Le storie di violenza di questa estate che hanno coinvolto tanti adolescenti ci consegnano prima di tutto storie di corpi violati, nel tempo dei corpi in vetrina e dei corpi-macchina. Quando ci chiediamo come creare comunità educanti dovremmo partire da quei corpi e dai corpi degli adulti che vogliono aprire strade nuove, per dirla con Benasayag dai “corpi viventi”. Educatori, insegnanti, adulti sono dunque chiamati ad esserci, ad essere presenza consapevole con i loro corpi sensibili, con i loro desideri, le loro fragilità e le loro responsabilità. Scrive Loris Antonelli, educatore nella periferia romana: “Ho sempre di più la sensazione che gli adolescenti che incontriamo, questi di periferia con cui lavoriamo, ma forse non solo loro, siano poco dentro il loro corpo, non lo percepiscano fino in fondo con la sua sensibilità, le sue forme, i suoi dolori, i suoi piaceri, e questo renda impossibile riconoscere il corpo dell’altro, dunque l’altro stesso…. Si specchiano in noi che ci vestiamo come loro, che balliamo come loro, che vorremmo essere come loro, giovani, e per questo si confondono, non prendono contatto consapevole con il loro corpo… Dobbiamo mettere pensiero e attenzione per mettere in gioco la nostra funzione adulta, perché la somiglianza dei modi non comprometta la differenza dei ruoli… “
È stata un’estate di corpi feriti, di reati violenti che li hanno violati e stremati. Storie di violenze, di femminicidi, di atrocità consumate con apparente leggerezza. Per me è stata un’estate di adolescenti che si sono accaniti contro altri adolescenti, e per strumento di offesa e oggetto disprezzato c’erano più di tutto i loro corpi.
Allora che ci facciamo con questi corpi, li nascondiamo per non indurre in tentazione? Mettiamo in prigione quelli pericolosi? È questa la soluzione?
Mi sono chiesto che me ne faccio del mio, come lo mostro al mondo, in che modo mi rappresenta, mi fa correre, gioire, amare, soffrire. Io e il mio corpo di cinquantenne a contenere desiderio di vita, di gioventù. Da qui la necessità di trovare un senso a questo mio contributo proprio pensando al corpo come strumento di lavoro educativo, come la materia che mi mette di fronte ai ragazzi con cui lavoro, e che con la sua forma gli arriva prima di ogni altra cosa mia, prima di me in un certo senso.
Io porto un corpo politico, che cerca una postura narrativa attraverso cui raccontare la mia visione di educatore, di adulto, la nostra idea di educazione come lotta di classe. Un corpo che agisce la relazione educativa, e che si accascia di fronte alle sconfitte. Forse per questo la violenza che i media hanno raccontato in questa estate la sento addosso, perché mette in discussione anche la mia capacità di tenuta, di proposta, di immaginazione.
Il mio corpo segna il confine oltre cui non si può andare, è una storia che nel mio lavoro prende forma tanti anni fa, forse dopo quella volta che un ragazzino mi sputò diritto in bocca, mentre io, a bocca spalancata, lo inondavo di parole per lui inutili.
Me le restituì tutte insieme, in quel gesto di stizza prima di scappare via. Erano i miei primi mesi di lavoro in un centro aggregativo, era il 1999, il secolo scorso. Quel ragazzino poi è tornato, e io c’ero. Mi piacerebbe dire che l’ho salvato dai suoi mostri, ma la verità è che si è salvato da solo.
Meno parole
Forse da allora in poi, e ancora oggi, ho imparato a mettere il corpo, a usare una diversa postura, fatta anche di meno parole.
Di fronte a un adolescente che rompe le regole, che sfida l’adulto, che provoca, che non offre spazio ad altre forme di relazione, il mio corpo si mette lì, davanti al suo, confine invalicabile: oltre questo limite non puoi andare, comunico con la postura, con il tono, con poche misurate parole.
Ma c’è una verità più importante in quella postura, c’è un messaggio forte che gli arriva diretto, che mi permette di aprire la relazione, e che è il motivo per cui nessun adolescente ha mai agito sul mio corpo, nessuno mi ha spinto, mi ha scansato, mi ha colpito, neanche quelli che per stazza e contesto potevano sovrastarmi.
Il mio corpo, più di ogni altra cosa, più del confine stesso che rappresenta, racconta che io ci sto. Sono lì, sono presenza, e non vorrei essere in un altro posto. Sono lì nonostante con alcuni ragazzi la relazione educativa sembra non nascerà mai, sono lì perché di loro mi interessa, e il mio corpo glielo racconta prima ancora che io glielo dica.
Sono lì e li scuoterei forte, come per svegliarli, per portarli nel presente.
Succede che si spaventano, che mi disprezzano, che all’improvviso mi vedono, che provano a sottrarsi, che tornano velocemente sulle loro difese, eppure c’è un momento che mette le nostre presenze, la nostra e la loro, al centro di tutto. Si apre una strada che non per forza percorreremo insieme, ma che tutti possiamo vedere.
È la risposta che mi do quando dopo le giornate difficili torno a casa sfinito, stremato proprio in quel corpo che metto in cammino con i ragazzi. Quando succede, per fortuna raramente, poi mi chiedo “ma lo potevo fare?”, mi è concesso di usare il corpo in questo modo? Quando il corpo è limite fisico faccio quello che fanno loro?
Mettersi nelle loro mani, lasciarsi andare
I dubbi che affiorano se li porta via il fatto che io, proprio nel ruolo di educatore, metto il mio corpo fisicamente nelle loro mani, quando gli chiedo di tenermi, quando lavoriamo con le attività sulla relazione di fiducia, su tenere e lasciarsi andare. Ogni volta che sto lì, la prima volta che chiedo di reggermi a uno di loro, mi metto letteralmente nelle loro mani, e questo li spiazza, li elettrizza, li spaventa. Che io cada o meno dipende solo da loro, lo sanno, lo vedono, e per questo mi tengono.
Claudio ha la “104”, mi hanno detto, è oppositivo, ha diverse denunce, ha commesso reati violenti, lesioni, lesioni con rapina, risse. Quando mi lascio cadere fra i ragazzi che avrebbero dovuto tenermi Claudio è lì, a proteggere il punto esatto dove avrei battuto la testa se i suoi amici non mi avessero tenuto. Non gliel’ho chiesto io, la sua presenza non era prevista, era in più. “Professo’…, questi sono scemi, ti fanno cadere”. Claudio, quello oppositivo, quello dei reati violenti, aveva deciso di proteggermi, fisicamente, era lì dove io avrei potuto farmi male.
Noi usiamo il corpo nella relazione educativa.
È il tentativo di raccontare che gli adulti ci sono, che i corpi degli adolescenti non sono solo violenti, violati, tatuati, palestrati, graffiati, coperti, nudi, esposti, ma sono soprattutto corpi inconsapevoli, lo sono negli agiti, nella sessualità, nella ricerca di identità, nel gioco, nello sport, nelle passioni. Sono corpi che crescono più velocemente di quanto i ragazzi possano sentircisi dentro, e li mettono in crisi.
Viviamo l’epoca dei corpi in vetrina, virtuale e reale, della confusione fra causa e conseguenza, della morale dispari dominata dal corpo dei maschi, dei corpi che usiamo per farci strada, per piacere, per scappare, per amare, per violentare, per stare, e mai abbastanza per abbracciare.
Ho sempre di più la sensazione che gli adolescenti che incontriamo, questi di periferia con cui lavoriamo, ma forse non solo loro, siano poco dentro il loro corpo, non lo percepiscano fino in fondo con la sua sensibilità, le sue forme, i suoi dolori, i suoi piaceri, e questo renda impossibile riconoscere il corpo dell’altro, dunque l’altro stesso.
Ho la sensazione che molti comportamenti violenti non siano compresi e riconosciuti fino in fondo da chi li agisce.
Essere presenza
Mi perseguita l’idea di una violenza facile, consumata senza sentirsela addosso, esibita, non privata. Una violenza di cui non ci si vergogna perché colpisce corpi fatti oggetto, dunque prevaricabili.
Ho la sensazione che il nostro modo di essere adulti in questa epoca non stia permettendo ai ragazzi di specchiarsi per riconoscersi, per differenza, altro da noi.
Si specchiano in noi che ci vestiamo come loro, che balliamo come loro, che vorremmo essere come loro, giovani, e per questo si confondono, non prendono contatto consapevole con il loro corpo, con la loro identità, con i loro bisogni, e non riconoscono gli altri, e i corpi degli altri diventano oggetti, beni di consumo, e li aggrediscono, li violano, li disprezzano.
Noi siamo adulti così, anche noi viviamo la nostra epoca, e non credo che ce ne dobbiamo vergognare. Allora dobbiamo mettere pensiero e attenzione per mettere in gioco la nostra funzione adulta, perché la somiglianza dei modi non comprometta la differenza dei ruoli. Possiamo decidere di usare il nostro corpo in modo adulto, di metterlo lì, dove sono i ragazzi, e renderlo riconoscibile per quello che è, senza nasconderlo. Sponda, confine, contenitore, limite invalicabile, sostegno, abbraccio…
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Se l’educazione è lotta di classe, se è, come lo è per noi, il tentativo di non lasciare indietro nessuno, di far immaginare più futuri possibili di quelli in cui ci si rifugia facilmente, dobbiamo fare uno sforzo. Il nostro sforzo non deve essere “guardare oltre i loro corpi”, ma “stare con quei corpi“… perché attraverso ciò che sono (goffi, bellissimi, bruttissimi, anonimi, vestiti trash, esibiti più o meno coperti in posture indisponenti) ci consentono di accedere alle loro storie, ai loro sogni, a sé.
Credo che il nostro compito di educatori, insegnanti, adulti, sia esserci, essere presenza, e cercare l’angelo nascosto nel blocco di marmo, “…scolpire il blocco fino a liberarlo”. In fondo, se non lo facciamo noi, chi deve farlo?”
Relazioni al talk dal titolo Luoghi, storie e corpi promosso a Roma durante il festival Restart.
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Oltre l’errore Un progetto di Acmos e Libera