In un incontro tra alcune esperienze di scuole aperte partecipate, qualche settimana fa, Gianluca Cantisani, presidente del MoVi con una lunga esperienza nelle reti pacifiste, ragionava sull’importanza della partecipazione nei territori come strada prioritaria per vivere percorsi di nonviolenza che implicano, tra l’altro, gestione dei conflitti e costruzione di relazione di fiducia e muto aiuto. Dal punto di vista educativo, invece, dentro la scuola è forte il bisogno di trovare i modi per affrontare, con bambini e bambine, ragazzi e ragazze, il tema della guerra. Possiamo ad esempio partire dalla immagini fisse e mute che, a differenza dei filmati, aiutano a soffermarci su ciò che vediamo e sentire ciò che ci accade dentro. Possiamo inventarci una cerimonia. Possiamo parlare e scrivere tanto… “La guerra è il peggior tradimento che il mondo adulto possa perpetrare ai più piccoli…. Dobbiamo armarci di coraggio e provare, con grande attenzione e cautela, a parlare della guerra, perché la guerra c’è… – scrive Franco Lorenzoni – E allora tra noi docenti parliamone, confrontiamoci, scambiamoci esperienze…”
Le guerre ci circondano.
Immagini di esplosioni, violenze, stragi e macerie a non finire inondano i nostri schermi entrando negli occhi e penetrando sottilmente nella sensibilità dell’infanzia.
Per bambine e bambini vedere loro coetanei, evidentemente innocenti, venire feriti, mutilati, privati dei loro cari e della loro casa o addirittura uccisi, li sconcerta e li agita. Circolano insistentemente immagini che entrano nei loro pensieri e nei loro sogni, spesso in modi di cui non sono consapevoli.
La guerra è il peggior tradimento che il mondo adulto possa perpetrare ai più piccoli.
E allora, come porci di fronte alla guerra?
Nasconderci ed evitare di parlarne o trovare i modi di avvicinarci con cautela e provare ad ascoltare le voci, i racconti delle vittime?
Come discuterne con bambine e bambini, con ragazze e ragazzi?
Sono oltre due anni e mezzo che si combatte in Ucraina in seguito all’invasione russa e quasi un anno è passato dalla strage del 7 ottobre, perpetrata da Hamas contro i cittadini di Israele, e dall’invasione e dalle stragi che l’esercito di Israele infligge ogni giorno alla striscia di Gaza, colpendo la popolazione civile e migliaia di bambine e bambini.
Un bambino con le mani in alto
Esattamente venti anni fa, il primo giorno di scuola fu funestato da un evento che ci sconvolse. Nella cittadina di Beslan, in Ossezia, ci fu una orribile strage. 386 tra bambini e genitori furono uccisi dal fuoco e dalle responsabilità incrociate di un gruppo terrorista ceceno e delle forze speciali della Russia di Putin, che non ebbe remore a intervenire provocando un massacro.
La festa del primo giorno di lezioni trasformò la palestra della scuola in un lager. Per tre giorni circolarono le immagini di quella palestra, con centinaia di bambine, bambini e genitori sequestrati. La fotografia di un bambino con le mani in alto ricordo che aveva colpito profondamente allieve e allievi della mia quinta elementare di allora. Avevano visto le immagini al telegiornale, avevano atteso per tre giorni l’esito incerto di quel ricatto che aveva per posta centinaia di vite innocenti.
Quando si è aperta la nostra scuola di Giove, la strage si era appena consumata, ma sentivo che quelle immagini erano dentro di loro e continuavano a inquietarli e a ferirli.
Dopo averci ragionato a lungo, insieme a colleghe e colleghi abbiamo pensato che non potevamo far finta di nulla. Allora poco a poco, con cautela, siamo ritornati ad alcune immagini che loro avevano visto di sfuggita alla televisione o sui giornali. Non le fotografie più cruente della strage, ma quelle del sequestro, della fuga di alcuni. Le immagini fisse, mute, a differenza dei filmati, aiutano forse meglio a soffermarci su ciò che vediamo, a sentire ciò che ci accade dentro, a ragionare.
Le abbiamo raccolte in classe e guardate con calma. La foto in cui c’era un bambino con le mani in alto che guardava negli occhi l’uomo che gli puntava contro un mitragliatore l’ho riprodotta in grande. Abbiamo cercato di capire, senza riuscirci, cosa può spingere gli uomini a tanto. Abbiamo provato pietà per le mamme impietrite dal dolore e per i bambini che vagavano soli nei dintorni di quella che era stata la loro scuola e ora si era trasformata in un mucchio di macerie.
Poi abbiamo parlato e scritto e parlato ancora.
Giorgia ha buttato giù di getto sul suo quaderno parole che, a leggerle, suonano come una sorta di mantra:
“Bimbo terrorizzato impauriti scappare correre strillare arrampicarsi rifugiarsi sparare bere svestirsi bagnarsi muovendosi fissazione sparatorie grilletti fucili vita morte impalati impauriti orto campi mondo cielo terra acqua sabbia smarrimento rapimento via strada minacce suoni melodie per campagne casa montagne grippi giochi oggetti buco letti storie frutti palestre giornali finestre porte avvenimenti agende appunti libri notizie camminare animali cibo scuola sangue”.
Inventare una cerimonia
Il giorno dopo, sul pavimento dell’ex chiesa che allora ospitava la palestra della scuola, abbiamo poggiato 186 candele e le abbiamo accese una a una per ricordare i 186 bambini di Beslan che il primo giorno di scuola sono stati sacrificati in nome di logiche di guerra di maschi adulti, spietate e incomprensibili, che provocarono in tre giorni 386 morti. Tutte le bambine e bambini della nostra piccola scuola erano lì e, piano piano, chi aveva scritto qualcosa ha letto ciò che era passato per la sua mente, circondato da un grande silenzio.
Nell’incertezza su che fare quel mattino, quasi senza saperlo, abbiamo “inventato” una cerimonia, perché probabilmente era ciò di cui avvertivamo il bisogno.
Mi è tornata in mente questa storia pensando che forse, se vogliamo educare alla pace e alla convivenza, come è giusto che proviamo a fare, dovremmo anche, in qualche modo, “educare alla guerra”. Cioè fermarci e guardare a fondo, con il tempo che le cose difficili richiedono, ciò che i bambini hanno ogni giorno sotto gli occhi distrattamente, tramite la televisione o altri schermi.
Scambiamoci esperienze
Se vogliamo che non si confondano mai, nelle loro menti, la grande quantità di immagini spesso violente, veicolate da film o videogiochi sempre più realistici e sofisticati, con le immagini di guerre vere e stragi e carestie che passano nei telegiornali, dobbiamo armarci di coraggio e provare, con grande attenzione e cautela, a parlare della guerra, perché la guerra c’è. Perché senza guardare in faccia quelle immagini e provare a intendere e comprendere appieno di quale orrore si tratti, è difficile capire tante cose che accadono nel mondo, tra cui le migrazioni che da tempo hanno trasformato la popolazione delle nostre scuole.
E allora tra noi docenti parliamone, confrontiamoci, scambiamoci esperienze e selezioniamo materiali che riteniamo possa essere utile portare e proporre in classe per ragionare meglio.
Chiunque si occupi di educazione, in ogni luogo, non può non confrontarsi con questo tempo di guerre vicine, che seminano profonda inquietudine in ciascuno di noi e penetrano sottilmente nei pensieri, nei sogni e nelle paure dei più piccoli.