Se le società capitaliste, segnate in profondità dalle illusioni generate dal mito dello sviluppo, si riproducono attraverso il sistema educativo, cosa accade invece nelle persone, nelle comunità e nei popoli che organizzano il proprio apprendimento in maniera autonoma? Cosa succede nel tessuto sociale, come si trasforma, come comincia a riprodursi in maniera differente? E come potrebbe tutto ciò portare alla creazione di una società altra? È partito da questi essenziali interrogativi, ispirati dal pensiero di Ivan Illich, il percorso che Claudio Orrù racconta in questo prezioso testo esperienziale, uno dei più significativi tra quelli che compongono il più recente libro di Aldo Zanchetta. Quel percorso comincia con l’arrivo all’Università della Terra di Oaxaca, Messico, dove tutto il “fare” si vive come potenziale “imparare”: dal costruire una cucina conviviale in terra cruda al leggere ad alta voce e studiare insieme un libro, dal progettare una radio comunitaria al sedersi attorno a un tavolo e riflettere su quel che accade nel mondo. L’Unitierra, racconta Claudio, era ed è un luogo dove il sapere si rende vivo grazie all’interesse, alla volontà e all’organizzazione di chi sceglie di voler imparare. Un’attività che impone, in primo luogo, la necessità di cambiare e stimolare modi diversi di guardare la realtà, al fine di poter provare a trasformarla. È un cammino verso l’autonomia, quello che segna Orrù, lo stesso che lo riporterà poi a Bauladu, piccolo centro a dieci minuti da Oristano, dove tra i lentischi e gli olivastri nasce uno straordinario progetto educativo in natura, comunitario e autogestito. Prende il nome di Tana nel Bosco e coinvolge bimbe e bimbi dai 2 ai 6 anni. Il percorso interno di apprendimento nella sua scuoletta è portato avanti insieme a bimbi e bimbe attraverso un’assemblea quotidiana. Ogni giorno ci si trova in cerchio per parlare e ascoltare, esprimendo desideri, sogni, conflitti e prendendo decisioni su ciò che si vuol fare e imparare in quel giorno. In risonanza con le idee di Illich, alla scuoletta si pensa che il sapere non stia fuori di noi e neanche solo dentro, ma nella creazione di relazioni con il mondo che ci circonda, compresi conflitti e difficoltà, nell’incontro tra “l’altro” e il “noi”, visti come entità tutt’altro che statiche ma in continua trasformazione. Fa bene al cuore e fa bene al mondo riuscire a ritrovare uno sguardo nuovo per guardarci dentro
Nel 2012 arrivai all’Università della Terra di Oaxaca, Messico. Ero partito da Bologna, la città dove vivevo in quel periodo per via dei miei studi universitari. La mia intenzione era quella di svolgere la ricerca per una tesi di laurea magistrale in pedagogia che ruotasse attorno all’idea di Ivan Illich di descolarizzazione della società. Si trattava in parte di un pretesto per conoscere qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quello che avevo vissuto come processo di apprendimento fino a quel momento della mia vita. La sentii nominare per la prima volta diversi anni prima, al convivio dedicato a Illich a cui mi aveva invitato Tore Panu nel 2008 negli spazi del centro sociale XM24, a Bologna. Stavo cercando tracce di luoghi del mondo in cui le idee folgoranti di Illich di critica radicale alla società dello sviluppo venissero messe in pratica e non solo teorizzate. Così nel dopo cena di quel bellissimo convivio, tenutosi nella sala concerti scalcinata del centro sociale, mi avvicinai a un signore di Lucca che sembrava sapere tante cose sul pensiero di Illich e sui suoi risvolti. Ricordo che gli chiesi: «Ma c’è qualcuno che sta mettendo in pratica le idee di Illich in giro per il mondo?». Lui mi rispose: «Potresti provare con l’Università della Terra in Messico». Il signore di Lucca era, ovviamente, Aldo Zanchetta.
Così, qualche anno più tardi, riuscii davvero a vincere una borsa di studio per andare in Messico e scoprire che sì, esisteva un luogo dove si cercava di mettere in pratica quelle idee rivoluzionarie che, dal mio punto di vista, nessuno aveva ancora preso seriamente nelle nostre latitudini.
Le domande di partenza della mia ricerca erano direttamente legate ad una delle tesi più importanti di Illich sul sapere, la sua istituzionalizzazione e le conseguenze che ciò comporta sull’individuo moderno, e cioè: se le società capitaliste e sviluppiste costituiscono la propria riproduzione attraverso il sistema educativo e la sua produzione di scarsità, cosa accade nelle persone, nelle comunità e nei popoli che organizzano il proprio apprendimento in maniera autonoma? Cosa succede nel tessuto sociale, come si trasforma, come comincia a riprodursi in maniera differente? E come tutto ciò porta alla creazione di una società altra?
Erano domande che mi ponevo da un punto di vista personale e politico, ancora prima che accademico. Così, la lettura dei libri di Ivan e le idee che questi avevano messo in moto nella mia testa mi portarono a scoprire un mondo fatto di percezioni e conoscenze che mai avrei potuto immaginare prima. In primo luogo, vivere e imparare al di fuori di una istituzione totalizzante era qualcosa che forse mai mi era capitato: non avevo idea di come potesse funzionare. Vivendola nella pratica, risultò essere tanto semplice quanto sorprendente. Tutto il ‘fare’ era considerato un possibile ‘imparare’ e si concretizzava in forme molto diverse: andare in una comunità della regione e costruire insieme ai suoi comuneros una cucina in terra cruda (strumento conviviale che permette di risparmiare legna e non respirare il relativo fumo all’interno delle mura domestiche); leggere ad alta voce e studiare un libro collettivamente a casa di una compagna; costruire e progettare in gruppo una radio comunitaria e studiare come farla funzionare; sedersi attorno ad una grande tavolata e riflettere su ciò che stava succedendo attorno a noi e nel resto del mondo.
Le forme e le sfumature del sapere nel suo farsi pratica erano pressoché infinite, e l’impronta della critica radicale del pensiero di Illich e della sua cassetta degli attrezzi era evidente: la centralità degli strumenti conviviali nella creazione dell’autonomia comunitaria; la forte critica al modo di comportarsi delle ONG nel creare ‘cooperazione’ nel tessuto locale; la capacità di rimodellare il linguaggio comune mettendo ai margini le ‘parole di plastica’ che riempiono di nonsenso le nostre conversazioni e il nostro modo di intendere la realtà; solo per citarne alcune. In questo ri-orientare la riappropriazione del sapere e nel legarlo all’eredità di Illich, fondamentale fu il contributo di uno dei fondatori, nonché coordinatore, dell’Unitierra: Gustavo Esteva, amico e collaboratore storico dello stesso Illich. Gustavo riportava costantemente lo sguardo di Ivan sul quotidiano agire dell’Unitierra, citando suoi aneddoti e facendo continue precisazioni sul proprio modo di intendere il pensiero di Ivan, che era improntato a smuovere la capacità concreta di agire delle persone, anziché fossilizzarsi solo sulle teorizzazioni. Era come se Illich continuasse ad emanare la sua presenza attraverso la testimonianza del suo amico.
Il contributo di Gustavo lasciava un forte solco soprattutto nelle riflessioni collettive fatte attorno al grande tavolo dell’Unitierra, chiamate seminari o ‘conversatori’, appuntamenti fissi che per anni si sono tenuti (e si tengono ancora oggi) sempre lo stesso giorno della settimana e alla stessa ora. Uno dei suoi contributi fondamentali all’interno del seminario era stimolare modi ‘altri’ di guardare la realtà: saper distinguere quando si guarda verso l’alto (mirar arriba), cioè quando si osserva ciò che è in arrivo da governi, mercati, istituzioni, cioè da parte di coloro che stanno cercando di schiacciarci, e riscoprire l’importanza del saper guardare in basso (mirar abajo), cioè rivolgere lo sguardo ai movimenti, le comunità, i territori e i collettivi per renderci conto che tanti e tante stanno camminando verso la prospettiva dell’autonomia, vale a dire verso ciò che è alla loro portata. E il senso di questo guardare in basso – e da lì cercare di agire – traeva forza da una premessa che veniva ribadita costantemente: la consapevolezza che non ci si può aspettare che dei cambiamenti positivi arrivino dall’alto, ma che solo dal basso, dai popoli, dalla gente comune, dalla società nel suo farsi concreta trama di relazioni e non idea astratta, possono sorgere le uniche risposte alla grave situazione di crisi (ecologica, politica, sociale) in cui siamo sempre più drammaticamente immersi.
Fu un vero e proprio sentiero di trasformazione e allenamento dello sguardo; dopo quel percorso avremmo visto il mondo in un altro modo, l’avremmo nominato con altre parole, avremmo camminato in esso, lottando, con altre prospettive. L’Unitierra era ed è un luogo dove il sapere si rende vivo grazie all’interesse, la volontà e l’organizzazione di chi sceglie di voler imparare. Attraverso questo processo, è come se venissero deposti semi di trasformazione nei partecipanti, portando ad un lento cambiamento dello sguardo, del parlare, del fare.
Dopo aver camminato per un po’ dentro all’Unitierra, tanti di questi ‘semi’ da lì si sarebbero poi sparsi altrove: alcuni partecipanti sarebbero tornati nel loro territorio di provenienza, altri si sarebbero spostati in nuovi luoghi; tanti e tante si sarebbero ritrovati a contagiare la realtà con pratiche nuove o vecchie, stimolando nuovi modi d’agire.
Grazie alla tesi che stavo svolgendo, potei parlare con decine di persone che a quel tempo o in periodi precedenti avevano frequentato l’Unitierra.
Ebbi la possibilità di ascoltare come questa trasformazione si fosse declinata nelle loro vite personali e da lì nei loro contesti comunitari di riferimento: il disertore della scuola istituzionale che diventa un videomaker nei movimenti per la difesa dei territori; il ragazzo della comunità indigena che impara a gestire tecnologie per la potabilizzazione dell’acqua e torna alla propria comunità per poter dare il suo contributo; il collettivo di attivisti che si trasforma in una cooperativa editoriale autogestita e contribuisce alla diffusione di nuovi sguardi sul mondo sociale e politico; ma di questi esempi se ne potrebbero fare a decine.
E questo è ciò che credo sia successo anche a me dopo il mio percorso di apprendimento di quell’anno che trascorsi a Oaxaca. Al mio ritorno, una volta conclusa, misi da parte l’università. E fu grazie al percorso fatto nell’Unitierra che sorsero dubbi e domande su cosa avrei voluto fare da quel momento in poi. Provai la sensazione molto chiara che, una volta apertosi quello sguardo, non avrei più potuto tornare indietro a come vedevo prima. Non avrei potuto fare finta di niente. Man mano che ‘traducevo’ faticosamente l’esperienza appena trascorsa nel contesto occidentale in cui ero tornato,[i] cominciai a pormi una serie di domande.
Dove avrei voluto da quel momento mettere radici, in maniera tale che queste potessero dare forza e vitalità ad un contesto che fosse radicalmente relazionato con la storia che più mi apparteneva? Dove sentivo più sensato seminare a mia volta, cioè costruire in una prospettiva a lungo termine insieme ad altri e altre?
Ci ho messo alcuni anni, prima di riuscire a trovare le risposte giuste. Dopo diverse esperienze estremamente importanti, ho deciso di tornare in Sardegna, la mia terra d’origine da cui a 19 anni mi ero allontanato. Con questo nuovo sguardo, mi resi conto delle lotte che qui da tanto tempo erano già in corso, contro il processo storico di sfruttamento e di colonizzazione interna creato dal processo di ‘sviluppo’ occidentale europeo e italiano; contro l’occupazione militare della NATO (due dei tre poligoni militari presenti in Sardegna sono i più grandi d’Europa) grazie a cui gli eserciti dell’Occidente si addestrano per preparare le guerre che permetteranno il saccheggio di mezzo mondo (creando nel mentre disastri ambientali irreversibili nella nostra terra);[ii] contro l’estrattivismo energetico (sia fossile, legato alla petrolchimica impiantata negli anni Sessanta, sia legato alle tecnologie rinnovabili e alla finta transizione che sta prendendo piede in questi anni);[iii] contro la distruzione dell’economia dei nostri territori perpetrata dal turismo di massa o di lusso dei super-ricchi del pianeta.
