Se la salute non è più vista da tempo come assenza di malattia, ma è pienezza del vivere e comporta dunque la capacità di adattamento e di autogestirsi di fronte alla sfide sociali, fisiche ed emotive – come ha tardivamente riconosciuto anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità – non dovrebbe esser poi così strano associarla alla costruzione di vera autonomia. È quel che dice, guardando a un confronto di esperienze storiche piuttosto sorprendente e fino ad ora – per quanto ne sappiamo – inedito, questo articolo di Raúl Zibechi. Traendo spunto da un piccolo pamphlet circolato in Messico e intitolato “L’autodifesa medica. Black Panthers and Zapatistas”, Raúl recupera, cinquant’anni dopo, tutta la rilevanza di una scelta politica, quella del notissimo movimento nero degli anni Sessanta del secolo scorso, su cui tutto è stato scritto, mettendone in luce un tratto a dir poco trascurato. Si tratta di un’esperienza di lotta, molto autonoma, contro le idee, i meccanismi e le istituzioni statali che riducono i pazienti a oggetti passivi esercitando una violenza materiale e simbolica contro le comunità più impoverite. Nel caso dei Panthers sono i neri, in quello del Chiapas sono gli indigeni a far vivere, nelle pratiche, il concetto di “autodifesa medica”, che forse qui sarà più facile declinare in autogestione della salute e della cura del corpo e della mente, un concetto che in ogni caso trascende facilmente, per dirla col linguaggio abituale tra le montagne del Sud-est messicano, calendari e geografie

Più di mezzo secolo fa, il Black Panther Party fu probabilmente una delle prime organizzazioni a lanciare un sistema sanitario alternativo a quello del sistema egemonico. L’opuscolo “L’autodifesa medica. Black Panthers and Zapatistas”*, non solo rivela le similitudini tra le due esperienze di salute, ma descrive in dettaglio i risultati ottenuti dal movimento nero americano.
Il Black Panther Party for Self-Defense si è formato nel 1966 dopo la rivolta della comunità nera di Hunters Point, a San Francisco, repressa dalla guardia nazionale con le baionette nello stesso stile con cui si combattevano i guerriglieri nella guerra del Vietnam, come fu poi riconosciuto dal capo dell’operazione
Il concetto di “autodifesa medica” è stato concepito come una difesa contro i dispositivi medici e farmaceutici che riducevano le comunità nere a terreni di sperimentazione, ma anche come un modo di riappropriarsi delle conoscenze mediche che riducono i pazienti a oggetti passivi esercitando una violenza materiale e simbolica contro le comunità più impoverite.
Dal 1968 i Panthers aprirono cliniche nei quartieri neri di diverse grandi città, come Chicago, Seattle, Kansas e Missouri, tra le prime, che chiamarono Free People’s Clinics e si espansero poi in tredici città. Entrarono a far parte di un ampio movimento radicale di cura promosso, tra gli altri, dal movimento femminista per la salute. Avevano il supporto di personale medico volontario e si occupavano non solo della sanità ma anche dell’educazione e dell’organizzazione della popolazione.
Nell’ambito della loro politica di autodeterminazione per la popolazione afrodiscendente, i Panthers decisero che le comunità avrebbero preso in mano la propria salute, ma allo stesso tempo crearono Programmi di Sopravvivenza, mettendo in evidenza scuole primarie gratuite, colazioni, consulenza legale e sanitaria gratuite, compreso un programma odontoiatrico, campagne di vaccinazione e cooperative abitative. Pensavano in modo molto chiaro che non si trattava di assistenzialismo ma di un passo per la costruzione di potere nelle comunità.
Per attrezzare gli ambulatori avevano avuto il sostegno di personale medico che donava apparecchiature di radiologia e forniva vari servizi, come pediatria, formazione di attivisti come tecnici di laboratorio e personale di primo soccorso. In questo modo, alcune cliniche delle Black Panther riuscivano a curare un centinaio di pazienti a settimana.
Un caso particolare fu quello dell’agopuntura. Due gruppi dei Panthers andarono in Cina per conseguire una formazione che permise loro di apprendere l’agopuntura, che in seguito praticarono come tecnica per trattare la dipendenza e lo stress post-traumatico. Fu questo movimento che introdusse l’agopuntura negli Stati Uniti.
Furono organizzati anche convegni di sopravvivenza comunitaria che duravano diversi giorni, feste di quartiere e forme di protesta collettiva in cui si raccontava la storia dei neri e si promuovevano le cliniche libere e gratuite. Utilizzarono un autobus adibito alle visite nelle carceri per parenti e amici dei detenuti e riuscirono a trovare il modo per fare migliaia di test gratuiti sull’anemia falciforme, che colpisce principalmente le comunità nere e che all’epoca non erano coperti dal governo.
Come sottolinea il lavoro citato, “i Panthers hanno avuto un’enorme influenza sulle iniziative per la salute, influenza che va oltre l’organizzazione stessa e i suoi anni di attività”.

Penso che tutto questo investa una questione centrale. L’influenza dei Panthers, in questo caso, trascende geografie e calendari, cosa che avviene in effetti anche nel caso del movimento zapatista. Le conquiste del movimento nero hanno più di 50 anni ma solo di recente abbiamo potuto recuperarle e apprezzarne a pieno l’importanza.
Forse è ancora presto per capire l’importanza e la trascendenza dell’esperienza zapatista. Sappiamo che essa ha avuto un impatto in tutto il mondo e che le autonomie stanno continuando a crescere in tutti gli angoli del continente latinoamericano. Sappiamo che la legittimità e il prestigio di quanto è avvenuto e avviene in Chiapas supera i confini messicani. Eppure ci vorranno probabilmente anni prima di poter assumere in pieno che siamo di fronte a una delle rivoluzioni che hanno trasformato il modo di vivere dei popoli e la cultura politica de los e las de abajo.
Fonte e versione originale in Desinformémonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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