Si può proporre una “scuola di sopravvivenza in natura” come un momento nel quale imparare a cavarsela come un marines. Oppure in cui imparare a stare bene insieme ad altri ragazzi e ragazze provenienti da paesi diversi cercando di trasformare ogni difficoltà in opportunità per crescere, le vulnerabilità e il non sapere, a cominciare dal non saper fare, in possibilità, e l’idea di autonomia nella capacità di riconoscere come nell’interdipendenza ci sono il senso e la gioia
Si può fare scuola fuori dalla scuola, in campagna. Si può fare scuola anche con un caldo atroce. Si può fare scuola anche con adolescenti che non parlano la stessa lingua e che, per una settimana, vivono insieme. Si può fare scuola con corde, coltelli, accette, amache, erbe selvatiche, acqua razionata, scope, vecchi cartoni. Si può fare scuola di sopravvivenza in natura mettendo da parte i cellulari, dando spazio al gioco, al camminare, alle interminabili chiacchierate notturne, al buio, al sudore, alla capacità di soccorrere chi si fa male, alla possibilità di correre dei rischi (altrimenti non si cresce), all’inventiva, alla fatica, all’abbraccio, alla voglia di ridere e conoscere chi viene da un altro paese, al pianto al momento di lasciarsi.
Quest’estate, dal 26 luglio al 1° agosto, il nostro piccolo gruppo informale, “Il bastoncino verde”, è stato invitato a Tortosa, in Spagna, a sud di Barcellona, per lo scambio giovanile “Survival” (finanziato dal Programma UE “Erasmus plus”), dedicato a chi non fa l’università. Così, grazie all’associazione ospite “Obre’t Ebre” che ha ospitato lo scambio, venti ragazzi e ragazze tra i 13 e i 16 anni, provenienti da Italia, Spagna, Lettonia e Portogallo, hanno vissuto in una tenuta di permacultura.
La maggior parte degli adolescenti partecipanti non aveva mai viaggiato in Europa, in pochi avevano un’esperienza anche solo di un giorno o due a stretto contatto con la natura, in pochissimi erano abituati a stare in ambienti naturali. Io mi sono offerta come accompagnatrice di un gruppetto di cinque ragazzi, per offrire loro l’opportunità di un’esperienza diversa, consapevole sia del fatto che il mondo sta cambiando – e non a loro vantaggio -, sia di quello che io posso però fare. È vero, gli adolescenti di oggi sono purtroppo sempre più abituati a vivere solo in città, a muoversi solo in ambienti chiusi, a trovare informazioni solo su internet, a relazionarsi prevalentemente con chi è simile a loro, per status, colore della pelle, algoritmo. Sappiamo anche però che una manciata di giorni può fare la differenza, può far esperire loro la possibilità di un altro modo di vivere, di un mondo possibile, con una sana ecologia delle relazioni con gli altri esseri umani e con il resto della natura.
In una settimana abbiamo fatto tante cose, dall’imparare a “sopravvivere” in una cittadina di provincia con un solo euro in cinque, al presentare gli usi e i costumi del Paese in cui si vive; dall’imparare a riconoscere alcune piante edibili e altre velenose, al saper convivere con ragni e altri insetti; dall’insegnare alcune parole e parolacce nella propria lingua, alla cura condivisa per gli spazi comuni; dalla costruzione di forni solari con vecchi cartoni e carta di alluminio, alle basi del pronto soccorso in un ambiente isolato. Qualcuno ha anche provato a costruire un campo in una radura selvatica, per passarci la notte, sperimentando la fatica di prendere decisioni in gruppo, con lingue e visioni diverse. Quasi tutti, comunque, hanno dormito sotto le stelle. Ogni notte un grande terrazzo si riempiva di materassi, e non solo per avere un po’ di fresco. Ogni notte pian piano si costruiva una comunità capace di prendersi cura, l’uno dell’altro.
Non credo qui di poter raccontare tutto quello che è successo, quello che ci ha portato in pochi giorni a scardinare le paure, i pregiudizi e le divisioni culturali, semplicemente perché divertirsi insieme era meglio. Posso però raccontare un paio di aneddoti che credo siano molto significativi, e carichi di speranza attiva. Tutti e due sono aneddoti di gioco con elementi naturali: acqua e legno.
