Quando si ragiona sul bisogno di ripensare in profondità la scuola oppure la relazione tra bambini e città prevale l’idea di infanzia come condizione di minorità, inferiorità costitutiva: insomma bambine e bambini sono incapaci di comprendere davvero ma soltanto di assimilare passivamente. È questa immagine dell’infanzia che abbiamo paura di mettere in discussione. In questo articolo, Andrea Sola parte dall’idea di bambino in quanto minore, ma anche dalla consapevolezza che il mondo adultocentrico e per nulla democratico fa di tutto per spegnere le esperienze di partecipazione, per provare a rispondere a una delle domande con cui si apre il documentario Rai Gianni Rodari, il profeta della fantasia: perché il ministero dell’istruzione non ha mai chiesto a Rodari di formare gli insegnanti?

Una delle domande, posta da Francesco Tonucci, con cui si apre il documentario Gianni Rodari, il profeta della fantasia, visibile su Raiplay, è la seguente: perché il ministero dell’istruzione non ha mai chiesto a Rodari di formare gli insegnanti? Quella domanda, che si potrebbe riproporre anche per molte altre figure particolarmente significative del panorama educativo italiano (cade in questi giorni il centenario della nascita di Bruno Ciari), rimane tuttavia senza risposta non solo nel filmato ma più in generale nel dibattito attuale sulla scuola.
Rodari si è speso per dare valore alla fantasia; cosa significa questo dal punto di vista di una idea educativa? Che alla dimensione immaginaria viene riconosciuto un ruolo fondativo per la comprensione del mondo, che il gioco, inteso come la libera espressione della capacità creative del bambino, deve essere una componente imprescindibile di ogni percorso di crescita che voglia contribuire alla formazione di una personalità indipendente. Questa centralità dell’esercizio della fantasia ha a che fare con una diversa concezione del senso da attribuire alle attività che hanno a che fare con il corpo infantile, quelle che cioè coinvolgono l’insieme degli organi tattili, visivi, auditivi e motori, che non dovrebbero più essere considerate come sovrappiù rispetto a quelle puramente razionali (la traduzione cioè delle esperienze in nozioni di natura astratta), quanto piuttosto come una componente essenziale delle modalità di apprendimento nel periodo infantile. Sappiamo invece come tutte le attività che afferiscono ai sensi siano assenti o del tutto marginali nelle pratiche scolastiche correnti.
Come mai questo succede? Rispondere a questa domanda non è affatto semplice perché siamo di fronte alla smentita delle più basilari nozioni di psicologia infantile: limitarsi a credere che tutto sia dovuto alla loro ignoranza da parte del corpo docente, anche se individua la causa più immediata del fenomeno, lascia però senza risposta la spiegazione del perché non si sia provveduto a formare adeguatamente i futuri insegnanti su questo aspetto fondamentale della pratica didattica e pedagogica e sul perché le strutture scolastiche, intese sia come spazi che come apparati organizzativi, non si siano adeguate a rispondere a questo genere di esigenze, ma siano invece rimaste ferme alla vecchia concezione della didattica teorica e basata sull’apprendimento puramente direttivo e sul lavoro individuale. Evidentemente siamo di fronte a una “pulsione alla conservazione” che è così radicata da non riuscire a essere scalfita dagli sforzi di rinnovamento che pure tentano di affermarsi.
Il punto è capire a cosa si riferisce questa resistenza al cambiamento, questa tendenza di natura conservativa, cosa si ha paura di perdere? Cosa si vuole preservare di così prezioso da farci essere così miopi di fronte a una richiesta così esplicita che proviene dl mondo infantile e giovanile? È l’idea di infanzia come condizione di minorità, di inferiorità costitutiva, è la concezione della sua supposta incapacità di comprendere davvero ma soltanto di assimilare passivamente. È questa immagine dell’infanzia che abbiamo paura di mettere in discussione. Lasciare liberi i bambini di sperimentare, di avere un rapporto creativo con le loro esperienze e non perennemente guidato dallo sguardo adulto, di permettere loro di conoscere le potenzialità del proprio corpo mantenendolo sempre imbrigliato dentro degli schemi; ecco, è tutto questo che credo il mondo adulto abbia ancora paura di accettare.