Mi resi conto del ruolo fondamentale ricoperto dall’educazione nel secolo scorso per creare le condizioni affinché tutto ciò diventasse possibile (e che di fatto aveva contribuito anche al mio stesso allontanamento dall’isola): la cancellazione della memoria storica del nostro passato recente e lontano; la creazione e diffusione di un senso di vergogna interiorizzato tra la gente rispetto alle nostre lingue vernacolari; la repressione dello Stato verso le nostre comunità (le nostre biddas); il disprezzo e il relativo allontanamento emotivo rispetto al mondo contadino e pastorale, con i suoi riti, i suoi modi organizzativi e le espressioni del proprio modo d’essere.
Così, dopo un lungo girovagare nel corso degli anni successivi, trovando nuovi compagni di viaggio, tra cui il gruppo di ricerca Agoa, lo sforzo si è concentrato sul creare insieme a loro una possibilità per imparare nella relazione col territorio che si abita e con le persone e comunità che lo custodiscono e proteggono. Incontrando diverse famiglie ed educatrici abbiamo cercato di piantare il nostro semino, dando vita ad un progetto educativo in natura, comunitario e autogestito, che prende il nome di Tana nel Bosco[iv] e che coinvolge bimbe e bimbi dai 2 ai 6 anni. Ha la sua base in una piccola casetta comunale costruita in mezzo ad un bosco di olivastri e lentischi nei pressi del paese di Bauladu (Oristano), che conta quasi 700 abitanti. Il progetto è autogestito attraverso un’assemblea, in cui noi ‘maestri’ e i familiari dei bimbi riflettiamo assieme sul senso del progetto, ci confrontiamo sulle difficoltà della genitorialità e dell’educazione, ma anche organizziamo e ci prendiamo cura degli aspetti materiali che permettono l’esistenza della scuoletta: pulire quotidianamente i locali, cucinare ogni giorno per i bimbi, organizzare lavori comunitari per mettere insieme le risorse economiche per poter dare un compenso giusto ai maestri, e immaginare attività che coinvolgano il tessuto sociale comunitario circostante.
Il percorso interno di apprendimento della scuoletta è portato avanti insieme a bimbi e bimbe attraverso un’assemblea quotidiana. Ogni giorno ci troviamo in cerchio per parlare e ascoltare, esprimendo i nostri desideri, sogni, conflitti e prendendo decisioni su ciò che vogliamo fare e imparare in quel giorno. In maniera simile a ciò che ebbi modo di respirare all’Unitierra e che sento essere un lascito del profondo pensiero di Illich, crediamo che il sapere non stia fuori di noi e neanche unicamente dentro di noi, ma bensì nella creazione di relazioni con la realtà e la sua abbondanza, con il mondo che ci circonda, i suoi conflitti e difficoltà, nell’incontro tra l’altro e il noi, imparando da tutto ciò che ci muove e che muove il nostro cuore, aprendo gli occhi e guardando il mondo con un nuovo sguardo.