Il primo riguarda un tuffo nell’acqua alta della piscina comunale, nel pomeriggio dell’ultimo giorno dello scambio. La mattina, durante la sessione di valutazione di tutta la settimana, avevamo parlato, tra le altre cose, anche della fortuna che abbiamo noi, che possiamo giocare a montare un campo per sopravvivere al sole e alle intemperie per un giorno e una notte, con a disposizione solo qualche corda, qualche cartone e un telone di plastica, mentre milioni di rifugiati e sfollati, nel mondo, vivono anche per anni in queste condizioni, senza sapere se prima o poi potranno fare altro, nella vita, che aspettare e sperare di sopravvivere davvero. Avevo poi parlato con il coordinatore del gruppo lettone del film Green borders, consigliandogli di vederlo e di indicarlo ai ragazzi. Durante la serata culturale lettone, infatti, il loro gruppo aveva mostrato un bel video di un grande canto corale, con migliaia di persone unite per celebrare il proprio Paese. Tutte persone bionde, alte, pelle chiarissima, abiti eleganti. Tutto molto bello, certo, ma anche tutto molto lontano dalla marea di necessità che l’iniqua redistribuzione di ricchezze, l’ecocidio e il riscaldamento globale ci stanno portando. Troppo poco il tempo per parlare di massimi sistemi in uno scambio giovanile con adolescenti, ma era doveroso almeno accennare al mondo che viene lasciato invisibile dalla maggior parte dei media. Poi, nel pomeriggio, il gioco di tuffarsi in acqua insieme ha aperto la strada, non per parlare di accoglienza, bensì per praticarla. Un ragazzo del nostro gruppo italiano non sapeva nuotare, ma ce la metteva tutta per imparare e, soprattutto, aveva una voglia matta di potersi divertire tuffandosi, come gli altri. Così, due giovani ma per noi “enormi” ragazzi lettoni hanno letteralmente e metaforicamente fatto il salto culturale che ci aspettiamo da tutta l’Europa, tuffandosi nell’acqua insieme ad Abdullah, giovanissimo italo-bengalese, tenendolo per mano. La difficoltà di uno è diventata la possibilità per tutti, ed è stato molto semplice, molto bello e molto profondamente educativo al tempo stesso. Sì, perché si può intendere la scuola di sopravvivenza in Natura come una scuola in cui impari a cavartela come un “marines”, superando le avversità di una natura ostile, che percepisci come “altra da te”, e riuscendo a fare tutto al meglio, da solo. Oppure si può imparare a stare bene insieme agli altri, con quello che la nostra natura interna ed esterna ci offre, in cui ogni difficoltà diventa opportunità per crescere, come persone, insieme. La vulnerabilità e il non sapere – o il non saper fare – diventano una possibilità, e in modo concreto si capisce che, per sopravvivere, non serve essere autonomi: serve imparare a chiedere e a dare aiuto, riconoscere che nell’interdipendenza stanno il senso e la gioia.
Secondo aneddoto: di sera, dopo cena, ho proposto di fare un gioco, stando tutti seduti in cerchio. Abbiamo così sperimentato che si può fare scuola con un “pichicho” (che, con pronuncia spagnola, si legge “picicio”), ovvero con un gioco fatto quasi di niente… un bastoncino che deve riuscire a fare il giro di tutto il gruppo, seduto in cerchio. Ognuno chiede cos’è a chi glielo passa, nessuno sa rispondere, qualcuno si distrae o si sbaglia, e bisogna ricominciare, e saper attendere, tutti devono chiedere agli altri per poter andare avanti. Una metafora – quasi impercettibile – della vita. Qui il gioco però non è “usato” per insegnare qualcosa, ridendo. Nessuno ha spiegato a cosa il gioco può alludere. Anche perché io posso vederci questo, mentre un’altra persona può vederci tutt’altro. Si ride, sì, e molto, ma il gioco, con il suo carico di risate, non è “funzionale” a chi lo conduce. Il gioco ha finalmente la possibilità di essere anche e soprattutto “essenziale”. Può finalmente essere intenso, effimero, gioioso, scherzoso, provocatore di un delirio collettivo che non fa male a nessuno e che, anzi, restituisce a ognuno il suo posto nel mondo. Nel piccolo mondo del cerchio, del suono di una parola che, seppur non compresa, crea umanità. La confusione che si genera con il gioco del “pichicho e del pichocho” (altro legnetto, un filo diverso dal primo, che gira in senso inverso) è, a sua volta, generatrice. Genera benessere, allegria, senso del gruppo nel nonsenso del mondo. Genera la sensazione che tutti possiamo comunicare con una lingua franca, e non preoccuparci più dei possibili errori, del giudizio degli altri, dell’efficienza, dei risultati. Quello che conta, finalmente è il processo. Processo in cui ognuno si relaziona con i compagni che ha di lato, e anche con tutto il gruppo. Quando i due bastoncini, il pichicho e il pichocho, chiudono il cerchio, tornando a chi aveva fatto iniziare il giro, si raggiunge l’obiettivo, ma il gioco – il divertimento – finisce. Resta però in ognuno l’eco delle risate e delle parole insensate che – proprio perché insensate – hanno permesso di creare il senso dello stare insieme: il benessere.
Da anni pratico la L.E.N. (Ludo-Edu-Natura), ovvero una proposta di educazione non formale che riesce, al tempo stesso, a costruire fiducia (e quindi comunità), speranza (focalizzando l’attenzione su cosa si può fare) e consapevolezza degli equilibri degli ecosistemi (ovvero con un approccio di ecologia profonda), mettendosi in gioco (come propone la Ludopedagogia) con la Natura come co-docente. Grazie a questo scambio giovanile, anche attraverso la L.E.N., ho e abbiamo provato, insieme, ad alcuni bisogni fondamentali, non solo per gli e le adolescenti: il bisogno di socialità e relazioni autentiche, di divertirsi e rompere la fissità dell’educazione impartita a scuola, tra quattro mura, con voti e modalità autoritarie da parte degli adulti e giudicanti da parte di alcuni compagni; il bisogno di vivere esperienze interessanti in ambienti naturali, in cui poter sperimentare la propria forza, la propria capacità di movimento, attenzione, ascolto, cura, responsabilità, nonché la propria creatività; il bisogno di recuperare la speranza nel futuro, in considerazione della crisi ecologica e sociale di cui si sente parlare fin dalla più tenera età; il bisogno di sperimentarsi nell’acquisizione di lingue straniere e, prima ancora, nella voglia e nel bisogno di comunicare, superando la paura di sbagliare e di non avere cose interessanti da comunicare; il bisogno di stringere relazioni di amicizia e affetto con altri giovani, provenienti da altri Paesi, il bisogno di conoscere il mondo reale e la voglia di viaggiare.
Anche noi, anche se per poco, abbiamo provato a “migrare”: a lanciare il nostro cuore oltre il muro. Siamo poi tornati a casa stanchi, ma carichi di relazioni, che speriamo di ritrovare.