Il vero centro del problema è che non si riesce ad avere fiducia nell’infanzia, perché in fondo non si è in grado di sostenere l’idea di vederla con uno sguardo positivo, come una risorsa per il futuro, mentre si è sempre portati a immaginarla come una mera brutta copia di quello che siamo o non siamo riusciti a essere noi. A ben vedere tutto ciò accade perché non si ha la capacità di avere fiducia in noi stessi: pensare che l’infanzia abbia in sé delle risorse che noi abbiamo perduto proprio in quanto a nostra volta prodotti di una infanzia oppressa. Siamo quindi indotti del tutto inconsapevolmente a non voler riconoscere tutte quelle qualità che la renderebbero degna di stima e ammirazione.
La ragione per cui questa idea di infanzia sia così dura da scalfire va ricercata nella insoddisfazione della vita adulta attuale, nello stato di perenne frustrazione con cui si è costretti ad affrontare le difficoltà e i compiti quotidiani, nella assenza di prospettive anche minimamente rassicuranti sul futuro, nella disposizione perennemente aggressiva, priva di rispetto reciproco con cui affrontiamo i problemi e ci confrontiamo con il prossimo. Viviamo in un mondo in cui ognuno è principalmente preoccupato della propria situazione personale senza essere in grado di affrontala collettivamente. Il grado di democraticità e di partecipazione collettiva alla soluzione dei problemi è estremamente basso ed è quindi inevitabile che sia difficile far prevalere un atteggiamento improntato al riconoscimento dei bisogni e delle potenzialità reali degli individui in crescita.
Uno spirito del tempo così dominato dalla paura del cambiamento, dalla incapacità di sviluppare forme d collaborazione efficace è inevitabilmente insensibile di fronte alle spinte all’innovazione e alla ricerca del nuovo che l’infanzia e in genere tutti gli individui in crescita sono portatori. Si preferisce riproporre gli schemi educativi con cui siamo cresciuti evitando così di dover mettere in discussione il nostro passato. È per questa ragione che noi tutti rimaniamo vittime della teoria intellettualistica adultocentrica della percezione e della mente infantile, considerata una brutta copia di quella dei “grandi”, priva quindi di capacità intellettive autonome. Bisognerebbe essere consapevoli che i compiti che ha di fronte ogni analisi che voglia porsi il compito di riformare radicalmente il sistema educativo dovrebbero investire una serie molto numerosa di aspetti la cui soluzione non può prescindere dal riconoscimento preliminare che stiamo agendo in un contesto sociale come è quello attuale (e quello italiano in particolare) in cui i legami collettivi sono del tutto sfibrati e domina una concezione della vita in cui gli interessi comuni non trovano rappresentanza.
È per questa ragione che non si possono affrontare le caratteristiche (e i limiti) di un singolo apparato come quello educativo, senza ricondurli alle caratteristiche di fondo della società in cui viviamo rispetto ai suoi valori fondativi. È questo un aspetto che rimane attualmente al di fuori di tutto il dibattito che si sta svolgendo sulla scuola.
Si vede bene come la capacità di rinnovare la scuola, a cui persone come Rodari potevano dare un contributo prezioso, richieda una radicale messa in discussione dei presupposti stessi del sistema educativo nel quale siamo cresciuti e su cui si è modellato l’attuale assetto sociale. La marginalizzazione di queste figure non è altro che la conseguenza di una logica sostanzialmente antidemocratica, e quindi autoritaria, che ha continuato a imporsi nelle politiche scolastiche correnti. È questo riconoscimento che tuttora continua a mancare nell’attuale dibattito sulla scuola.
Il fatto che oggi solo in pochi siano in grado di farlo è dovuto anche al fatto che non si è ancora in grado di promuovere azioni collettive che possano renderle più efficaci e incisive; troppo spesso ci si limita alle petizioni di principio, sacrorosante fin che si vuole, ma che ancora si dimostrano incapaci di produrre dei “movimenti reali” che siano in grado di incidere concretamente sugli equilibri di potere in atto.
Ciò comporta tra l’altro che chi tenti di esporsi in prima persona per costruire delle alternative concrete si trovi a confliggere con l’ordine costituito e a subirne le conseguenze anche in termini di costi personali anche molto pesanti.
Andrea Sola, redattore di Educare alla libertà e documentarista è da sempre attento ai temi della nonviolenza e al pensiero libertario. Animatore del Centro Pandora di Mestre, promuove con adulti e bambini attività che hanno al centro le pratiche artistiche e la manualità artigiana. Il suo ultimo libro è Infanzia e potere. Origini e conseguenze di una oppressione (Biblion ed.), di cui è possibile leggere il paragrafo La attività ludico-conoscitive. Nell’archivio di Comune altri suoi articoli sono leggibili qui.