La capacità d’ascolto in città come condizione del fare, sull’abbrivio di una suggestione di Calvino riguardo ai due modi per non soffrire dell’inferno che abitiamo giorno dopo giorno: accettarlo e diventarne parte fino al punto di non vederlo più, oppure cercare e riconoscere, in mezzo all’inferno, quel che inferno non è. La condivisione e l’etica delle relazioni, i rischi dell’espansione e la necessità di andare ben oltre la coesistenza, la de-territorializzazione e la cittadinanza, vista non come meta ma come cammino. Una cittadinanza che non cerchi nell’identità o nella finalità la propria ragion d’essere ma possa e sappia trovarla nel valore della “cura” e nel suo nesso con la giustizia. Perché l’idea stessa di città è proprio “il frutto”che nasce dalla cura come dimensione ontologica di ogni esistere comunitario quanto individuale. Di una città non godi sempre le meraviglie, ma la risposta che sa dare ogni giorno a una tua domanda precisa

Nel libro “Le città invisibili”, Italo Calvino immagina Marco Polo descrivere al Kublai Kan le cinquantacinque città da lui visitate: tutte hanno nomi di donna. Mi ha sempre colpito questa scelta. I nomi sono importanti. Forse perché nulla come il “femminile” è in grado di evocare costruttività ed utopia, fragilità e forza, concretezza e sensibilità. È delle città che vogliono preservare la propria ” umanità” avere nomi femminili o saper dare forma e voce alla “femminilità”.
Il libro si conclude con questa riflessione dell’autore:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Faccio mia questa potente suggestione, filtrandola attraverso il mio sentire, e provo a cercare cosa – in mezzo all’inferno di una città come Roma – inferno non è.
Non è inferno “condividere”. Vivere la propria città non solo come il luogo in cui è ubicata la propria casa ma come “grande casa” comune. Una casa sempre più grande. Con i suoi oltre 4 milioni di abitanti Roma è, tecnicamente, una metropoli.
Espandersi espone ogni città al rischio di essere principalmente usata, occupata, praticata, fagocitata, deturpata, manipolata, di ridursi a luogo in cui lavorare, produrre, guadagnare. Espandersi amplia e moltiplica dissolvendo qualunque forma di appartenenza. Espandersi implica assumere come propria la dimensione multiculturale, multietnica, multi religiosa.
Cittadinanza non è una meta piuttosto un cammino. Nel significato di questa parola, intrecciati come le eliche del dna i retaggi del nostro passato: quello della polis greca e della civitas latina. Ogni riflessione è inevitabilmente filtrata attraverso queste categorie che formano la trama con cui abbiamo tessuto ogni “visione” di coabitazione urbana.
Dalla polis una cittadinanza concepita come condivisione delle stesse radici, costumi e prassi comuni, la città è il risultato di una comune origine. C’è un noi – cittadini, simili – e poi ci sono gli altri, diversi da noi.
Dalla civitas una visione che fonda la cittadinanza non sulla comunanza delle origini ma sulla comunanza di una stessa finalità. Persone con diverse origini e culture scelgono di condividere leggi comuni.
Assumere la sfida del tempo che viviamo, un tempo in cui globale e particolare possano proficuamente convivere, dovrebbe generare una cittadinanza che non cerchi nell’identità o nella finalità la propria ragion d’essere ma possa e sappia trovarla nel valore della “cura”. Nell’assumere la cura per sé, per l’altro, per il mondo come essenza di ogni crescita e di ogni fecondità umana. Città è “il frutto” che nasce dalla cura.
Dalla cura di tutti. Cura come dimensione ontologica di ogni esistere comunitario quanto individuale. Prendersi cura – a qualunque livello, forma o grado: un marciapiede, un’infrastruttura, un’aiuola, un ufficio – dovrebbe poter diventare lingua comune, cittadino: chiunque la parli.

Ripenso agli scontri che avvennero nel 2005 nelle banlieue parigine. L’analisi sociologica sottolineò come, al di là delle cause contingenti, quegli scontri raccontassero, oltre al disagio sociale ed alle disuguaglianze, il cortocircuito del dover vivere in una città sentendosene contemporaneamente respinti.
Abitare una città non può essere limitato all’offrire risposte alla domanda abitativa (cui bisogna certamente comunque rispondere). Abitare una città, perché possa generare nuove forme di cittadinanza, dovrebbe oltrepassare il “cosa”: la casa ed assumere il come: la cura. Prendersi cura è realizzare qualità degli spazi, sostenere condizioni di benessere individuale e collettivo, alimentare stili di vita salutari e sostenibili.
Ciò che accadde nelle banlieue nl 2005 è parte di un fenomeno più ampio che perdura e che coinvolge potenzialmente molte città inclusa Roma. E’ il fenomeno della de-territorializzazione: le persone non si identificano più con le realtà locali. Questo fenomeno “fa sì che tutti i processi di integrazione rallentino e seguano percorsi imprevedibili” (Mario Pollo)
Un tema ineludibile anche oggi, a Roma, considerando quanto appena pubblicato dall’Osservatorio Romano sulle Migrazioni ad opera del Centro Studi e Ricerche IDOS con il sostegno dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”: “Un’immigrazione stanziale ma il cui percorso di inserimento in condizioni di effettiva parità e mobilità sociale appare sospeso, fermo a un livello di subalterna coesistenza, in cui permangono differenze profonde di opportunità tra italiani e immigrati, anche di nuova generazione”.
E’ quindi necessario, e non solo interessante, approfondire il senso del “prendersi cura”. Un contributo significativo, in tal senso, è stato espresso da Carol Gilligan, psicologa e ricercatrice americana, la quale nel suo famoso testo – “In a Different Voice ” – elabora due diverse modalità etiche, una maschile e una femminile.
La tesi della Gilligan è che l’etica delle donne è semplicemente un’etica più “relazionale”. Per la studiosa le donne fondano la loro etica sulle relazioni, i legami tra gli esseri umani, in continuità con il rapporto primordiale con la madre. La cura assume un ruolo centrale, quello che nel passato avevano avuto nozioni quali il dovere e la virtù.
Il concetto di cura necessita il riconoscimento dell’altro e del suo valore, il preoccuparsi per qualcuno, l’interessarsi alla sua condizione di vulnerabilità: prendersi cura significa porsi in un atteggiamento di empatia (capacità di sentire insieme all’altro) e di sollecitudine, suscitate da un senso morale verso l’altro, il tutto fondato su un rapporto di fiducia.
Interessante come la ricercatrice americana ritenga che la cura non è una categoria esclusiva della sfera femminile, ma appartenga ad ogni essere umano (maschio/femmina) in quanto responsabile nei confronti di chi ha bisogno di cure e di aiuto perché verte in condizione di debolezza e fragilità.
“Se cura e giustizia sono concetti diversi, la loro diversità non li pone in termini antitetici: la cura non vuole contrapporsi né tanto meno sostituirsi alla giustizia; la cura, semplicemente, completa il valore della giustizia. L’etica della cura sembra proporsi così come una prospettiva adeguata alla società globale nella quale viviamo, in quanto manifesta la capacità di rispondere al bisogno e al disagio universale del quale ogni essere umano è portatore.
Essa rappresenta e soddisfa la necessità di una interdipendenza positiva su scala planetaria. La cura, in altri termini, non è solo un principio morale ma è anche un impegno reale e continuo che implica un coinvolgimento emotivo e una determinazione a raggiungere obiettivi concreti”. (Simona Parisi)

Tra gli obiettivi concreti da raggiungere attraverso il prendersi cura c’è quale risposta offrire alla fragilità, ad iniziare dalla fragilità di genere. Servono risposte che presuppongano proprio la capacità di mettersi nei panni altrui, di ascoltare ed accogliere i limiti sapendo poi trasformarli in opportunità.
Così è accaduto a Vienna, alcuni anni fa, dopo che un’accurata indagine sulle modalità con cui le donne affrontano quotidianamente i loro spostamenti ha rivelato quanto questi siano complessi e intricati dovendo farsi carico delle necessità loro e di tutto il nucleo familiare. (andare e tornare dal lavoro, gli accompagnamenti dei figli alle varie attività, l’accudimento dei genitori, la partecipazione alla vita sociale)
È nato così un piano per migliorare la rete di autobus e metro, ma anche lo stato dei marciapiedi e le piste ciclabili. Per le donne che lavorano sono stati realizzati tre complessi abitativi (Frauen-Werk-Stadt) serviti dai mezzi pubblici, con asili, farmacia, medici sotto casa e spazi giochi sicuri per i bambini.
Ascoltare è già prendersi cura. È non ridurre ogni servizio a scelte precostituite dove ogni diversità è annullata. Le diversità esistono e l’uguaglianza reale può realizzarsi solo assumendo queste diversità in modo da tradurle in diverse risposte.
Una recente ricerca francese ha rivelato che il 100% delle donne che usano mezzi pubblici è stata vittima, almeno una volta nella loro vita, di molestie sessuali o aggressioni. Tra le tante diverse soluzione il potenziamento dell’illuminazione, la scelta in alcune città di riservare alcuni vagoni della metro solo alle donne, la realizzazione di app con cui segnalare rischi o pericoli.
Rispondere ad un bisogno, assumere la fragilità di qualcuno come propria, ascoltare ed ascoltarsi reciprocamente, arrivare a rendere Roma una città a misura della diversità come della fragilità, è l’unico vero indice della sua civiltà, un termine che etimologicamente deriva da civilis che a sua volta deriva da civis: cittadino. Non c’è civiltà senza una cittadinanza capace di prendersi cura gli uni degli altri e delle altre.
Calvino in un passo del libro “Le città invisibili” scrive: «Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda». La mia a Roma è: vuoi prenderti cura di me?
Un distillato di “catto sinistrismo”
che brutto articolo! Alla forma, peraltro cacofonica, si sacrifica il contenuto. Inutile, se si esclude l’autoammirazione per la propria cultura, il gancio su Calvino. Insomma puri chiasmi privi di sostanza. O, forse, la sostanza c’è, ma mirabilmente nascosta. Insufficienza grave
Mi è stato segnalato quest’articolo da Flavia, la mia prof di stile e retorica, che lo aveva preso ad esempio di quando un contenuto, che potrebbe essere anche interessante (la città che si prende cura dei suoi cittadini) viene mortificato e annullato per il solipsismo della redattrice o del redattore (Gaia Spera è troppo allegorico, penso, per non essere uno pseudonimo).
Penso che, effettivamente, sia proprio così: l’infinito amore che l’autore manifesta verso se stesso, nell’indulgere in figure retoriche, nella ricerca dell’originale e nell’esposizione “vezzosa” e circonvoluta sono un perfetto esempio di quello che non si dovrebbe fare. Sopprimere il contenuto per la ricerca di una forma espositiva che gratifica l’io dell’autore e manca di rispetto verso il lettore.