Esiste una zona di confine che andrebbe esplorata a fondo, quella tra la dimensione del gioco spontaneo vissuta, oggi sempre meno, nei cortili, e la condizione che si sviluppa nelle pluriclassi con alunni di età differenti. Ciò che si apprende in queste situazioni non è mai solo l’oggetto dell’insegnamento o del gioco, ma anche la dimensione del gruppo, la relazione tra diversi. Una dimensione che già Barbiana aveva messo in luce, mostrando come le conoscenze acquisite dai più grandi venivano naturalmente messe alla prova nella trasmissione verso i più piccoli. E che oggi tante comunità dell’Appenino assaporano ancora. Quanto può aiutarci quella dimensione fatta soprattutto di esperienze e di legami tra conoscenza e territorio, a ripensare l’idea di scuola e perfino il principio di uguaglianza?
Premessa
In questo articolo provo a fare un parallelo tra la dimensione di gioco spontaneo vissuta nelle situazioni di cortile, con la condizione che si sviluppa nelle pluriclassi con alunni di età differenti. Ciò che si apprende e si impara in queste situazioni non è mai solo l’oggetto dell’insegnamento o del gioco, ma anche, necessariamente, la dimensione del gruppo, la relazione tra diversi. Un tema che emerge in questo contesto è cosa sia, appunto, la diversità e come si possa intendere l’uguaglianza, in che modo si possano trattare “ugualmente” i diversi e se l’uguaglianza sia nelle cose o nelle modalità. Da questo ne scaturisce una riflessione sulle condizioni generative dei vari modi di fare scuola e come una certa impostazione di fare scuola confermi e giustifichi una impronta omologante consona al sistema produttivo, mentre l’altra mantenga aperto lo sguardo verso la dignità e l’emancipazione delle persone. La chiusura, non esente da accenni retorici, ci lascia con interrogativi che potrebbero sembrare eccessivi, ma che considero adeguati all’altezza della sfida.
Il “codazzo” educativo
Chi ha giocato in cortile alzi la mano! a voi il titolo dell’intervento è certamente chiaro, la parola “codazzo” l’abbiamo vissuta sulla pelle, quando ci riunivamo da bambini c’era sempre il momento in cui i grandi venivano a “prenderci” per poter fare le squadre, o in cui noi andavamo a supplicarli di farlo, accettando i ruoli più marginali pur di esserci. In quei giochi, come topolini accodati agli elefanti, ci sentivamo affacciati a un mondo irripetibile, a una dimensione che ancora non ci apparteneva ma di cui già volevamo assaggiare il sapore.
Crescere in quella commistione di età aveva un po’ il sapore dell’apprendistato in artigianato, quella dimensione in cui “il mestiere s’arubba coll’occhi” come diceva a me e ai miei fratelli lo stagnaro quando tirava fuori la sua saldatrice dalla borsa degli attrezzi e iniziava a riparare il tubo dello scarico, attorniato dagli sguardi e dalle esclamazioni di quattro ragazzini calamitati su ogni suo gesto.
Conoscenza e territorio
Quella collettività educativa di diversi è a tutti gli effetti alla base dell’idea di passaggio delle conoscenze. È una dimensione naturale in tutti i piccoli centri, era una realtà concreta nella scuola di Barbiana, in cui le conoscenze acquisite dai più grandi venivano naturalmente messe alla prova nella trasmissione verso i più piccoli, un esercizio di traduzione e trasmissione dei concetti appresi che ne consolidavano e radicavano la conoscenza. È la dimensione naturale di tutte le comunità montane, isolate, isolane, di tutti i centri di un’Italia che ha la sua spina dorsale nell’appennino, ma che poi si trova senza radici in un continuo spopolamento delle terre interne verso gli insediamenti della pianura, verso quella concentrazione che segna la fine delle piccole comunità.
E infatti le classi, intese per età, sono di dopo, di quando la concentrazione abitativa e l’inurbamento richiesto dall’industria hanno in qualche modo industrializzato anche la scuola. Nella vita della scuola ha vinto l’aggregazione fordista e il migliore stato delle strade. Sulla preziosità della comunità locale ha vinto lo scuolabus, sulla capillarità dell’educazione la trasfusione “gommata” di alunni verso i centri più grandi.
