prigionieri dentro una pila che bolle e che non porta mai a termine la cottura. Come diceva molti anni fa una bambina all’asilo nido: “I grandi litigano, i bambini no”.
Chiudere le scuole
Se sono i contesti, i luoghi a dare significato all’azione e se i modelli d’azione e di comportamento sono presenti in ogni ambiente, ogni conoscenza, ogni apprendimento di un bambino, si svilupperà secondo un principio dinamico/affettivo nella relazione con gli altri e con ambienti diversi. La scuola perciò, quella scuola capace di mettere la persona al centro dell’agire e già auspicata da Giovanni Papini (1881 – 1956) con il suo libro Chiudiamo le scuole (del 1918) deve farsi ancora oggi luogo di vita e non
”il luogo dove i giovani vengono rinchiusi in stanze polverose e piene di fiati dove, oltre alla mobilità fisica, viene soffocato anche lo spirito di ricerca e di apprendimento che può venire solo da un contatto umano più diretto che nelle aule di una scuola… le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli….” (tratto da Chiudiamo le scuole).
Non esiste formazione umana senza espressione di autenticità personale.
Noi siamo esseri sociali, non dimentichiamolo. Il Mit, Istituto di Tecnologia del Massachusetts, una delle più importanti università di ricerca, in un suo recente studio sull’importanza delle relazioni sociali nella specie umana, sottolinea un altro aspetto interessante: il mancato soddisfacimento di un bisogno primario, come la socialità, alla lunga può aumentare la motivazione verso altri comportamenti gratificanti come il consumo di dolci o di sostanze stupefacenti per cercare di compensare il piacere perduto di una serata fra amici (Mind gennaio 2021).
Già negli anni passati, grazie all’apertura degli asili nido e alla possibilità, quindi, di fare ricerca sul campo (grazie soprattutto alla ricerca in merito e agli studi sugli stili di attaccamento di Bowlby, Ainsworth, J.Kagan e altri) si era compreso che bambini piccoli tenuti a casa e assoggettati, quindi a maggiori limitazioni esperenziali, mostravano un comportamento caratterizzato da un più forte attaccamento di quello dei bambini frequentanti l’asilo nido o la scuola materna. Oggi è ormai maturata la consapevolezza che la creazione di legami verso una o più persone, sostiene il bambino nello sviluppo di sentimenti positivi, della fiducia, dell’autonomia, dello sviluppo cognitivo/emotivo. Siamo coscienti di vivere in un conflitto e in un’indeterminazione inevitabile che investe ogni campo, condizionando il nostro pensare e il nostro agire, bloccando ogni possibilità autentica, lungimirante che ci permetta di riformulare e risignificare ciò che oggi è strutturalmente consolidato ma non per questo portatore di verità e di sapienza (dalle questioni educative a quelle ambientali). Eppure il sapere, la conoscenza, le scienze umane e sociali hanno tracciato e affermato nella storia valori umani oggi irrinunciabili per guidarci dentro le culture e le politiche di ogni comunità sociale, a partire dalla famiglia e dalla scuola. E se parliamo spesso di responsabilità sociale, collettiva dei giovani, come fosse una mancanza, una forma di autismo, una loro incapacità, ma non riusciamo a contestualizzarla nel suo realismo possibile, ci perdiamo l’idea fondante che questa sia possibile nella sua maturazione e formazione, solo dentro le relazioni, le forme culturali multiple, solo nell’essere legati uno all’altro e non nel vivere come “cellule singole separate e isolate”.

Bambini e giovani, sequestrati e mortificati nella ricerca comunicativa umana, dentro contesti di deprivazione formativa e relazionale, chiusi nelle loro solitudini, perdono qualcosa di sé e degli altri, qualcosa che possiedono invece sin dalla nascita e che non sanno di possedere, qualcosa che gli adulti non accolgono o non sanno accogliere, strutturando così un loro primato istituzionale/educativo/formativo.
L’era delle comunicazioni
Pur vivendo in pieno, ormai, l’era delle comunicazioni così come l’era dell’immagine, paradossalmente non riusciamo a comunicare e non riusciamo a immaginare, come se razionalità (degli adulti) ed affettività (dei bambini e dei giovani) fossero ancora mondi antagonisti e opposti, con la supremazia di una pseudorazionalità (illusoria) finalizzata, in fondo, ad allontanare sempre più il senso della nostra finitezza umana.
Non comprendiamo che la famiglia, le relazioni che si maturano dentro e fuori, la scuola stessa e ogni altro contesto di esperienza sociale, coniugano e conciliano entrambe, razionalità e affettività, in ogni diversa età, costruendo espressioni di potenzialità umane e vitali, toccando e nutrendo quelle sensibilità attive, già presenti fin da piccoli, che possono alimentare poi la qualità della vita futura e la capacità di sapersi orientare nelle scelte e nel mondo. Una delle frasi più chiare della salute psicologica è quella di Gordon Allport: una persona sana è quella che sa lavorare, giocare e amare bene.
Se vogliamo essere onesti con noi stessi e con loro, quando nominiamo le parole “bambino”, “adolescente”, prima ancora di pensare “scuola si o scuola no”, quale interpretazione abbiamo di loro? Quale nostro immaginario li contiene? Quale idea abbiamo di ciò che sono, di ciò che sentono, o di ciò che è la loro coscienza, il loro sentire, quale idea di relazione ci accompagna nell’incontro con loro? La politica isituzionale, quella che non nomina mai le parole “bambini e ragazzi”, quella che non riesce ad essere lungimirante perché stretta sempre nelle maglie del “qui ed ora”, riesce ad avere una percezione dei giovani? È una politica sensibile capace di incoraggiare, di trovare il giusto linguaggio per parlare ai ragazzi oltre le sedi istituzionali, entrando nel loro spazio in divenire, indeterminato, dinamico anche nell’istante del loro stesso presente?
“Una società resta unita grazie al rispetto che l’uomo ha per l’uomo; vien meno ai suoi compiti, si divide in gruppi di potere aggressivi, quando ha una concezione falsa dell’uomo. Troveremo la via che rende stabile una società cercando quello che ci rende umani” (Jacob Bronowski, matematico)
Abbiamo sempre un tempo per stare dalla parte dei bambini e dei giovani.