Quella di Roberto e Piero è una straordinaria storia di riscatto. Due uomini che, vent’anni fa, sono riusciti a lasciarsi alle spalle una lunga vita di ricovero al Cottolengo di Torino (trentacinque anni Roberto, ventiquattro Piero) per «rinascere» liberi nel mondo. “Piero e Roberto hanno dimostrato che, pur partendo da situazioni di estremo svantaggio, ci può essere il riscatto. Vent’anni fa come oggi insegnano che lottare è vivere… Roberto e Piero sono usciti dalla sfera dell’assistenzialismo per entrare in quella dei diritti civili. Hanno rotto il silenzio e il loro riscatto diventa quello di chi oggi sa accogliere la speranza da loro donata, la speranza che nulla, ma proprio nulla è mai perso…”. Appunti per ragionare in modo diverso dei diritti delle persone con disabilità e non solo un giorno l’anno (il 3 dicembre è la “Giornata internazionale”)

Il 3 dicembre è la “Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità”. Questo giorno io lo dedico a Roberto e Piero, due persone straordinarie che purtroppo sono mancate a causa del covid, due grandi amici che tanto mi hanno insegnato e regalato. Roberto, un instancabile lottatore per i diritti dei più deboli. E il suo amico di sempre Piero, con cui aveva avviato una delle prime esperienze di vita indipendente da parte di persone con gravi disabilità, dopo il troppo “tempo senza vita” al Cottolengo di Torino.

Per un anno intero io e Claudia De Figueiredo abbiamo raccolto la testimonianza preziosa della loro vita nel libro Anni senza vita al Cottolengo, Rosenberg & Sellier (2000), una straordinaria vicenda umana di due uomini che sono riusciti a lasciarsi alle spalle una lunga vita di ricovero al Cottolengo di Torino (trentacinque anni Roberto, ventiquattro Pierino, un’eternità di inferno!) per «rinascere» liberi nel mondo.
La loro testimonianza offre ancora oggi la possibilità di rompere quelle gabbie mentali in cui siamo spesso imprigionati: gli stereotipi, i pregiudizi, gli egoismi e i narcisismi. Roberto e Piero hanno buttato giù un muro che altri avevano eretto tra loro, il muro che divideva chi veniva considerato “normale” e chi invece no. Un muro fatto di mattoni, un muro fatto e costruito dalle nostre paure. La paura di aprirci alla diversità e alla sofferenza, il desiderio di vivere nel mondo dei balocchi, dove tutto ciò che richiede sforzo, fatica e sensibilità deve essere tenuto lontano e che sembra sia qualcosa di necessariamente negativo.
Piero e Roberto hanno dimostrato che, pur partendo da situazioni di estremo svantaggio, ci può essere il riscatto. Vent’anni fa come oggi insegnano che lottare è vivere, che una vita senza lotta non è vita, è appiattimento delle coscienze.
Racconta Roberto nel libro citato:
“Ci sono troppi specialisti e poca gente che sa veramente ascoltare i problemi degli altri, che sappia parlare e trovare insieme a loro e non al loro posto delle soluzioni”.
Roberto ha ragione. Oggi tutti parlano e sono esperti di tutto, pochi, pochissimi, invece sanno ascoltare. Ascoltare richiede tempo, pazienza, interesse per gli altri. Ascoltare vuol dire uscire dal nostro mondo per incontrare l’altro e la sua diversità e peculiarità.
La società moderna non sembra conoscere il presente, in una corsa sfrenata verso un futuro che annienta il tempo. Per Roberto e Piero, invece, la riscoperta della lentezza come indispensabile prerogativa per l’ascolto e la costruzione di rapporti profondi è un valore fondamentale. Chi trova questo valore saprà ritrovare il dialogo, non quello che scavalca l’altro, ma quello che si mette in ascolto degli altri, e che in questo modo impara anche ad ascoltare se stesso, il mondo ricco delle proprie e altrui emozioni, impara a non averne più paura.
Roberto e Pierino nel racconto della loro vita parlano di un prima e di un dopo, come se la loro vita fosse stata spezzata in due. La prima vita, quella al Cottolengo era “non vita”. Roberto raccontava spesso come “nessuno l’aveva riconosciuto come figlio, come nipote, come fratello. Nessuna cosa era stata una sua cosa, nessuno degli oggetti che aveva toccato e usato erano stati veramente suoi”. E nel pronunciare queste parole denunciava un fatto che a nessuno si può negare: la necessità di appartenere a qualcuno, a qualcosa, di far parte della vita di qualcuno, di essere nel cuore e nel pensiero di chi ti può accudire e far sentire unico per lui. Senza di questo c’è il vuoto e contro questo vuoto egli “dovrà lottare tutta la vita”. Il vuoto non è solo sofferenza, dolore che fanno parte della vita come la gioia e la felicità; il vuoto è assenza, è un qualcosa che si scava dentro l’anima con cui dovrai far i conti per tutta la tua esistenza. Il vuoto è un danno che richiede un risarcimento.
In un altro intervento, Roberto spiega:
“Mi accorgo di essere vissuto fino a un certo punto senza aver coscienza di me, un uomo senza memoria: così mi sento in certi momenti, quando qualcuno mi chiede di ricordare, di parlare del mio passato e soprattutto della mia infanzia. Guardare indietro, pensare a ciò che è stato significa per me, come per chi soffre di vertigini, affacciarsi dall’ultimo piano di un grattacielo: mi sento cadere nel vuoto, la mia mente diventa come un enorme baratro dove precipito sempre più nel buio man mano che mi avvicino alla mia infanzia. Nessuno mi ha riconosciuto come il suo figlio, come nipote, come fratello; nessuna casa è stata la mia casa. Nessuno degli oggetti che ho toccato, usato, è stato veramente mio. Della mia prima infanzia non saprò mai più nulla, perché non c’è nessuno che me la possa raccontare. Ho dovuto e dovrò lottare tutta la mia vita contro questo vuoto.
Ogni giorno mi dico che devo andare oltre questa mancanza. So solo quel che sono oggi: un uomo di cinquantacinque anni affetto da tetraparesi spastica, provocata con molta probabilità da un trauma da parto. Nei miei ricordi non c’è il bambino che sono stato, c’è solo una grande camerata dove – anche se intorno a me c’erano tanti altri bambini, tante altre persone, – io mi sono sentito tremendamente solo. Questo è stato il mio più grande handicap: non avere nessuno che mi accettasse per quel che ero, che amasse proprio me. La mia infanzia è dentro di me come una ferita profonda…”
Roberto e Pierino hanno fatto fatica a tornare a quei giorni bui, a richiamare alla memoria fatti e emozioni. L’hanno fatto per noi, perché non si possa dimenticare, far finta di non sapere o di non capire, perché non si abbia più la presunzione di decidere per altri. L’hanno fatto come impegno civile. Ci hanno fatto entrare nel loro mondo più segreto, hanno aperto la loro anima, hanno fatto riemergere le ferite che gli sono state inflitte per aiutarci a comprendere, per sollecitarci a lottare per costruire un mondo migliore, un mondo in cui loro hanno creduto nonostante gli fosse stato dipinto fin dall’infanzia come ostile, cattivo e pericoloso. Se ciò che c’è dentro di noi rimane in noi parola non ascoltata, il pericolo è che qualcuno se ne appropri e la faccia sua: che dica “non è in grado di… e parli sempre per lui, decida per lui. Ecco l’importanza delle storie che emergono dal silenzio di luoghi nati per mettere a tacere l’individuo e omologarlo ad una storia comune indifferenziata.
Roberto e Piero hanno saputo uscire dalle catene che gli avevano costruito gli altri, sono diventati protagonisti della loro vita, sono usciti dal ruolo che, per troppi anni, è stato loro attribuito, in cui sono stati relegati. Non solo hanno ritrovato quella dignità che gli era stata tolta, ma con la loro testimonianza hanno aperto nuove porte e possibilità anche agli altri. La loro vita è un atto di denuncia nei confronti di chi non credeva nelle loro possibilità, ma si arrogava il diritto di decidere per loro.
Essi hanno progettato la loro vita, hanno lottato giorno per giorno perché gli fossero riconosciuti dei diritti. Sono usciti dalla sfera dell’assistenzialismo per entrare in quella dei diritti civili. Hanno rotto il silenzio e il loro riscatto diventa quello di chi oggi sa accogliere la speranza da loro donata, la speranza che nulla, ma proprio nulla è mai perso.
Quando l’altro finalmente parla, irrompe nella nostra coscienza e il suo dire è appello che esige risposta.
Hanno dovuto “imporre” la loro presenza là dove non era prevista (cinema, strade, locali…). Lottare ogni giorno per far cadere le barriere che non gli permettevano una vita come gli altri. Nulla gli è stato dato senza lotta, senza superare le loro stesse resistenze, le loro paure. E al loro fianco si sono mosse altre persone, hanno lottato con loro che, usciti dall’istituto, sono tornati a scuola, hanno trovato una casa e hanno iniziato il loro cammino verso l’autonomia.
Può capitare, quindi, che delle sbarre siano spezzate e che i percorsi mentali che prima di allora credevamo obbligati subiscano dei cambiamenti. È questo il momento nel quale delle certezze si aprono al dubbio e lasciano intravedere orizzonti diversi.
«Si può vedere – dice Sacks – una stessa persona come irrimediabilmente menomata o così ricca di promesse e di potenziale»
Riconoscere, accettare la propria diversità non deve necessariamente voler dire essere etichettati, emarginati, appartenere a una «categoria» che non conosce al suo interno differenziazione, che non permette la costruzione di una propria identità, di una propria soggettività. Non vi può essere un autentico soggetto laddove l’esistenza si risolve nello svolgere un ruolo predisposto da altri al posto tuo. Si diventa soggetti quando c’è possibilità di scelta. E quanto più le tue scelte sono limitate per le tue condizioni fisiche, mentali o psichiche tanto più quello spazio di libertà va assicurato, difeso e protetto. Accettare il proprio handicap significa, allora, conoscere i propri limiti, ma anche poterli affrontare e poter scoprire soprattutto le proprie potenzialità. «Non ci si può basare su quello che manca in un certo bambino, su quello che in lui non si manifesta, ma bisogna avere una sia pur vaga idea di quello che possiede, di quello che è», dice Lev Semënovič Vygotskij.
Le diagnosi, le classificazioni a volte inevitabili, non devono mai enunciare una situazione irreversibile, ne tanto meno uno «status sociale». Bisogna sempre riportare al centro dell’attenzione la persona con la sua identità e individualità. Solo allora avremo un «chi» e non un «che cosa».
È illuminante sbirciare ancora con attenzione tra le parole di Piero: “Quel che è più importante è che io vivo in modo normale, gli altri adesso vedono in me “Piero” e non più “un handicappato che si chiama Piero“. E quelle di Roberto: “La mia vita sarebbe stata diversa se… Non voglio pensare a quel che sarebbe potuta essere […] quel che conta è che ora ho riconquistato la mia dignità di uomo. Lotterò per sempre perché questo diventi un diritto acquisito di tutti […]. Io oggi sono un uomo perché ho affrontato questo mondo, perché questo mondo deve affrontare me e le mie difficoltà […]. Ed è contro certe mentalità, contro le barriere della nostra mente”.
Molto triste questa storia …
Io vi leggo sempre … e questa storia è molto triste. Io sono una dottoressa, anche psicologa, se fossi stata vicina a loro me ne sarei occupata con molto piacere.