Non stiamo difendendo un passato, stiamo difendendo uno stato, e possibilmente anche uno Stato. Lo Stato è l’Italia dei comuni, delle frazioni, delle Matrie, quello che si riconosce nella cura di una valle, nella devozione a un santo o nella tradizione di una lotta, di una appartenenza. In questi casi mantenere la scuola in loco, tenere aperta la pluriclasse significa salvaguardare una collettività di memoria, di cultura, che costruisce sapere anche con la cura dei luoghi, con la capacità di restare o almeno con la possibilità di tornare. Una scuola pluriclasse è in qualche modo una piazza: non tutti ci si affacciano allo stesso modo, ma certamente ci si affacciano tutti. E in quel movimento si comprende un diverso Noi, più evolutivo e meno uniforme di quello che la classe per età porta con sé.
Uguaglianza tra diversi e diversità tra uguali
Pensiamo a quanto si è dovuto discutere a scuola su cosa sia l’uguaglianza. Quanti dilemmi porta con sé questo valore, come possa essere allo stesso tempo difeso e travisato da chi pensa che l’uguaglianza sia dare a tutti la stessa cosa. È facile cadere in questa trappola in una classe di pari grado, l’insegnante, sembra di sentirlo parlare, ci dice che lei (o lui) non fanno favoritismi, trattano tutti alla stessa maniera. Ma, e torniamo a Lettera a una Professoressa, “non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diseguali” e anche questa è una consapevolezza che gli insegnanti delle Pluriclassi hanno imparato a integrare, dovendo naturalmente fare i conti con le conoscenze, ma anche le preferenze, i tempi di reazione, i tratti della personalità di ciascuno dei loro alunni.
Allora riprendere l’esperienza delle Pluriclassi più che guidarci verso una nicchia del passato ci apre a una prospettiva di futuro, perché ci restituisce quello sguardo alla persona in quanto soggetto dell’apprendimento e quell’attenzione al gruppo in quanto luogo del confronto di cui parlano tutti i movimenti dell’educazione attiva, dai Cemea alla Montessori, dall’MCE al Ceis, alla Fasolo, alla scuola-città Pestalozzi.
Cooperare per agire insieme con successo, torna il “codazzo” dei bambini e ragazzi che si chiama al gioco, alla regola esplicitata, rispettata, fatta propria, quella che non ci vieta di fare, ma ci permette di agire, con rispetto e mutualità. Che grande fiducia ci chiede la dimensione ludica! Ma anche che orizzonti ci dispiega, in termini di realizzazione di sé, di scoperta delle proprie facoltà e caratteristiche, apertura ai propri interessi e sentimenti, emancipazione dalla propria limitatezza e subalternità.
Il fare, per incidere sulla realtà
In tutte queste esperienze pedagogiche, sia che siano maturate dentro le mura scolastiche che negli spazi della quotidianità, la dimensione della conoscenza non è mai limitata all’intelletto. C’è il sapere, ma insieme al saper fare e al saper essere: mente, mani e cuore crescono insieme, ispirano l’una l’altra, realizzano le reciproche intuizioni e costruiscono le condizioni per una crescita globale che prende spunto dalla curiosità verso il mondo circostante, si arricchisce degli sguardi del gruppo, si incarna nel fare.
La scuola fornisce lo spazio della riflessione, della sistematizzazione, del confronto, ma è il mondo quello in cui si vive, quello da cui si portano le curiosità e le notizie e quello al quale tornano, arricchite dallo studio e dalla condivisione, le ipotesi, le conoscenze e le risposte costruite a scuola.
Eppure oggi ci confrontiamo con una avversione del sistema scuola verso l’esperienza di bambini e ragazzi, un’avversione che si veste di cura e diventa attenzione alla sicurezza, alla integrità del fanciullo, ma che costruisce questa integrità corrompendone una più grande, quella dell’ambiente in cui agire, della presa diretta con il mondo. Non si nega all’alunno l’uscita, l’esperimento, il gioco per disinteresse, ma anzi per un superiore interesse: quello della salvaguardia dell’integrità fisica del bambino.
Come afferma la direttrice della Scuola Fasolo, Alessandra Bagni:
“Le norme sulla sicurezza a scuola prevedono spazi e arredi non più naturali, ma modificati da supporti protettivi per evitare di “farsi male”: alberi con la gomma piuma, pavimenti antitrauma da esterno, banchi incollati al pavimento, sono alcuni dei presìdi della sicurezza diventati così invasivi tanto da aver inibito le potenzialità naturali di apprendimento dei bambini, e quel bisogno di scoprire e conoscere il mondo attraverso l’esperienza diretta del gioco libero a cui essi sono biologicamente predisposti se lasciati liberi di muoversi nell’ambiente (Farné 2018)”.
