
Qualche giorno fa sono stati resi noti i dati del Rapporto Istat su Natalità e Fecondità del 2021. Ricostruendo le principali evidenze messe in risalto dalla stampa nazionale si evince in sintesi che: diminuiscono ancora le nascite rispetto al 2020 (circa 4.500 in meno), soprattutto da parte di coppie italiane; aumentano le nascita fuori dai matrimoni (159.821 nel 2021, vale a dire quasi 40 per cento del totale e più 14mila rispetto al 2020, nonché più 47mila rispetto al 2008) e questa tendenza sta riguardando ormai anche il Sud e specialmente le coppie con entrambi genitori italiani; sul numero medio di figli per donna le regioni del Nord fanno da traino rispetto a un Sud, diciamo, stanco.
Partecipando come tutor a un progetto su “spopolamento dei paesi e strumenti di contrasto” qualche settimana fa a Bari, ho potuto incontrare giovani donne che hanno raccontato quanto sia per loro difficile veicolare i propri modelli culturali in realtà, seppur limitrofe al capoluogo di Regione, che le descrivono sempre bisognose di “accompagno”. È molto chiaro che le strutture culturali in vigore generano il senso e le parole con cui si veicolano, si trasmettono e si costruiscono le nostre care e tranquille normalità. Tranquille però non per tutte, evidentemente.
Ho raccolto la loro preziosa voce cercando di soffermarmi sul senso che stavano cercando di trasmettermi: lo spopolamento è generato anche dall’impossibilità di affermare il bisogno di muoversi e spostarsi nei propri contesti di riferimento attraverso il libero esercizio dei propri bisogni e dei propri desideri. Questo riguarda in particolar modo i giovani e le giovani donne. Sia che si tratti di dover affrontare la percorrenza di 15 chilometri in un’ora e trenta minuti, sia che si tratti di liberare il diritto di andare al cinema magari da sola, queste testimonianze preziosissime mi hanno suggerito una pista di ricerca che trovo interessantissima.
Quando si parla di spopolamento e denatalità spesso non si fa abbastanza caso a quanto anche le strutture culturali, le mentalità diffuse, le aspettative sociali per giovani e giovani donne sia in realtà fattore di spinta ad alimentare il fenomeno, specie quando non si riescono a costruire collettivamente strumenti capaci di trasformare questi conflitti sottesi in nuovi scenari sociali e culturali. Andare via diventa una soluzione che apre a nuove opportunità, ma che a mio avviso non scioglie mai fino in fondo il nodo iniziale dal quale si sta scappando.
Bisogna dunque sforzarsi di agire anche nei propri contesti di riferimento. E questo non interpella solo i giovani, ma tutti gli operatori e gli attori economici, sociali, politici e istituzionali che abitano i territori. È necessario uno sforzo comune.
Occupandomi da un paio d’anni di aree interne del Mezzogiorno mi sono in questi giorni imbattuta su un testo che a proposito di borghi e paesi sembrerebbe essere un manuale enciclopedico, se non altro per il numero di esperienze e casi citati. Lo ha scritto un’antropologa di Palermo che si chiama Anna Rizzo e si intitola I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia. Lo consiglio a chi studia l’argomento e anche a chi vuole provare a ritrovare uno sguardo concreto sulle cose, senza fermarsi alla costruzione sociale che di esse fanno il marketing e lo storytelling più speculativi e aggressivi sui paesi.
Anna a un certo punto scrive:
“Lo spopolamento dell’Italia non è causato dalla denatalità, ma dal fatto che le donne scelgono di mettere se stesse al primo posto e ricavare spazi di autonomia per la propria crescita personale. Chi poteva se né andata per studiare, lavorare o allontanarsi dal paese. Chi non aveva strumenti economici, educativi, psichici è rimasta incastrata in sistemi culturali, familiari, linguistici particolarmente retrogradi”.
Mi fido molto degli antropologi di sostanza, anche perché anche io in passato ho avuto l’onore di formarmi alla scuola deMartiniana di Amalia Signorelli. L’antropologia culturale, se fatta bene, ti entra dentro a botte di “decostruzionismo” e non ti abbandona più. E così in tutto il mio percorso di formazione sociologica l’ho tenuta con me come un enorme e prezioso patrimonio culturale e metodologico a cui attingere. Tutt’ora lo faccio, mi considero infatti una sociologa dei processi culturali, seppur il mondo della ricerca porti spesso a occuparsi anche di altro.
Ho trovato in queste parole di Anna uno strumento e una chiave di lettura di un fenomeno sul quale si dovrebbero scrivere le nuove programmazioni economiche e sociali previste dal Pnrr e dagli enti di sviluppo territoriali, ma che spesso – nella maggior parte dei casi ma fortunatamente non in tutti – non tengono conto di questi elementi trasformativi nel sentire e negli imprinting formativi delle giovani generazioni, nelle loro strutture di significato, che sono molto distanti da quelle che reggono la realtà nella quale si trovano – obtorto collo – a vivere.
Spesso il rischio più ricorrente è quello più facile di proporre meccanismi di colpevolizzazione e stigmatizzazione: i giovani che non vogliono lavorare, i giovani che pensano solo a giocare, giovani donne dai facili costumi, non c’è più pudore, non è più come una volta. Ma chi prova a raccogliere questa potenza aspirazionale e a farne materia di sviluppo?
Bene, io penso che questa materia incandescente abbia un’enorme valore economico e sociale e penso che se non iniziamo ad aprire le nostre finestrelle di pensiero, ad abbandonare vecchi preconcetti, logiche di controllo che ci rendono schiavi del passato, non riusciremo a generare né un dialogo con i nostri figli, né a metterli a loro agio, né a permettere che questo mondo apra delle crepe di mutamento che gioverebbero all’intera comunità nazionale, borghi e paesi compresi.
Bisogna imparare a costruire nuove narrazioni anche sullo spopolamento; ad andare oltre l’oggettivazione dei significati, delle parole, dei comportamenti e delle relazioni, quando questi non hanno più valore di esistere; per recuperare quel bisogno di verità che ci porta a contatto e vicini ai bisogni materiali di chi parte perché non ha alternative, o perisce perché non trova via d’uscita. Sono i paesi la soluzione, i territori dai quali si fugge. È qui che bisogna costruire le condizioni giuste affinché andare o tornare possa riguardare una scelta che accomuna tutti, non solo i cosiddetti “migliori”, altra retorica che non tiene conto dei livelli di disuguaglianza diffusi tra i giovani e i meno giovani.
Proverei a raccogliere le voci di queste giovani donne, a farne patrimonio prezioso per un rilancio dei territori che non proponga programmazioni costruite dall’alto, ma ahimè anche le voci sparse di chi quei posti li vive e subisce. Nuove istanze culturali e sentimentali non sempre prese in carico dalle organizzazioni sociali ed economiche esistenti, ma comunque validissime per orientare le programmazioni economiche e sociali dei territori e anche per rinnovare strutture che sono percepite sempre di più come lontane ed estranee dai bisogni e dai desideri delle persone in carne e ossa. Che sia un’occasione di crescita e rinnovamento per tutti.
Complimenti all’autrice per la chiarezza e semplicità con cui riesce a veicolare il pensiero e offrire spunti di riflessione utili per intraprendere percorsi di cambiamento
Le sue considerazioni sono preziosissime, egregia e cara Dottoressa Lussu