Ci diciamo spesso che questo nostro percorso è un imparare dal territorio, nel suo essere un incontro tra natura e cultura. Questo significa stare in contatto con la natura e da essa apprendere, giorno dopo giorno, osservandola e ascoltandola nelle sue ripetizioni e nei suoi cambiamenti: dal pero selvatico che si sveglia dall’inverno, comincia a fare le sue gemme, poi fiorisce, attira le api e comincia a dare i suoi frutti; dai fiumiciattoli che si seccano e poi riprendono vita con l’arrivo delle piogge di novembre; o nell’osservare come un piccolo animaletto morto trovato per caso sul nostro sentiero ritorna giorno dopo giorno ad essere terra. Territorio, si dice, non è sinonimo di terra; non si tratta infatti di imparare esclusivamente dalla natura, bensì di entrare in relazione con quel mondo che fino ad ora l’ha protetta, curata, e che su di essa si è plasmato. Si tratta di conoscere e imparare da chi in campagna lavora ogni giorno, da contadini ma soprattutto da allevatori, sempre molto contenti di rivedere bimbi e bimbe che imparano in un ambiente non programmato, esattamente come avveniva nella loro infanzia. Significa riavvicinarci e parlare la lingua sarda, ascoltandola e imparandola una settimana dopo l’altra dagli anziani del paese, in particolare da Tzia Cenza, che ogni mercoledì aspetta bimbi e bimbe di fronte a casa sua per tramandare filastrocche, canti, giochi o per condividere qualche chiacchiera. Comporta seguire la comunità che ci ospita, partecipando alle sue feste e ai rituali che scandiscono i cicli dell’anno, come la festa di Santa Ittoria, a ridosso del 15 maggio, quando il paese sale al suo colle in processione e accende in onore della Santa un grandissimo falò. Ma vuol dire anche riconoscere l’importanza dei luoghi della memoria di ciò che ci hanno lasciato i nostri antenati quasi 4000 anni fa: prendere gli zainetti, mettersi in cammino ed esplorare costantemente nuraghi, tombe di giganti, domus de janas e fonti sacre che abbondano nel nostro territorio e che tuttora lo vegliano in silenzio.
Grazie al territorio, stiamo imparando a partire da ciò che siamo e siamo stati, per poter decidere con consapevolezza cosa vogliamo essere domani.
Siamo consapevoli che non si tratta di costruire né una ‘isola felice’ né una ‘gabbia dorata’, ma che bisogna provare, a partire dal piccolo, a contagiare chi ci circonda, i nostri vicini, amici, la scuola tradizionale, i paesi e le comunità limitrofi.
Dal mio punto di vista, i semi che stiamo spargendo mettono in discussione il modo in cui si impara all’interno di tutta la società; la stessa rivoluzione dello sguardo di cui ho parlato a lungo può andare nella direzione di ciò che vogliamo costruire per il mondo altro che vogliamo, ma anche a sostegno delle lotte presenti contro ciò che opprime e devasta i nostri territori. In questo senso immaginare spazi di apprendimento, radicati nei territori, che non siano limitati alla sola infanzia, diventa non solo fondamentale, ma anche urgente.
Per concludere, comincio a rendermi conto ora, a dieci anni da quella mia prima esperienza in Messico, che se ciò di cui scrivo può essere inteso come un riverbero personale di ciò che imparai all’Unitierra, è di certo anche un risveglio in chiave comunitaria di quei sensi perduti di cui Illich a lungo aveva parlato nell’ultima parte della sua opera. Dare voce a questo risveglio non è solo un desiderio, è già un camminare collettivo, ma percorrere il sentiero dei popoli e delle comunità ha bisogno di tempi lenti, e quindi lunghi. Sarebbe molto bello, più avanti negli anni, poter raccontare ciò a cui avranno dato vita questi semi di speranza in questo angolo del mondo. Io mi auguro che tra i loro germogli ci sia, prima o poi, anche qualche bosco.
[i] Un tentativo importante di raccontare l’esperienza che vissi all’Unitierra fu l’intervento fatto insieme ad Irene Ragazzini nel convivio dedicato a Ivan Illich che si tenne a Lucca nel 2012. Una sua rielaborazione scritta può essere trovata qui:
[ii] Una lucida cronaca di ciò che succede in Sardegna per via delle basi militari può essere letta qui: https://serenoregis.org/2021/09/10/eserci tazioni-militari-in-sardegna-e-generali-a-processo/.
[iii] Uno degli attori recentemente nati contro questi processi di saccheggio è l’assemblea per la democrazia energetica della Sardegna, di cui potete trovare alcune informazioni su: https://www.facebook.com/ades. assemblea.
[iv] Alcune informazioni sul progetto possono essere rintracciate su: https://www.facebook.com/nelboscolatana.
monica cellini dice
Bellissimo articolo e bellissima esperienza
grazie è stato un bel nutrimento
monica