LEGGI ANCHE:
Reale e virtuale
E allora, di nuovo, guardare con più attenzione al microcosmo creato da un gruppo integrato di bambini, ragazzi e adulti ci permette di apprezzare quella mobilità naturale che si crea quando la compresenza di diversi tempi e interessi sviluppa quel compendio naturale di concentrazione e ricerca, il moto dell’una vicino alla fissità dell’altro, tutti in azione con il mondo, in relazione con le sue caratteristiche, in interazione con le sue sfide.
Vedere quanto sia possibile la compresenza delle diversità nella salvaguardia della sicurezza di ognuno ci porta a una nuova riflessione e ci interroga, ad esempio, su cosa consegniamo a un bambino quando ha più capacità di far succedere cose nello spazio virtuale di un gioco elettronico piuttosto che in quello fisico della sua vita quotidiana. Perché forse è proprio il nostro desiderio di sicurezza che spinge il bambino nel virtuale e lo “spegne” di frustrazione per non poter agire sul mondo della sua quotidianità.
Il Maestro Manzi nel suo tentativo di non misurare i bambini rispetto a criteri esterni “oggettivamente” definiti, diceva di ciascun bambino: fa quel che può, quel che non può non fa. Era un modo per sfidare il sistema e ridare al bambino la sua soggettività, descriverlo rispetto al suo proprio impegno, tenendo conto del percorso di ciascuno, facendo entrare nel giudizio le condizioni di partenza, l’ambiente di vita, le capacità sociali, la maturità e gli interessi personali.
Sfide ancora aperte verso una scuola che, stimolata da quell’idea di uguaglianza tipica della produttività, più che al processo guarda al prodotto, più che al percorso, sempre individuale e irripetibile, guarda, e ipotizza, un traguardo uguale per tutte e tutti, rispetto al raggiungimento del quale misura i successi e i fallimenti.
Rimuovere le disuguaglianze
Nell’ingegno delle Pluriclassi, in quella classe di docenti necessariamente “artigiani” nella bottega del piccolo gruppo e non “capireparto” di una catena industriale dell’insegnamento, può quindi prendere corpo una risposta nuova alla sfida segnata dall’articolo 3 della nostra Costituzione, quello che affida alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Anche qui si parla dell’eguaglianza, ma rispetto a ciò che la impedisce, agli ostacoli che la negano e che sono da rimuovere, non con una risposta omologata, ma caso per caso, persona per persona, famiglia per famiglia, classe sociale per classe sociale, provenienza per provenienza. Da questa eguaglianza della “dignità” di ciascuno nasce la richiesta che la scuola eredita nel suo compito di condurre bambini e ragazzi nell’età adulta, verso quel ruolo di “lavoratori” a cui li destina la nostra Costituzione, fondata sul lavoro. La Scuola della Repubblica deve cioè saper scegliere se il suo obiettivo verso il bambino sia quello di inserirlo insegnandogli a “stare al proprio posto” o se invece si adopera per “fargli trovare il proprio posto nel mondo” guidandolo all’espressione di sé, alla sua misura, all’autonomia. È su questo dilemma che come educatori possiamo trovare l’anima o perderla per sempre.
.
L’articolo segue nasce dalle riflessioni fatte all’interno del progetto “Uno e Sette”del Consorzio CS di Potenza (selezionato da “Con i Bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile). Il Progetto ha coinvolto 14 piccoli Comuni delle aree interne della provincia di Potenza in cui a causa dello spopolamento e del dimensionamento scolastico sono state istituite le pluriclassi spesso etichettate come disfunzionali e come elemento di deprivazione educativa e socioculturale. La strategia di progetto si è basata sulla convinzione che proprio ciò che è considerato elemento di deprivazione (i gruppi eterogenei e la piccola dimensione rurale) possa diventare laboratorio sperimentale di riflessione socio-pedagogica e trasformarsi in una leva di innovazione e di qualità.
Questo intervento scaturisce in particolare dalla Tavola rotonda Pluriclasse: Cenerentola o Principe azzurro? svoltosi a Potenza il 14 dicembre 2023 in cui, con gli insegnanti coinvolti e i formatori del Progetto, l’autore si è confrontato, senza tralasciarne le criticità, su “come pratiche didattiche e contesti abitativi possano farsi miscela sorprendente, capaci di rivitalizzare anche realtà urbane post industriali ormai abituate a scuole – fabbrica dell’omologazione”.
LEGGI ANCHE L’INCHIESTA: